I palestinesi di fronte alla fine dell'era Arafat
reportage di Fiammma Nirenstein
Testata: La Stampa
Data: 06/11/2004
Pagina: 7
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: "E' stato il nostro simbolo, ma il suo tempo era finito"
LA STAMPA di oggi,06-11-04, pubblica a pagina 7 un reportage di Fiamma Nirenstein tra i palestinesi che si dirigono alla preghiera del venerdì nella moschea di Al Aqsa.
Vengono raccolte opinioni su Yasser Arafat lontane dalla retorica dei media.
Ecco l'articolo:

C’è da restare molto sorpresi a chiedere alla gente sulla soglia della moschea di Al Aqsa alla Porta dei Leoni come si sente per Arafat, se ha pregato per Arafat, come lo giudica...I giornali sono maestri di retorica, ma la gente molto meno, chi la pensa in un modo e chi nell’altro, chi è arrabbiato, chi lo ama; ma certo la realtà che incontriamo in mezzo a una folla fittissima e variegata è lontano dall’unanimità del rimpianto che il cordoglio cerimoniale gli attribuisce. «Arafat? E chi è Arafat? Dio? Io vado alla Moschea soltanto per Dio»: elegante e vestito per la festa, diventa tutto rosso di rabbia e ci volta la schiena inferocito, seguitando a scendere sulla Via Dolorosa, uno dei 160mila fedeli di tutte le età che alle dieci di mattina vanno verso la Moschea di Al Aqsa per la preghiera del penultimo venerdì di Ramadan. La polizia non ha posto limiti di età stavolta, forse proprio pensando che la tristezza per l’aggravarsi delle condizioni del Raiss andasse guardata con riguardo e apparente distacco, e che gli ultimi tre venerdì sono passati lisci. Ma i giovani poliziotti israeliani (sono mille solo sulle porte di entrata e altre migliaia in tutta la città), palesemente molto in guardia, controllano tutti gli ingressi e le strade di pietra bianca e lucida di sole nella Città Vecchia; con calma ma con determinazione rimandano indietro chiunque non sia identificabile come un cittadino israeliano con la carta d’identità azzurra. Chi l’ha verde, deve tornare a casa. La paura che alla fine della preghiera cominci la pioggia di pietre sugli ebrei sotto il Muro del Pianto è grande: un serpente di centinaia di uomini della forza speciale detta «Yamam» sta pronta sul sentiero in salita che porta del muro del Tempio sulla Spianata a irrompere se alla fine della preghiera scoppiasse la rabbia.
Primo venerdì senza Abu Ammar. Com’è? Vuoto? Triste? Fermiamo la gente che come un fiume entra dalla porta dei leoni (Babel Assad per i mussulmani, per gli ebrei Shar ha raiot) e poi al Babel Zahar e alla fine arriviamo dove non si passa, il Babel Yehud sopra il Kotel, il Muro del Pianto. Sull’angolo dell’entrata alla Porta dei Leoni, proprio accanto alla porta di pietra antichissima, c’è un riquadro, un cimiterino circondato da una ringhiera di ferro: vi è sepolto Feisal Husseini, uno dei capi storici del Fatah: durante il suo funerale tre anni fa Gerusalemme saltò per aria con scontri, sparatorie, invasioni di folla micidiali; e vicino a lui, con altri membri della sua nobile famiglia Gerusalemitana, anche alcuni rampolli della famiglia Nashashibi, altrettanto nobili e storici rivali. Qui, si dice, Arafat ha sempre desiderato essere sepolto, come un grande di Gerusalemme, e probabilmente in queste ore la discussione sotterranea con Israele, che ha detto un sonoro no, verte proprio su un’alternativa possibile. Azmi, guidatore di autobus, non da molta importanza a dove sarà sepolto il Raiss: «Il suo tempo era venuto, è stato il nostro capo e il nostro simbolo per più di 35 anni, adesso dobbiamo fare senza di lui. Ha sbagliato molte cose: a volte ha avuto troppa paura degli occidentali, non ha attaccato quanto doveva. Altre volte si è innervosito troppo in fretta. Del resto con un nemico tanto terribile ha fatto quel che poteva. Ma ci lascia poveri, con tanti morti. Non si può dire che ha fatto tutto bene. Però ha fatto del suo meglio. Ora basta, è finita la sua epoca, doveva finire molto prima, e quelli che sono venuti su con lui, non mi piacciono affatto. Sono tutti là a dividersi la torta».
