Ci sono giornalisti che quando non sanno più cosa scrivere ricorrono alle accuse nei confronti di Israele, sapendo in tal modo di inserirsi in un filone di sicuro successo. Che le accuse siano fantasiose o no poco importa. Basta che siano coerenti con gli standard della demonizzazione.
L’articolo di Sandro Viola, due pagine fitte, sembra seguire questo cliché.
Avendo speso tutte le parole di elogio e di idealizzazione di Arafat quando era ancora in vita, ora Viola ne mette in risalto la natura intrinseca di bugiardo impenitente, di persona assolutamente inaffidabile per chiunque: ma non arriva alle estreme conseguenze di questo ritratto che pare impietoso a prima vista, ma in realtà è solamente congegnato in modo da esaltare altre virtù del defunto, il coraggio, la lungimiranza, l’ astuzia e la tenacia.
Quel che manca è una considerazione che a nostro modo di vedere è invece essenziale per comprendere gli avvenimenti politici degli ultimi 10 anni, in particolare il fallimento degli accordi di Oslo, poi di quelli di Camp David e di Taba, infine ogni altro tentativo di trovare una soluzione di compromesso dignitosa ed accettabile: se un leader è un bugiardo inaffidabile, lo è anche quando conclude un accordo. La sua firma in calce all’ accordo vale zero, se così gli conviene che sia. Le sue scelte sono dettate da motivazioni non nobili bensì funzionali al suo ego ipertrofico ed al suo bisogno di detenere tutto il potere. Ci sia lecito esprimere il sospetto che siano proprio questi i motivi per cui Viola tace su queste considerazioni così naturali e spontanee: non gli permetterebbero di glorificare Arafat e demonizzare Israele.
E veniamo ad alcuni passaggi del lungo articolo, il cui senso complessivo risulta già evidente dalle riflessioni appena fatte.
Parlando del problema dei profughi Viola afferma che "settecentomila (palestinesi) erano stati espulsi dalle loro case nella guerra del 48-49". Pertanto, egli deliberatamente sceglie di ignorare le fonti storiografiche – anche arabe – dalle quali risulta che la maggior parte di questi palestinesi non fu espulsa dagli israeliani, ma sollecitata ad abbandonare le case dagli arabi, che promisero loro di riportarli vincitori a spartirsi le spoglie dei vinti. Che poi egli taccia sul numero quasi uguale di ebrei espulsi con i soli vestiti indosso dagli stati arabi, tutti assorbiti in Israele a differenza di quanto accadde ai palestinesi negli stati fratelli in cui ancora oggi sono dei reclusi privi di molti diritti, che taccia sul fatto che quei 700.000 profughi sono diventati 5 milioni a causa di un calcolo politico di Arafat che in tal modo vorrebbe distruggere Israele, che Viola taccia su tutto ciò non fa che completare il quadro.
Ugualmente, Viola in due passaggi almeno dell’ articolo sostiene che Israele ha tolto ai palestinesi case, terra,acque ed identità. E sull’ identità riteniamo di doverci soffermare: una identità che fino al 1967 non era esistita, conculcata e negata dal mondo arabo nella sua totalità e mai percepita dai palestinesi stessi. E dopo il 1967 questa identità ha dovuto essere affermata dai palestinesi nei confronti innanzi tutto del mondo arabo, non di Israele.
Arafat terrorista? Sì, ammette a denti stretti Viola, ma poco poco, giusto quanto basta per permettere ai "pezzenti accampati nel fango tra Siria, Libano e Giordania" di non abbassare la testa quando incontravano "una pattuglia israeliana". E del resto anche Israele aveva "largamente, sanguinosamente" usato il terrorismo; peccato che Viola non racconti tutta la verità, che cioè il terrorismo di alcune bande sioniste era diretto contro la presenza coloniale inglese più che contro gli arabi, e che comunque esso fu aspramente condannato dalle istituzioni ufficiali del sionismo. Mentre quello dell’ OLP aveva per obiettivo non solo israeliani, ma anche ebrei di altre nazioni, e non solo militari ma soprattutto civili, e scolaresche intere quando ne capitava l’ occasione.
