A pagina 13 dell'UNITA' di oggi, 10-11-04, Umberto De Giovannangeli intervista Bassem Eid, direttore del Palestinian Human Rights Monitoring Group che contesta le violazioni dei diritti umani da parte dell'Anp.
Eid attribuisce violazioni analoghe a Israele, anche se non risulta che Israele imprigioni per reati d'opinione o torturi per ottenere confessioni i sospettati, come avviene nell'Anp. Da u.d.g. non viene nessuna contestazione a queste affermazioni di Eid.
Ecco l'articolo, "E' stato un simbolo ma sui diritti ha fallito"DALL'INVIATO
RAMALLAH «Yasser Arafat è stato un simbolo e la bandiera di un popolo orgoglioso, in lotta per la propria autodeterminazione. E come simbolo ha funzionato e va celebrato. Ma come statista, no, perché ciò che ci ha lasciato in eredità è una classe dirigente corrotta». Ad affermarlo è una delle figure più rappresentative della società civile palestinese: Bassem Eid, giornalista, direttore del Palestinian Human Rights Monitoring Group (Phrmg), organizzazione indipendente fondata nel 1996 allo scopo di monitorare il deterioramento dello stato della democrazia e dei diritti umani nei Territori amministrati dall'Autorità nazionale palestinese. Per le sue denunce sugli abusi perpetrati dall'Anp, Eid ha conosciuto anche il carcere palestinese. Per il suo impegno a favore dei diritti umani, ha ricevuto importanti riconoscimenti internazionali.
I palestinesi è il «dopo Arafat». Cosa spera e cosa teme di più nell'immediato futuro?
«Non è facile individuare un suo successore. E questo per responsabilità dello stesso Arafat. Perché nei passati 14 anni, Arafat si è sempre tenacemente opposto alla nomina di un vice. Ci ha lasciato in uno spazio vuoto. Non solo la popolazione ma la leadership palestinese. E in questo spazio vuoto tutto è possibile: congiure di palazzo, guerre tra bande, faide familiari. Per tre volte negli ultimi 14 anni il Comitato centrale dell'Olp gli aveva chiesto di nominare un vice, e Arafat ha sempre replicato sprezzante: che volete, che io muoia. Si è comportato come se fosse certo della immortalità. E questo è espressione tipica della cultura araba. Quando un arabo diviene leader si sente superiore al concetto di morte. Oggi siamo nel dilemma. Nessuno sa veramente chi sarà il suo successore, nessuno sa se attraverseremo questo periodo in una situazione di calma».
I riformatori in seno al Consiglio legislativo (il Parlamento dei Territori) si battono per l'avvio di un serio processo di riforme. L'uscita di scena di Arafat potrebbe agevolare questa azione?
«Mi auguro che il Consiglio legislativo rafforzi sensibilmente i suoi poteri. Il problema del Clp è che è composto all'85% di membri di Al Fatah (il movimento fondato da Arafat, ndr.). Non esiste una vera opposizione in seno al Consiglio legislativo. Al di là delle chiacchiere, al suo interno ci sono solo 4-5 persone che spingono realmente in direzione delle riforme. Si tratta purtroppo di una esigua minoranza. E nessuna minoranza al mondo sarebbe in grado di determinare cambiamenti radicali come quelli di cui i palestinesi avrebbero bisogno. E questo rimanda alle responsabilità di Arafat. La struttura che lui ha voluto assomiglia a quella di un telecomando televisivo: Yasser schiacciava un pulsante - il "pulsante" Clp, o Fatah, o Anp - e la struttura rispondeva a comando».
Le annunciate elezioni potrebbero segnare un salto di qualità democratico?
«In teoria sì, ma solo se saranno garantite internazionalmente e se sarà possibile sottrarre la formazione delle liste dal controllo totale della nomenklatura al potere».
L'organizzazione da lei fondata si occupa di diritti umani e civili. Qual è oggi sotto questo aspetto la situazione nei Territori?
«Ciò che abbiamo fatto è stato monitorare le violazioni compiute dall'Anp nel campo dei diritti umani e civili. Ebbene, le violazioni operate dall'Autorità palestinese sono molto simili a quelle perpetrate da Israele. Gli esempi abbondano, e sono tutti casi ampiamente documentati. Le torture subite da prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane non si differenziano dalle torture subite da detenuti palestinesi nelle carceri dell'Anp. Prigionieri palestinesi continuano a morire nelle carceri israeliane come in quelle palestinesi. La detenzione amministrativa (decisa senza processo, ndr.) è in vigore in Israele come nei Territori amministrati dall'Anp. Dove è la differenza?. Abbiamo combattuto l'occupazione israeliana sperando nella libertà e invece abbiamo visto crescere un regime dispotico, accentratore. Un regime di polizia che non accetta verità scomode e che fa sparire dalle librerie testi ritenuti "sovversivi" solo perché parlano di diritti umani e del rispetto delle libertà individuali e collettive».
