Rischi e opportunità del dopo Arafat
e inoltre: i progetti nucleari iraniani e i pericolosi compromessi europei
Testata:
Data: 09/11/2004
Pagina: 4
Autore: Emanuele Ottolenghi - Claudio Pagliara - un giornalista
Titolo: Lo scontro tra Suha Arafat e l'Anp rischia di essere soltanto l'inizio - Senza rais e con Netanyahu, la Sharon Map può ripartire da Gaza - L'Iran nucleare vuole prendere tempo, l'Europa glielo concede
Da pagina 4 del supplemento del FOGLIO di oggi, 09-11-04, riportiamo un articolo di Emanuele Ottolenghi sul rischio del caos e le opportunità nel dopo-Arafat: "Lo scontro tra Suha Arafat e l'anp rischia di essere soltanto l'inizio."
Lo scenario che si apre con l’uscita di scena
di Yasser Arafat si presenta caotico,
ma accanto ai rischi offre opportunità. Fino
in fondo fedele alla sua eredità politica, la
morte di Arafat riflette quello che Arafat ha
fatto ed è stato in vita. Le caratteristiche del
leader palestinese sono sempre state l’ambiguità,
l’evasione dalla responsabilità e la
doppiezza negli impegni presi, ma anche la
mancanza di una strategia di lungo periodo.
La grande qualità di Arafat è sempre stata
quella di eccellere nei momenti di crisi, riuscendo
a ribaltare situazioni disastrose,
spesso da lui stesso create, in vittorie ai
punti o in pareggi o impasse che lui soltanto
avrebbe saputo poi risolvere. Ma la più
grande colpa di Arafat forse sta nel giudizio
politico: nei momenti critici, ha sempre sbagliato,
complicando le cose per la sua causa
e per i paesi arabi che la sostengono. Tutto
ciò, con la sua tendenza accentratrice nella
gestione del potere, ha sempre fatto di lui
una figura indispensabile, nel bene e nel
male, per la causa palestinese.
Timoroso di qualsiasi possibile sfida alla
sua autorità, Arafat ha tenuto l’esclusivo
controllo di forze di sicurezza e finanze, i
due strumenti di potere che garantiscono la
sopravvivenza alle dittature arabe. Nulla ha
fatto per garantire una transizione indolore,
per investire del potere una nuova leadership,
per evitare la lotta intestina che quasi
sicuramente seguirà la sua scomparsa. Muore
lasciando un vuoto di potere. La questione
più urgente ora è creare meccanismi atti
a prevenire il più possibile lo scontro tra
leader e fazioni nei territori. Arafat, nella
sua foga accentratrice e nel suo potente ruolo
di padre della nazione e simbolo unificatore
delle forze politiche e delle istanze tribali
palestinesi, era riuscito, con la sua presenza
e la generosa distribuzione di fondi, a
mantenere un fragile equilibrio. Con la sua
dipartita, l’equilibrio rischia d’incrinarsi.
Arafat non ha predisposto un meccanismo
per una transizione ordinata. Lo scontro
in corso a Parigi tra la moglie Suha e i
vertici dell’Autorità palestinese verte innanzitutto
sui fondi ma anche su chi comanderà
nel dopo Arafat. La leadership attuale
proietta moderazione e ha le carte in
regola per riaprire un negoziato con Israele,
ma non ha il sostegno popolare e il controllo
dei centri nevralgici del potere – finanze
e sicurezza – per imporre la propria
autorità e far prevalere l’ordine.
L’epicentro della possibile crisi sarà quasi
sicuramente Gaza, non solo per le conseguenze
dovute al futuro ritiro israeliano che
apriranno un ulteriore vuoto e uno scontro
tra fazioni nella Striscia, ma anche per il
fatto che la fine dell’influenza del rais porterà
in superficie le tensioni tra i vari capi
dei servizi di sicurezza. Tutti i movimenti e
gli incontri avvenuti nei giorni scorsi hanno
Gaza come comune denominatore: la visita
di Abu Ala e l’incontro tra Mussa Arafat e
Rashid Abu Shbak, tra gli altri, mirano a ridurre
il più possibile il rischio di scontri e
caos. Il tentativo di imporre un’autorità unica
e centrale a Gaza costerà molto a chi controlla
i traffici di armi e merci, gli aiuti economici
da distribuire e le altre attività ora
gestite a Gaza da molti personaggi locali.