Viola non conosce questi fatti? O forse semplicemente cerca di rendere onore al bugiardo Arafat raccogliendo questo suo vizietto? La conclusione dell’ articolo fa riflettere a questo proposito: negli ultimi tempi "(Arafat) manteneva strette in mano le magre finanze dell’ Autorità Palestinese". Suha, vedova inconsolabile, potrebbe facilmente smentirlo, dall’ alto della sua pila di milioni di dollari alla quale si deve la considerazione che le finanze dell’ Autorità Palestinese fossero così magre.
Ugualmente, forte della solidarietà del britannico Guardian, Viola brandisce una volta di più la sua arma segreta: per tutti i governi d’ Israele, di destra e di sinistra, "la rivolta all’occupazione,la resistenza all’annessione strisciante dei Territori erano solo e soltanto terrorismo antisemita". Se non sapessimo che c’è sempre qualche anima candida che ci casca, potremmo dire che questo tentativo ossessivo di Viola di far credere che gli israeliani e gli ebrei in genere siano gentaglia in mala fede che non tollera alcuna critica è oramai penoso e tale da denotare un suo rapido invecchiamento cerebrale.
Concludiamo con le parole di Viola, modificandole in parte: "Sommatesi l’ una all’ altra, la menzogna di Arafat e quella dei governanti d’ Israele hanno prodotto la catastrofe" scrive Viola, e noi invece : sommatesi l’ una all’ altra, la menzogna di Arafat e quella dei giornalisti come Viola, hanno prodotto solo disinformazione.
Ecco l'articolo:Physique du rôle, questo no. Fisicamente, Yasser Arafat sembrava più un bottegaio egiziano o libanese che uno statista o un condottiero. Piccolo e grassoccio, la calvizie nascosta dalla keffyah, indosso una strana uniforme perennemente stazzonata. I modi che mostrava col visitatore straniero erano troppo cordiali, un po´ untuosi. Pochi si salvavano infatti dall´essere baciati due o tre volte sulle guance. Italiano? L´Italia è il paese che sentiamo più vicino alla nostra causa. Venezuelano, belga, giapponese? Lo stesso. E intanto i famigli già arrivavano con caffè, tè, grandi bicchieri d´acqua fredda e pacchetti di cattive sigarette Kent.
Per un giornalista, era quanto di più inaffidabile si possa immaginare. Parlava troppo, si contraddiceva ad ogni piè sospinto, a volte negava ruggendo quel che aveva detto a chiare lettere appena il giorno prima. Danny Rubinstein, il giornalista israeliano autore d´una delle tante biografie di Arafat, racconta un episodio che sembra incredibile ed è invece sicuramente vero. Alla vigilia della guerra del Golfo, nel 1991, il palestinese era stato con il re di Giordania l´unico leader arabo a prendere le parti di Saddam Hussein. Gli altri erano o entrati nella coalizione allestita sotto le bandiere dell´Onu, o quanto meno - come nel caso di Gheddafi - tacevano corrucciati. Arafat no, lui difendeva Saddam e tuonava contro la guerra decisa da George Bush padre. Ma l´anno dopo, quando Rubinstein andò a intervistarlo nell´esilio di Tunisi e gli chiese come mai avesse preso una posizione tanto sbagliata, la risposta fu stupefacente: «Io schierato con Saddam? Ma che dice, di che sta parlando, chi le ha raccontato questa frottola?».
Sì, bugiardo. Basta pensare che non s´è mai riusciti a capire bene dove fosse nato. La versione più attendibile - sostenuta a quanto pare da qualche documento - è che avesse visto la luce al Cairo nel 1929. Ma a lui, in quanto leader della nazione palestinese, conveniva dire d´esser nato in Palestina. Solo che faceva una gran confusione sul luogo di nascita: una volta dicendo Gerusalemme, un´altra Gaza. Del resto, la sua carriera era cominciata proprio a forza di falsità, esagerazioni propagandistiche, fandonie.