Il quadro da lei tratteggiato è a tinte fosche.
«Ne sono perfettamente consapevole, ma questa, mi creda, è la realtà dei fatti. La verità è che la situazione della popolazione palestinese da Oslo (gli accordi di pace del settembre 1993, ndr.) in poi è andata sempre più peggiorando. Se lei dovesse chiedere ai palestinesi quali benefici hanno ottenuto in questi ultimi dieci anni direbbero zero. Basta andare a Gaza e vedere ville lussuose circondate da case fatiscenti. Nelle strade si vedono enormi Mercedes nere destreggiarsi tra centinaia di persone che si spostano con i loro muli. In questi dieci anni la distanza tra la nomenklatura e la gente è aumentata a dismisura. A crescere sono state solo due cose: la fame e la corruzione. Sul piano politico, l'"eredità" che abbiamo avuto da Arafat è quella di una classe dirigente corrotta. La gente piange la scomparsa di un simbolo, ma non quella di un leader politico che non ha saputo, non ha voluto anteporre il bene della propria gente ai suoi disegni di potere».
Sempre a pagina 7 la cronaca sulle reazioni dei palestinesi all'uscita di scena di Arafat, descrive una popolazione compatta nelle sue manifestazioni di dolore, di ammirazione e rimpianto, che non lascia spazio alle critiche che pure emergono nella società palestinese.
Ecco l'articolo, "Arafat sarà sepolto nella sua Ramallah":Ramallah. «Il presidente Arafat sta molto, molto male...». «I medici francesi stanno facendo il possibile per bloccare l'emorragia cerebrale, ma le speranze si fanno sempre più flebili...». Le parole dei dirigenti palestinesi -il premier Abu Ala, il «numero due» dell'Olp Abu Mazen, il ministro degli Esteri Nabil Shaath e il presidente del Parlamento Rawhi Fatthui- in missione al capezzale di Yasser Arafat all'ospedale Percy di Climart, a pochi chilometri da Parigi, danno solo in parte conto di un dramma che sembra ormai essersi consumato.
Perché più delle parole «parlano» i loro sguardi mesti, il nervosismo palpabile, la voglia malcelata di raggiungere al più presto Ramallah, le lacrime agli occhi delle guardie del corpo del raìs. «Abu Ammar» sta perdendo, forse ha già perso, la sua ultima battaglia, quella tra la vita e la morte. «La gente parla come se si potesse attaccare o staccare la spina per la sua vita. Questo è ridicolo. Noi musulmani non ammettiamo l'eutanasia», afferma il ministro degli Esteri Nabil Shaath, nel corso dell'affollata conferenza stampa all'hotel Sofitel della Porte de Sevres, successiva all'incontro all'Eliseo con il capo dello Stato francese Jacques Chirac. «Il fatto che il presidente Arafat viva o muoia - sottolinea Shaath - dipende dalla capacità del suo fisico di resistere e dalla volontà di Dio». Il ministro cerca anche di smorzare i toni dell'aspra polemica che nei giorni scorsi aveva contrapposto Suha Arafat, la moglie del leader palestinese, ai vertici dell'Anp. «Suha ha sofferto un forte stress, ha pianto. Ma ora tutto è finito. Ci ha accolti e ci ha abbracciati». E conclude: «Non si è mai parlato di denaro».
