Michele Giorgio alla conquista di Gerusalemme, Stefano Chiarini portavoce del portavoce
due prime penne del quotidiano comunista
Testata: Il Manifesto
Data: 10/11/2004
Pagina: 5
Autore: Michele Giorgio - Stefano Chiarini
Titolo:
A pagina 5 IL MANIFESTO di oggi pubblica un articolo di Michele Giorgio sulle trattative relative alla sepoltura di Arafat.
Gran parte dell'articolo è dedicato a spiegare che in base a un liberamente interpretato "diritto internazionale", Gerusalemme est è "illegalmente occupata" da Israele, che non ha dunque nessun diritto di impedire la sepoltura di Arafat nella Spianata delle Moschee, luogo santo dell'islam.
Che la Spianata delle Moschee coincida con il Monte del Tempio, luogo santo dell'ebraismo, non ha per Giorgio, ovviamente, nessuna rilevanza.

Ecco l'articolo, "La tomba alla Muqata":

Un brivido ha percorso ieri la schiena dei palestinesi. A provocarlo è stata l'improvvisa, certo non inattesa, notizia del decesso di Yasser Arafat a Parigi. Invece, come ha confermato il ministro degli esteri Nabil Shaath ieri in Francia assieme ai «leader provvisori» Abu Mazen e Abu Ala, «il cuore e il cervello del rais continuano a funzionare» e pertanto sono da escludere, per il momento, la dichiarazione ufficiale di impedimento e, soprattutto, la possibilità che vengano spenti i macchinari che tengono il presidente ancora in vita. D'altra parte, dopo la sfuriata di Suha Arafat che due giorni fa ha accusato Abu Mazen e Abu Ala di «voler seppellire Abu Ammar (Arafat) ancora vivo», nessuno osa avvicinarsi al sistema di vita artificiale. L'Islam vieta l'eutanasia, ha peraltro ricordato Shaath. Coloro che in Israele, Stati uniti, paesi arabi e occidentali e, forse, anche nei Territori palestinesi, aspettano impazienti che Arafat esca definitivamente di scena, devono rassegnarsi ad aspettare. L'uomo che ha saputo portare la questione palestinese sul tavolo delle diplomazie mondiali, morirà proprio come è vissuto: facendo sempre notizia.

Intanto ieri il Segretario di stato Powell ha annunciato che gli Usa sono pronti a collaborare con la nuova direzione palestinese. Non sorprende. A Washington non hanno certo dimenticato la linea tenuta al vertice mediorientale di Aqaba (4 giugno 2003) dall'allora premier palestinese Abu Mazen che, leggendo il suo discorso alla cerimonia di lancio ufficiale del piano di pace Road Map, evitò di fare riferimento alla questione dei quattro milioni di profughi palestinesi.

E ieri sera a Gerusalemme ci sono stati violenti scontri tra decine di ragazzi che hanno lanciato sassi contro i poliziotti israeliani e gli agenti che hanno fatto uso di manganelli e lacrimogeni. Non succedeva da tre anni. A Ramallah e in altre città dei Territori occupati i palestinesi hanno vissuto nella confusione provocata dall'altalena di informazioni contrastanti che dalla scorsa settimana giungono dall'ospedale militare di Parigi. Un accavallarsi di annunci e smentite di morte che sta sfiancando la popolazione e gettando un'ombra sul comportamento dei tanti collaboratori del presidente che continuano a diffondere indiscrezioni di ogni tipo, rilanciate dalle agenzie di stampa in giro per il mondo. «Spero che tutto ciò abbia fine presto, nel rispetto del presidente Arafat che non merita questo e ha diritto a spegnersi in dignità e pace, come ogni altro essere umano», ci ha detto Amal Khreishe, un'attivista del movimento delle donne, intrepretando il pensiero di tutti i suoi connazionali. I palestinesi in ogni caso sanno bene che il problema principale rimane l'occupazione israeliana che, ad ogni occasione, fa sentire la sua presenza ingombrante, anche nel caso dell'agonia di Arafat. Una occupazione che decide persino dove gli occupati dovranno seppellire i loro morti. Ieri il segretario della presidenza Tayyeb Abdel Rahim ha annunciato che Arafat verrà inumato alla Muqata, il quartier generale dell'Anp dove il leader palestinese è vissuto confinato negli ultimi tre anni per decisione del governo del premier israeliano Sharon, con la benedizione dell'Amministrazione Bush. La Muqata dovrebbe diventare un «mausoleo». «I preparativi per la sepoltura - ha detto Abdel Rahim - si svolgeranno nella Muqata». Questa soluzione è solo l'ultima che viene avanzata e non ha l'approvazione di Israele nonostante ieri sera una fonte palestinese abbia confermato che sono in corso trattative. Sharon e il suo governo desiderano vedere la tomba di Arafat a Gaza, a Khan Yunis. Il leader palestinese aveva più volte espresso il desiderio di essere sepolto nel piccolo cimitero sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme est (la zona araba della città occupata nel 1967), ma Israele si oppone con forza.

