Un film da non perdere, anche se non sarà facile trovarlo
L'esodo degli ebrei dai paesi arabi
Testata:
Data: 12/11/2004
Pagina: 35
Autore: Ulderico Munzi
Titolo: Figli di un Dio ferito, vi mettterò in un film
Sul Corriere della Sera del 12-11-04 è uscita una intervista a Pierre Rehov, che possiamo definire estremamente interessante. Il suo film, che non sappiamo se uscirà nelle sale normali (ne dubitiamo però fortemente) va seguito per scoprire quando e dove verrà proiettato. Leggere l'intervista per capire l'eccezionalità del film. E complimenti a Ulderico Munzi per il suo servizio.
Intervista al regista, nato in Algeria, sulle ferite aperte del Medio Oriente, il terrorismo globale e la minaccia islamista
«Figli di un dio ferito, vi metterò in un film»
Pierre Rehov racconta l'esodo degli ebrei dai Paesi arabi dopo la fondazione di Israele
PARIGI — Pierre Rehov è un regista che condivide gli stessi giorni di un'umanità sofferente, insanguinata e fatta a pezzi dal terrorismo. Un regista sur le terrain, che "va sul posto" con la cinepresa in spalla e che ha un gran cuore coraggioso. Forse bastano queste poche parole per capire che con Rehov, 50 anni, ebreo nato in Algeria, bisogna parlare senza perdersi in sottigliezze e arabeschi.
Il suo film «The silent exodus», l'esodo silenzioso, che narra come nel 1948 un milione di ebrei furono depredati ed espulsi dagli arabi, evoca un dolore che si protrae, che ha perso date e riferimenti, una saga dolorosa out of time, out of space come nei versi di Poe.
«Il mio film — dice Pierre Rehov — è stato proiettato al Festival dei diritti dell'uomo a Parigi e alle Nazioni Unite, a Ginevra, più o meno nello stesso quadro. Nel ventesimo secolo l'espulsione degli ebrei dai Paesi arabi non era una risposta alla creazione dello Stato d'Israele, ma qualcosa di più complesso che faceva seguito a odio diffuso, umiliazioni e pogrom nati ed esplosi nella società islamica nei secoli passati. Quei rifugiati venivano dal Marocco, dalla Siria, dalla Tunisia, dalla Libia, dallo Yemen e dall'Egitto. Molti hanno taciuto per pudore, altri per dimenticare l'esperienza subita, specie le donne violentate e chi ha subito sevizie vergognose. Come una sorta di contraltare, la seconda parte del film parla dei rifugiati palestinesi. In sostanza volevo sfatare una mitologia vittimistica che dipinge i palestinesi che da cinquantacinque anni vivono nei "campi". In realtà si tratta di periferie e il termine "campo" è usato per motivi politici. Sono chiamati rifugiati quando non lo sono più. Ho puntato la mia cinepresa sulle complicità che hanno creato tale situazione».
Signor Rehov, il suo nuovo progetto, invece, parlerà dei figli prediletti di un dio feroce, dei kamikaze del terrorismo, delle bombe umane.
«Arrivato ormai agli ultimi metri di pellicola, il film vuole indagare nei recessi più intimi, più profondi di coloro che sacralizzano la strage in Occidente e in Oriente. La psicopatologia degli islamikaze, immagine che preferisco. Cioè, come nella vicenda di un serial killer, abbiamo un individuo, in un determinato contesto socioculturale, un essere umano che è stato bambino coi suoi giochi, poi adolescente su un terreno di football… Come può un bel giorno decidere di "farsi esplodere" morendo e portando con sé giovani della sua stessa età, donne, vecchi e bambini? Per concludere l'opera mi mancano le interviste di due candidati suicidi, non perderò nemmeno una sequenza».
Taluni sostengono da tempo, signor Rehov, che il terrorismo sfrutti dei "sepolcri imbiancati". Lei ha citato poco fa le complicità per i rifugiati palestinesi. Vuole essere più chiaro? «Prendiamo la Francia che, sotto la maschera del diritto d'asilo, ha la sua parte di responsabilità nelle azioni di Khomeini, che era suo ospite prima di andare in Iran. La Francia non ha accolto Abu Nidal e il dottor George Habbash, alfieri del terrore? Ha ospitato, sempre in nome dei diritti dell'uomo, un terrorista della peggior specie come Arafat, inventore del terrorismo moderno. Io accuso non solo la Francia, ma anche l'Europa per il modo come, attraverso i media, è trattato il problema israelo-palestinese. Contesto le menzogne dei giornalisti di solito rifugiati in un grande e famoso albergo e ricattati dagli stessi giovani palestinesi che vanno a fare ricerche per loro conto sugli avvenimenti. E per finire dico che la Francia non ha una democrazia sana».