Un’occasione per l’Egitto e per la Giordania
Gli scontri che si potrebbero verificare a
Gaza non sono limitati a un possibile showdown
tra Hamas e Autorità palestinese, ma
possono anche riflettere divisioni di carattere
locale e famigliare, non ideologico, tra
leader che temono una perdita di potere oltre
che un eccessivo peso assegnato a clan e
capi con base nella Cisgiordania. La sfida
immediata è dunque quella di evitare il
peggio, puntando a misure conciliatorie tra
i vari potenziali pretendenti al potere. Tutto
questo suggerisce un possibile scenario
di breve periodo, già parzialmente delineatosi:
una leadership collettiva transitoria gestirà
l’Autorità palestinese, cercando di ridurre
al minimo il rischio di anarchia. In
ossequio alla Carta nazionale palestinese,
la leadership cercherà forse di organizzare
nuove elezioni, anche senza entusiasmo, visto
che su tale strumento punta la nuova generazione
locale di leader formatisi durante
le due Intifade che potrebbe spodestare
la vecchia guardia dell’Olp ormai priva di
una base popolare di sostegno.
Il caos sembra essere la maggior preoccupazione
anche di egiziani e giordani, oltre
che degli altri paesi arabi. A parte la Siria,
la cui militanza ideologica e allineamento
con i gruppi più oltranzisti sembra
indicare un ruolo destabilizzante, Giordania
ed Egitto mirano a ridurre il più possibile
le tensioni nei territori, a partire dal rischio
di degenerazione violenta del funerale
di Arafat, le cui dinamiche sono probabilmente
parte dei correnti negoziati tra
Israele e palestinesi, attraverso canali diplomatici
francesi e americani. Il funerale
anzi potrebbe avere un ruolo positivo, se come
sembra Arafat sarà sepolto a Gaza e se
al funerale potranno partecipare leader
arabi. La necessità di imporre la calma e di
garantire la sicurezza dei dignitari in visita
richiederà, oltre a un coordinamento con e
a un ruolo costruttivo giocato da Israele, un
contributo attivo di Egitto (e Giordania, che
vuole evitare una sepoltura di Arafat a Gerusalemme
per non danneggiare il ruolo
giordano sulle moschee), aumentandone la
capacità mediatoria e l’influenza.
Di fronte alla fragilità della leadership
palestinese nel dopo Arafat si può presumere
un aumento del ruolo egiziano a Gaza
in funzione positiva. L’Egitto ha interesse a
rafforzare una leadership palestinese moderata,
spingendola a puntare su un coordinamento
con Israele per il ritiro da Gaza.
L’Egitto potrebbe anche esercitare pressioni
su Hamas per dichiarare un cessate il
fuoco, forse in cambio di una promessa di
elezioni da parte dell’Autorità palestinese.
Per Egitto e Giordania la crisi offre la possibilità
di aumentare il proprio peso nella
regione, anche per arginare la penetrazione
iraniana e siriana sulla scena palestinese
Sempre a pagina 3 un informasto articolo di Claudio Pagliara: "Senza rais e con Netanyahu, la Sharon Map può ripartire da Gaza"
Gerusalemme. Alla fine si sono incontrati,
dopo 15 giorni di gelo. Il premier
Ariel Sharon e il suo rivale Benjamin Netanyahu
si sono ritrovati, uno accanto all’altro,
alla riunione del gruppo parlamentare
del Likud. L’ultima foto che li ritraeva
insieme era nell’aula del Parlamento, trasformata
in arena, il giorno del voto a favore
del piano di disimpegno unilaterale da
Gaza e dal nord della Cisgiordania. Sono
passate due settimane, ma la storia ha voltato
pagina proprio in questo piccolo lasso
di tempo. Il voto della Knesset, la riconferma
del presidente americano George W.
Bush e l’uscita di scena di Yasser Arafat.
Difficile immaginare concatenazione di
eventi più favorevole per il premier. Una
congiunzione che ha messo nell’angolo i
suoi oppositori. E ieri ha costretto Netanyahu
a una poco gloriosa retromarcia.
Ha ritirato la sua minaccia di dimissioni. Si
è accontentato che il gruppo parlamentare
del Likud facesse proprio il progetto di legge
per indire un referendum sul piano di
Sharon. Un atto puramente formale. Il premier
ha ribadito la sua contrarietà al voto
e senza il suo sostegno non c’è alcuna matematica
possibilità di trasformare in legge
il testo. Resta il problema di come applicare
un piano che lacera il paese senza
una maggioranza precostituita. Il Partito
nazionale religioso, che si era già spaccato
in due, ha deciso ieri di lasciare il governo.