Il resto del mondo non solleva dubbi sulla legittimità della posizione israeliana, nonostante la risoluzione 181 votata dall'Assemblea dell'Onu abbia proclamato Gerusalemme città internazionale. Certo, si tratta di una risoluzione di quasi 60 anni fa, ma sinora nessuno ha dichiarato la sua abrogazione ed inoltre non c'è stato alcun riconoscimento internazionale dell'annessione unilaterale di Gerusalemme a Israele. Ora i palestinesi, con ogni probabilità, non avranno il diritto di organizzare i funerali neppure a Ramallah, parte della Cisgiordania occupata secondo la 242, altra risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu dimenticata. Oltre alla controversia su dove seppellirlo, la morte di Arafat crea un altro problema: dove tenere i funerali di stato con la prevista partecipazione di molte personalità politiche e di governo arabe e di tutto il mondo. Le ipotesi che circolano sono di onori ufficiali a Parigi o in una capitale araba.
Sempre a pagina 5, Stefano Chiarini "intervista" Nemer Hammad, portavoce dell'Anp in Italia. Non intendiamo commentare le dichiarazioni di Hammad che fa il suo mestiere di portavoce del gruppo dirigente palestinese e delle sue menzogne. Ci preme invece sottolineare che quella che dovrebbe essere un'intervista si limita in realtà a una registrazione delle parole di Hammad, non solo senza una critica, ma addirittura senza domande.
Stefano Chiarini, che Luciana Castellina ha definito un ambasciatore comunista nel mondo arabo, appare piuttosto, qui, nelle vesti più modeste di un portavoce del portavoce dell'Anp.
Ecco l'articolo:

«In queste ore drammatiche, mentre il presidente Arafat lotta tra la vita e la morte tutti noi che gli siamo stati vicini da tanti anni non possiamo non pensare con commozione alla sua grandezza, a come sia riuscito, partendo dalla fondazione con un pugno di uomini di al Fatah, a mettere di nuovo la Palestina sull'agenda di un mondo che si era scordato di noi». Nemer Hammad, ambasciatore palestinese a Roma ricorda con commozione - a margine di un incontro sulla manifestazione nazionale di sabato 13 a Roma - quanto realizzato da abu Ammar per la sua gente: «Israele aveva cancellato la nostra esistenza come popolo tanto che quando Golda Meir venne a Roma per incontrare Paolo Sesto ad una domanda sui palestinesi rispose "Quale popolo, i palestinesi non esistono". «Il nostro destino cambiò - continua Hammad - quando Arafat, con il 1964, lasciò il suo lavoro di ingegnere in Kuwait per organizzare la lotta armata per la liberazione della Palestina. Da quella decisione noi e il nostro popolo siamo rinati alla storia». Uno dei ricordi del rappresentante della Palestina a Roma, si riferisce proprio all'indomani della sconfitta degli eserciti arabi nel 1967 quando a coloro che gli dicevano "ormai non c'è più nulla da fare, se hanno fallito quegli eserciti come potremo riuscire noi con i pochi mezzi che abbiamo?" abu Ammar avrebbe riposto: "Al contrario è proprio ora che possiamo riprendere il destino nelle nostre mani" e passò nei territori occupati per organizzare i primi nuclei della resistenza. «Arafat con il suo girare senza fine e la sua lotta incessante ha reso la kufiah e la nostra causa popolare in tutto il mondo -continua l'ambasciatore - fino a divenire nel 1974 il primo rappresentante di un movimento di liberazione a prendere la parola all'assemblea delle Nazioni unite dove pronunciò la famosa frase, che forse il mondo avrebbe dovuto ascoltare con più attenzione: "Vengo da voi con in mano il ramoscello d'ulivo della pace e nell'altra il fucile del combattente». Nemer Hammad definisce Yasser Arafat come il primo fedayin ma anche come un leader pragmatico che, proprio con quel discorso, avrebbe aperto la strada ad una soluzione negoziata del conflitto «ma non una soluzione qualsiasi - come alcuni sembrano pensare- ma una pace che non può non soddisfare i nostri più elementari diritti nazionali».

Dopo aver ricordato la prima visita di un'importante delegazione del Pc guidata da Giancarlo Pajetta nel 1969 nei campi di addestramento in Giordania la mente dell'ambasciatore va alla prima, storica. visita di Arafat a Roma nel 1982 su invito dell'Assemblea Interparlamentare, durante la quale incontrò Giulio Andreotti, il presidente Pertini e il Papa Giovanni Paolo Secondo.

Tornando all'oggi l'esponente palestinese ha un attimo di irritazione di fronte «al quadro catastrofico che i media dipingono del nostro movimento in previsione di una uscita di scena del presidente. Un quadro del tutto offensivo. E' vero che Arafat non è e non sarà mai sostituibile ma è anche vero che il nostro popolo, disperso nei vari continenti, ricchissimo di tendenze politiche e culturali, è riuscito a portare avanti un processo rivoluzionario di liberazione nazionale contro uno degli stati più potenti della regione e con potentissimi alleati. Questa maturità vorrà anche dire qualche cosa». Quindi il diplomatico palestinese - dopo aver ricordato che Arafat è ancora con il suo popolo e lo sarà sempre - si dice fiducioso di una direzione collegiale guidata da Abu Mazen, «abile politico, uomo di grande cultura e pronto al compromesso che piace anche ad alcuni movimenti più radicali proprio per la sua capacità di saper ascoltare», in attesa di nuove elezioni: «La legittimità dovrà poi venire -continua Hammad - da elezioni democratiche e sarebbe ora che la comunità internazionale smettesse di cianciare a vuoto di democrazia e ci dicesse cosa è pronta a fare per far si che Israele, ritirandosi dalle nostre città e villaggi, renda possibile la convocazione e la realizzazione di nuove elezioni presidenziali». Nemer Hammad, pur augurandosi un intervento della comunità internazionale ed in particolare dell'Europa, è piuttosto preoccupato per il futuro - «se Bush ha definito un criminale di guerra come Sharon un uomo di pace non c'è molto da sperare» - anche perché «il mondo sta assistendo in silenzio alla costruzione del muro e al dilagare degli insediamenti» e, «soprattutto, non ha obiettato nulla quando Sharon ha proibito di seppellire Yasser Arafat a Gerusalemme est, un territorio che tutti sanno occupato e sul quale il governo israeliano non ha alcun diritto di decidere».

Si apre quindi una fase assai difficile nella quale però «sono sicuro - sostiene l'esponente palestinese - che il nostro popolo saprà realizzare il sogno per il quale Arafat ha dato la vita, quello di uno stato indipendente e sovrano con capitale Gerusalemme est».
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