S´era nel 1965, e il gruppo che Arafat aveva fondato qualche anno prima, al Fatah, cominciò a organizzare i primi attentati in territorio israeliano. Poca roba, qualche congegno esplosivo che spesso non esplodeva. Ma all´indomani d´ogni operazione armata dei suoi uomini (che operavano dal Libano, dalla Giordania, o dalla Striscia di Gaza allora sotto controllo egiziano), nei villaggi palestinesi venivano distribuiti centinaia di volantini che raccontavano di danni giganteschi inferti all´esercito israeliano: carri armati distrutti, depositi di munizioni fatti saltare, battaglioni d´ebrei in fuga.
L´apice di queste rodomontate fu raggiunto nel ?68, quando gli israeliani tentarono una spedizione punitiva contro il villaggio di Karameh, subito al di là del Giordano, da dove partivano le incursioni dei palestinesi. All´approssimarsi dei tank d´Israele, Arafat e i suoi guerriglieri si dileguarono: ma i giordani intervennero, lo scontro fu duro, gli israeliani persero ventisette uomini e una decina di carri. Bene: l´indomani Arafat sguinzagliò in tutta la Cisgiordania occupata i suoi attivisti, che andando di porta in porta e distribuendo volantini attribuirono ad al Fatah la vittoria di Karameh. Non era vero, ma funzionò. I palestinesi ci credettero.
Fu allora, trentasei anni fa, che il suo genio politico affiorò evidente. Arafat (che intanto s´era dato un nome di battaglia, Abu Ammar) aveva capito infatti una cosa fondamentale: che i palestinesi erano pronti alla resistenza. Settecentomila erano stati espulsi dalle loro case con la guerra del ?48-´49, decine di migliaia erano fuggiti dinanzi al dilagare dell´esercito israeliano nel ?67, e quelli che erano restati a Gaza e in Cisgiordania vivevano adesso sotto l´occupazione militare. Questo mentre in Israele affioravano i progetti espansionistici: mentre i religiosi inneggiavano al recupero delle terre bibliche, e persino tra i laici si faceva strada l´insensata certezza che Gaza, la Giudea e la Samaria, le alture del Golan e Gerusalemme sarebbero state pian piano annesse nel totale silenzio della comunità internazionale, e senza vere, preoccupanti reazioni da parte palestinese.
Non era così. Tra i palestinesi, il sentimento dell´ingiustizia subita, la separazione delle famiglie, i primi espropri di terre per uso militare (più tardi sarebbero venuti espropri assai più vasti e spietati per installare le colonie ebraiche), s´andavano componendo in un moto di rivolta. E Arafat rappresentò per il suo popolo la possibilità di rivoltarsi. Gli offrì l´abbozzo d´una organizzazione politico-militare capace di colpire l´occupante, e allo stesso tempo di trascinare la questione palestinese sulla scena internazionale. Così che il mondo potesse giudicare di chi erano le ragioni, e di chi i torti, per quel che stava accadendo in Palestina.
Il pensiero che un partito della resistenza fosse ormai in campo per opporsi all´occupazione, rianimò un popolo sconfitto cui si stava strappando tutto: la terra, le acque, l´identità. Accese tra le baracche dei profughi la speranza d´ottenere, un giorno, giustizia. Sembra incredibile, perché al Fatah era a quel tempo una realtà trascurabile tanto sul piano militare quanto su quello politico. Eppure Yasser Arafat riuscì a trasformare il mondo palestinese: le masse di pezzenti accampati nel fango tra Siria, Libano e Giordania, la popolazione di contadini che da Nablus a Gaza chinavano la testa ad ogni incontro con una pattuglia israeliana, la piccola borghesia e gli intellettuali di Gerusalemme. In sei o sette anni li trasformò in una nazione che esigeva il proprio diritto all´indipendenza. E infatti i palestinesi lo chiamavano al Walid, il padre fondatore.
Il metodo di lotta di al Fatah era il terrorismo? Sì: lo stesso metodo con cui si combatteva nella regione già da vari decenni, e che era stato largamente, sanguinosamente usato dai sionisti per giungere alla fondazione d´Israele. Intanto, la leggenda di Al Walid lievitava. Non solo adesso Arafat viaggiava per tutto il mondo ricevuto con rispetto da ministri e leader politici, ma sembrava assistito da una straordinaria fortuna. Un gatto: Abu Ammar ha sette vite come un gatto, ci dicevano beati i palestinesi nei caffè di Hebron o nelle botteghe di Nablus. E infatti, quante volte era sfuggito alla morte.