Ora il premier conta solo 55 voti su 120. Prima
o poi il problema dell’allargamento
della maggioranza si porrà. E l’unico modo
per risolverlo è quello di coinvolgere il
Partito laburista. Che potrebbe anche dare
un sostegno esterno, con la promessa di
elezioni anticipate il prossimo autunno
quando Israele sarà uscito da Gaza.
Sharon intanto non si stanca di ripetere
che le cose stanno rapidamente cambiando.
Il medio oriente senza Arafat non è più
lo stesso. E il presidente Bush, che dopo il
deragliamento della road map è rimasto
sostanzialmente alla finestra, ora che ha ottenuto
la seconda investitura cercherà sia
a Gerusalemme sia a Baghdad un risultato
che inscriva il suo nome nei libri di storia.
Paradossalmente proprio il disimpegno
da Gaza, la più unilaterale delle mosse
israeliane, è destinato a diventare il banco
di prova per la nuova leadership che cerca
d’affermarsi a Ramallah. Abu Mazen, in
passato, ha fatto conoscere tutta la sua disapprovazione
per quella che impropriamente
viene chiamata seconda Intifada, e
che per dirla con le parole di Shimon Peres
è stata espressione dello scippo della
politica palestinese da parte dei gruppi
terroristici. Già quando assunse, con la benedizione
americana, l’incarico di primo
ministro, Abu Mazen dimostrò di avere un
canale efficace in Hamas, convincendo
l’organizzazione islamica a un tregua, sia
pure temporanea e rotta pochi mesi dopo.
Allora, lavorò contro di lui, incessantemente,
proprio il rais Yasser Arafat. Ora la
road map potrebbe ripartire proprio da
Gaza. Dall’Amministrazione americana sono
già arrivati segnali in questo senso.
Israele è sostanzialmente d’accordo. "Coordinare
il disimpegno con l’Autorità nazionale
palestinese – dice al Foglio Jonatan
Bassi, capo del Sela, l’organismo governativo
incaricato di convincere gli abitanti
degli insediamenti a fare le valigie – aumenterà
le chance di successo. Sarà meglio
per noi e anche per loro".
Se la nuova leadership avrà il volto pragmatico
di Abu Mazen il tavolo dei negoziati
verrà immediatamente riaperto. Un ritiro
coordinato da Gaza sarà l’obiettivo immediato,
inserendo quello che è nato come
un passo unilaterale, in assenza di una leadership
palestinese, dentro il percorso della
pace, che prevede la proclamazione di
una Stato palestinese con confini provvisori
prima di affrontare i grandi nodi della
discordia: la questione dei rifugiati, le compensazioni
territoriali per gli insediamenti
più grandi che è irrealistico che Israele
possa mai smantellare, e in ultimo, Gerusalemme.
Nei prossima passi, essenziale sarà anche
capire cosa avviene sull’altro fronte,
quello dell’opposizione laburista, che è disposta
ad appoggiare Ariel Sharon in cambio
di elezioni anticipate il prossimo autunno.
In questi quindici giorni che promettono
di cambiare il volto del medio
oriente molto si è mosso anche da questa
parte. L’ex premier Ehud Barak, l’uomo di
Camp David, è sceso ufficialmente in campo,
annunciando che concorrerà per la leadership
del partito contro Shimon Peres.
Ma per avere una chance di vincere contro
uno Sharon in questo momento senza rivali
ha bisogno di alleati popolari. Il gran corteggiato
è un uomo che non ha mai avuto la
tessera del Partito laburista: l’ex capo di
Stato maggiore Ami Ayalon, promotore di
una raccolta di firme da parte israeliana e
palestinese attorno a un’ipotesi di soluzione
del conflitto che raccoglie estesi consensi
a sinistra, ma ciò che è più importante,
anche al centro, che come sempre deciderà
la prossima partita elettorale
Infine "L'Iran nucleare vuole prendere tempo, l'Europa glielo concede", sui programmi nucleari sel regime degli ayatollah e sui pericoli della strategia di compromesso adottata dall'Europa.