Intende dire una Francia filoaraba?
«Io direi una Francia araba. Si poteva definire "filoaraba" all'epoca di de Gaulle, prima che ci fossero dieci milioni di immigrati nella società francese ormai di fatto occupata».
Ma ci sarà bene un arabo che lei apprezza, a parte il filosofo Averroè che insegnava filosofia a Cordova nel XII secolo?
«Io non sono antiarabo. Sono nato in Algeria, i miei compagni di scuola erano arabi, sono fiero di avere molti amici nei territori palestinesi, arabi laici e progressisti. Non ce l'ho con l'Islam, con la lettera maiuscola. Faccio la guerra all'integralismo islamico, agli islamisti. Per ora guerreggio intellettualmente, ma presto temo, ahimè, che mi batterò fisicamente. Il mio primo bersaglio è la vigliaccheria del mondo occidentale».
Lei, dunque, prevede questa guerra tra due civiltà.
«C'è poco da prevedere. Siamo già in guerra, anche se nessuno osa dirlo. L'Occidente si è perso di vista, si sta cercando, si trova alla fine della propria visione materialistica ed esistenziale. Va alla deriva verso la decadenza, trascinato da ondate di paura. Ricorda com'era fiero l'Occidente della conquistata libertà sessuale? La gioia si è spenta con la diffusione dell'Aids. E i valori di libertà individuale, di fronte, per esempio, a quello specchio deformante che era l'Urss? Ci cullavamo nella democrazia liberale, tutta luci come una kermesse, poi ecco che il nemico comunista scompare. La nostra scienza non basta più, la nostra tecnologia, nemmeno, in realtà noi non "ci" amiamo più… Ricordo che restava l'illusione di un mondo arabo da "coltivare". E il mondo arabo, con il quale avevamo "amoreggiato" negli Anni Quaranta per strapparlo ai nazisti e più tardi, in Afghanistan, per strapparlo ai russi, rifiuta il nostro modernismo. Non può accettarlo perché mette in causa i suoi stessi valori. Maometto è l'ultimo profeta e dopo di lui nulla può essere aggiunto. Abbiamo trovato un Islam retrogrado, in Indonesia, in Sudan, in Kosovo, in Medio Oriente… Ormai siamo circondati se non invasi».
Quindi lei teme che ogni arabo (per intenderci: l'arabo della porta accanto) da un giorno all'altro possa trasformarsi in un guerriero fondamentalista?
«La differenza tra un musulmano estremista e un musulmano moderato non è basata su una nozione dogmatica, ma su una nozione temporale. Il primo crede nella profezia che l'Islam sarà la sola religione nel mondo perché Allah lo vuole, quindi è suo dovere combattere subito per accelerare il corso degli eventi. Anche il secondo pensa che l'Islam diventerà la sola religione nel mondo, ma ciò avverrà, direi, naturalmente, man mano, quindi tollera ebrei e cristiani. In termini più cronistici, bin Laden e i suoi seguaci attaccano prima le statue di Buddha a Bamyan, grande simbolo religioso, e poi, circa due mesi dopo, il World Trade Center che non è il simbolo dell'Occidente, ma il simbolo del giudeocristianesimo. I grattacieli appartengono agli ebrei e si ergono a New York, prima città ebraica del mondo, il tutto inoltre si trova nel cuore del business cristiano. Il risultato di tutto ciò è che su un miliardo 350 milioni di musulmani (che prima delle statue di Buddha e delle Torri gemelle potevano essere divisi in un miliardo di moderati e 350mila estremisti) in poche settimane Bin Laden è riuscito a convertirne alla jihad forse il venti per cento. Ha creato cioè duecento milioni di nuovi seguaci. Bin Laden ha vinto, anche se provvisoriamente. Il suo Islam può essere annientato solo da una sconfitta totale delle truppe del terrore arabo-islamista».
Non credo che nessuno possa offrire una ricetta per debellare il terrorismo islamista, nemmeno un esperto come Walter Laqueur del Center for Strategic and International Studies.
«L'Europa è il ventre molle della strategia arabo-islamista, fino a poco tempo fa si faceva ancora la distinzione tra l'Hamas sociale e quello guerriero. Terrorizzare il terrorismo? Non si potranno mai terrorizzare i terroristi perché sono dei fanatici per i quali la morte vale più della vita. La fede musulmana è molto più forte della fede occidentale. Restano solo due bastioni contro il terrorismo islamico, Israele e gli Stati Uniti. In Europa l'Islam ha già vinto».
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla direzione del Corriere della Sera. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.
lettere@corriere.it