Da Parigi le notizie sulle ultime ore di «Mr.Palestine» deflagrano a Ramallah, a Gaza, in ogni città e villaggio palestinesi. Nessuno qui crede più in un miracolo. «Yasser ha subito un'emorragia cerebrale e la sua morte è ormai solo questione di ore», dice a l'Unità il deputato arabo israeliano Ahmed Tibi, medico e amico personale di Arafat. Piange Ahmed, 18 anni, che incontriamo nei pressi della Muqata, il quartier generale dell'Anp nella capitale cisgiordana, dove Arafat ha vissuto confinato a forza gli ultimi tre anni della sua vita. «Nulla sarà più come prima, Abu Ammar ci ha lasciato soli...», ripete tra le lacrime Zahira, 21 anni, studentessa all'università di Bir Zeit. È un dolore composto quello che avvolge Ramallah. «Avevamo sperato, avevamo pregato, ma Allah ha voluto chiamare a sé Abu Ammar», dice Mahmoud Haikal, 50 anni, proprietario di una pasticceria. «Senza il presidente mi sento orfana», gli fa eco Nisrin Asilah, 48 anni, casalinga. Ma aggiunge: «Quelli di cui si era circondato non erano degni di lui». I negozi si svuotano, le strade fino a quel momento deserte si animano. Ramallah si appresta a vivere una notte insonne, segnata dal dolore e dall'attesa. «Sono sicuro che è morto, ma che i dirigenti vogliono dircelo progressivamente, per evitare disordini, perché sanno che il popolo ama Arafat», dice Rashid, 42 anni. A notte fonda, una piccola folla si raduna attorno alla Muqata. In molti innalzano foto e ritratti del presidente. «Continueremo nel tuo nome la lotta per una Palestina libera», scandisce un gruppo di ragazzi con le bandiere di Al-Fatah, il movimento fondato da Arafat. L'ingresso del compound è presidiato da giovani in divisa e armati di kalashnikov. Anche loro piangono il raìs morente. «Sono stato al suo fianco quando gli israeliani hanno attaccato la Muqata - racconta Kalill, 24 anni, membro di Forza 17, la guardia personale di Arafat - . Ogni giorno qualcuno gli consigliava di scegliere l'esilio, ma Abu Ammar ha sempre rifiutato: morirò da shahid (martire, ndr.), ci ripeteva - dice ancora Kalil - e così è stato».
Sarà qui, in quello che per i palestinesi è divenuto il «simbolo della resistenza nazionale» che «Abu Ammar» verrà sepolto, se non dovesse sconfiggere la malattia, annuncia ai giornalisti Tayeb Abdelrahim, segretario della presidenza palestinese, legato ad Arafat da una lunga amicizia. Una parte della Muqata, dice, verrà trasformata in un mausoleo dedicato al «nostro grande Eroe, al padre di ogni palestinese». A fianco di Abdelrahim siede Saeb Erekat. È lui a tradurre in inglese le risposte che il segretario alla presidenza dà in arabo. Un giornalista chiede dove verrà sepolto Arafat. Erekat non riesce a trattenere le lacrime: la voce si incrina, le parole fanno fatica ad articolarsi: «Crediamo in Dio», esordisce Erekat, ma poi s'interrompe sopraffatto dalla commozione. «Ma se succederà il peggio - prosegue dopo attimi di silenzio che appaiono interminabili - tutto avverrà qui a Ramallah, nella Muqata, un luogo simbolo, perché lui (Arafat) ha vissuto qui».
Qui, nella polvere del cortile, oltre il muro di cinta, a fianco di una montagna di carcasse di autovetture, centinaia di palestinesi si sono accampati per difendere il loro leader, durante le incursioni di Israele, e per salutarlo quando è partito, sofferente e ormai in fin di vita, alla volta di Parigi. Nel centro di Ramallah compaiono giovani miliziani col volto coperto e armati di fucili mitragliatori. Sparano raffiche in aria in onore di Abu Ammar. La radio dell'Anp, Voce della Palestina, manda in onda la registrazione di una intervista rilasciata alla «Cnn» dal ministro degli Esteri Nabil Shaath: «Il presidente - afferma - è stato consumato da un cancro, non è stato avvelenato». Nemer, uno dei giovani miliziani, ha un gesto di stizza: «Abu Ammar è stato comunque ucciso dagli israeliani che hanno minato il suo fisico costringendolo a vivere in condizioni disperate...». In una terra che si nutre di simboli, sono in molti, qui a Ramallah, a cogliere la valenza fortemente simbolica del momento in cui, forse, Arafat ha inteso «raggiungere Allah»: nella notte magica di Lailat al-Khader, la Notte del Destino, quella durante la quale, secondo la fede islamica, «le porte del cielo» sono spalancate. È la notte in cui, per i musulmani, Dio rivelò il Corano a Maometto. Notte di preghiere, di trattative segrete (un accordo di principio sullo svolgimento dei funerali a Ramallah sarebbe stato raggiunto tra il governo israeliano e l'Anp) e di tensione. Israele ha elevato lo stato di allerta nei Territori: la morte di Arafat, avverte il capo di stato maggiore, generale Moshe Yaalon «rischia certamente di provocare una escalation. Anche dopo la sua scomparsa dovremo misurarci con episodi di terrorismo».
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de L'Unità. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita. lettere@unita.it