Lui si vantava d´aver subito quaranta attentati, e questa era una delle sue tipiche fandonie. Ma che gli israeliani avessero cercato in molte occasioni di farlo fuori, questo è certo. L´avevano inseguito a sud del Libano, nell´´82 a Beirut bombardavano ogni notte gli edifici in cui si pensava fosse andato a dormire, a Tunisi nell´´85 gli aerei scaricarono una ventina di missili sul suo quartier generale, nel marzo 2002 gli ridussero in macerie gli uffici della Moqata a Ramallah.
Entrate nel folklore palestinese, divenute letteratura patriottica, queste avventure gli avevano conferito un alone d´invincibilità. Sicché anche nel pieno delle crisi peggiori, quelle che sembravano definitive (la fuga da Amman nel ?70, la cacciata da Beirut nell´´82), i palestinesi sapevano che prima o poi sarebbe tornato in scena. E infatti a un certo punto, immancabilmente, vi tornava. Come la mattina che tornò a Gaza, nel ?94, dopo i dodici anni dell´esilio tunisino, e noi cronisti assistemmo a scene d´entusiasmo mai viste prima, folle immense che gridavano, piangevano, illuse d´essere alla fine del loro calvario.
Negli ultimi tempi era diverso, perché le dimensioni della catastrofe, i lutti, la miseria erano divenuti tali che i palestinesi non potevano non imputare ad Arafat le imprevidenze e gli errori della seconda Intifada. Ma per trent´anni il suo popolo lo ha adorato. Perché aveva impersonato la speranza del riscatto, e fatto rinascere dalle ceneri, dopo tante sconfitte e umiliazioni, l´orgoglio e l´identità palestinese. Un´identità negata inesorabilmente - sino agli accordi di Oslo, e poi di nuovo con l´avvento di Sharon - dai governi israeliani, non importa se buoni o cattivi, di destra o sinistra, per i quali la rivolta all´occupazione, la resistenza all´annessione strisciante dei Territori erano solo e soltanto terrorismo antisemita.
E, certo, il declino di quest´ultimo anno non avrebbe potuto essere più malinconico.
I giorni gloriosi della cerimonia nel giardino della Casa Bianca con Clinton e Rabin, e quelli del Nobel per la pace, erano ormai lontani. Adesso era confinato nella Moqata senza potersi muovere, poche stanze puzzolenti da cui usciva nelle belle giornate, come i carcerati all´ora d´aria, per sedersi sui gradini verso il cortile con gli occhi rivolti al cielo. L´ondata dei kamikaze, il fondato sospetto che egli vi avesse in certa misura a che fare, avevano diradato le visite importanti. Manteneva strette in mano le magre finanze dell´Autorità palestinese, e da questo traeva l´ultimo residuo del vecchio potere.
Indicare quale sia stata la massima delle colpe di Yasser Arafat, non è difficile. Fu quella di non aver mai detto alla sua gente tutta la verità: e cioè che il ritorno alle terre abbandonate nel ?48, non sarebbe più stato possibile. Che bisognava sapere in partenza che Israele era ormai una realtà inamovibile, per cui il massimo da ottenere dopo un accordo di pace era un compromesso: dare qualcosa per ottenere in cambio qualcos´altro. E invece Arafat non fu mai chiaro. Non seppe o non volle estirpare dalla testa dei palestinesi l´idea d´una rivincita totale. Non disse mai, ai profughi che le conservavano gelosamente, di gettar via le chiavi dello loro case perdute, dato che in quelle case nascevano ormai da decenni bambini israeliani.
In questo tragico errore, egli non era d´altronde solo. Anche la classe politica israeliana, infatti, taceva ai propri elettori la verità. Vale a dire che non si sarebbero potute mantenere all´infinito le terre conquistate nel ?67, che il progetto d´una Grande Israele s´era rivelato insostenibile, e che al popolo palestinese andavano riconosciuti i suoi diritti. Sommatesi l´una all´altra, la menzogna di Arafat e quella dei governanti d´Israele hanno prodotto la catastrofe.
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