Roma. L’accordo raggiunto sul nucleare
domenica tra tre potenze europee, Francia,
Germania, Regno Unito, e l’Iran racconta
due politiche estere che hanno difficoltà a
incontrarsi. Le grandi distanze che separano
l’America dalla vecchia Europa, ormai
comunemente identificate con l’espressione
"crisi delle relazioni transatlantiche",
prendono la forma, anche, di due modi completamente
diversi di fare diplomazia. Così,
mentre Bruxelles conclude i negoziati per
la firma di un accordo di associazione economica
con la Siria, scordandosi però dei
diktat dell’Unione europea che vorrebbero
intese soltanto con paesi con la fedina dei
diritti umani immacolata, gli Stati Uniti impongono
invece sanzioni al governo di Damasco
con l’intento di fermare l’infiltrazione
di terroristi e miliziani attraverso i porosi
confini con l’Iraq e di scoraggiare l’appoggio
del regime a movimenti quali Hezbollah
e Hamas, che hanno sedi in terra siriana.
La stessa diversità caratterizza l’approccio
con l’Iran nucleare. Teheran sostiene
di non aver alcuna intenzione di costruire
un arsenale atomico e di volere soltanto
portare a termine un programma nucleare
civile. Argomento che non convince molti,
che si chiedono perché mai l’Iran smani per
una difficilmente raggiungibile energia atomica,
quando è ricco di gas e petrolio. Secondo
gli esperti israeliani, il regime degli
ayatollah, estremo di quell’asse del male
che rimane tra i principali obiettivi della
nuova Amministrazione Bush, se il suo programma
nucleare non vedesse presto la fine,
potrebbe sviluppare in pochi anni armi
atomiche.
Con l’accordo di domenica, raggiunto a
Parigi dopo due giorni di discussioni, Teheran
s’impegna ad arrestare la produzione di
uranio arricchito fino al raggiungimento di
un’intesa con l’Unione europea che garantisca
al paese, in cambio dell’abbandono
del programma nucleare, incentivi economici
e cooperazione tecnologica, premi cui
Teheran avrà diritto una volta abbandonato
per sempre il cammino atomico. Ma si
tratta di un congelamento, di un accordo a
metà, perché le quattro capitali devono ancora
dare il proprio pieno assenso e perché,
appunto, si tratta di un’intesa temporanea.
L’Iran ha rifiutato una sospensione totale
del suo programma, chiedendo che una
commissione formata da esperti francesi,
inglesi, tedeschi e iraniani s’incontri un’altra
volta tra sei mesi per tornare sul problema.
Fino ad allora però s’impegna ad arrestare
le sue attività. Eppure, poche ore
prima del vertice di Parigi, l’ayatollah Ali
Khamenei, leader supremo iraniano, ha dichiarato
che Teheran non ne vuole sapere
di un arresto prolungato della produzione
d’uranio arricchito.
Le trattative che hanno coinvolto le cancellerie
dell’Europa e gli ayatollah sono in
realtà il tentativo di evitare che gli Stati
Uniti, la cui diplomazia è meno dilatoria di
quella europea e muscolarmente più interventista,
trasferiscano la questione al Consiglio
di sicurezza dell’Onu, come hanno più
volte minacciato di voler fare. L’importante
per Teheran è passare indenne la data del
25 novembre, giorno in cui si riunirà l’Agenzia
atomica internazionale, che potrebbe
rimandare la questione Iran al Consiglio
di sicurezza. Washington insiste sulla necessità
di una sospensione totale della produzione
d’uranio arricchito e desidera portare
il caso davanti alle Nazioni Unite il prima
possibile, anche se ha accettato di con-
cedere un’ultima possibilità di trattativa,
consegnata alle cure dell’Unione europea.
C’è una componente di delega da parte
dell’Amministrazione Bush, che un po’ frastornata
dopo il frenetico periodo elettorale,
non ha probabilmente ancora elaborato
nel dettaglio una politica definitiva nei riguardi
dell’Iran. E rimane a guardare se
l’Europa riesce in qualche modo a trovare
una soluzione, confidando soprattutto nelle
capacità dell’alleato per eccellenza, quello
britannico. Washington, che si riserva d’intervenire
portando la questione al Palazzo
di vetro in caso di fallimento, sembra temere
il non felice precedente. Nell’ottobre del
2003, infatti, Bruxelles e Teheran avevano
già siglato un accordo sulla proliferazione
nucleare, simile a questo. L’intesa si sfaldò
nel giro di sei mesi e gli incentivi europei
non arrivarono mai in terra persiana.
Mohammed El Baradei, capo dell’Aiea, si è
rivolto alla comunità internazionale, allarmato
per le minacce di terrore atomico. Dice
che programmi nucleari mai dichiarati,
come quelli in Iran, Libia e Corea del nord
sono la prova dell’esistenza di un mercato
illecito di materiale pericoloso.
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