«Banda di mafiosi» aggiunge senza complimenti un signore con giacca blu che non vuole essere identificato neppure col nome proprio. Questa paura dell’identificazione è comunque di tutti, è come se ci fosse ancora una grande soggezione nei confronti del capo, anche se è a Parigi, in ospedale. «Un grande leader, io lo amo e spero che Allah lo salvi» sussurra una donna anziana a braccetto con un’altra che approva con la testa, vestite come quasi tutte secondo i dettami della religione, coperta dalla testa ai piedi. Fathma però, una 40enne tradizionalista anch’essa, si ferma e interviene: «A me, invece, non importa di lui: guardate in che condizione siamo. Io ho un figlio in prigione, la mia amica un fratello morto... Doveva combattere per vincere, non per rovinarci. Hamas? Forse è quello che ci vuole. Non mi importa però neppure dei successori. Di più, non mi piace nessuno di questi mafiosi che vedo in giro. Capisco d’altra parte che la guerra non è finita, ci vuole qualcuno che ci guidi. Non non ho nulla contro quelli che chiamate terroristi, lo fanno per disperazione».
L’impiegato di banca Feis è più generoso con Arafat. Avrà trentacinque anni, lo accompagna una moglie anche lei vestita in modo tradizionale, con gli occhialini e il velo, che vuole assolutamente dirci che si chiama Samira: «Se Abu Ammar se ne andrà noi resteremo comumque un grande popolo di combattenti. Non c’è che dire, lui ce l’ha insegnato. Forse a Camp David avrebbe dovuto dire di sì, e magari continuare comunque la lotta. No, non so immaginarmi affatto di vivere fianco a fianco con gli ebrei, non penso che Abu Abbas o chi per lui porterà la pace. Arafat era molto bravo e intelligente, solo lui sapeva sempre cosa fare, come parlare, sapeva che Sharon non vuole la pace, e quindi lo trattava di conseguenza. Gli ebrei non l’hanno mai capito, non hanno mai capito come si tratta un palestinese, lui li ha rimessi a posto, sempre. Pregare per la sua salute? Dio sa quel che fa, ma non si può più sperare che guarisca».
Isham Getty (finalmente uno col nome e il cognome, se sono quelli veri) sospira malizioso: «Era venuto il suo tempo, era circondato da corrotti, un leader viene e uno va, ne verrà un altro, chi, Abu mazen? Mah! Non fa molta differenza, speriamo sia uno che distribuisca i soldi al popolo, non solo ai suoi uomini». Due ragazzini di 16 anni, tutti sorridenti, Muhammad e Hassan, ritengono che Arafat è stato grande, che aveva fatto il suo tempo. Hassan, che è molto bello e vestito alla moda Nike specifica: «Certo, due stati per due popoli, e che altro? Ma come fare...bisogna essere forti, loro sono forti. Terrorismo non so cosa sia, non c’è terrorismo, è guerra. Forse doveva accettare Camp David. Alla fine, da una parte lo amo, ma dall’altra non è stato bravo, non abbiamo ancora niente. Comunque, ci vogliono in ogni caso leader nuovi, completamente diversi, non come lui o i suoi amici, neppure come Hamas». E chi allora? «Io» dice molto serio. E c’è da crederci. La folla riempe le strade, si rovescia verso i negozi di pistacchi caldi, frutta secca, dolci. Un mercato di balocchi, vestiti, scarpe a poco prezzo attira decine di migliaia di persone che vivono e aspettano il futuro, mentre a Parigi Arafat li lascia.
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