Il rifiuto dell'esistenza di Israele spiega l' "enigma" Arafat
l'analisi di Carlo Panella
Testata:
Data: 05/11/2004
Pagina: 7
Autore: Carlo Panella
Titolo: Si è servito di un finto nazionalismo laico per sedurre l'occidente
IL FOGLIO di oggi, 05-11-04, pubblica a pagina 7 dell'inserto l'articolo di Carlo Panella: "Si è servto di un finto nazionalismo laico per sedurre l'occidente", che di seguito riproduciamo:
Yasser Arafat un laico? No. Yasser Arafat ha lottato per uno Stato palestinese
a fianco dello Stato d’Israele? No. Yasser Arafat uno statista? No. Yasser Arafat aveva una strategia? No. In queste risposte irrituali è racchiusa la somma di errori di valutazione che si accompagnano alla vicenda palestinese e alla leadership di Arafat, che si basa su altri e ben diversi punti di forza. E’ stato il primo, l’unico leader che ha saputo sottrarre ai vertici arabi (in particolare a Gamal Abdel Nasser) la gestione della lotta dei palestinesi; è stato l’unico rais arabo che ha saputo comunicare con l’occidente (quel suo refrain "Holy Land, Holy Land, Holy Land", sussurrato, con voce rotta da una finta emozione ha suscitato più di una standing ovation); è stato l’unico leader che ha saputo tenere unite le due anime del movimento palestinese: quella fondamentalista e religiosamente antiebraica, maggioritaria, e quella nazionalista, laica e minoritaria. Arafat è stato, infine, il leader che ha fatto dimenticare all’Europa che i palestinesi si sono sempre schierati con i totalitarismicontro le democrazie, soprattutto che sono stati, tutti, filonazisti: nella prima guerra mondiale a fianco del blocco degli Imperi centrali contro le democrazie franco-inglesi; nella Seconda guerra mondiale,
massicciamente, senza defezioni, a fianco di Adolf Hitler, incitando da Berlino gli arabi al jihad contro gli ebrei e le democrazie; nella Guerra fredda a fianco del totalitarismo sovietico contro l’occidente; nel conflitto tra Onu e Saddam Hussein, sull’annessione del Kuwait, a fianco del rais iracheno. Arafat è stato il leader che ha saputo costruire una piattaforma politica e d’immagine che ha fatto sì che i palestinesi, unico popolo al mondo, siano esentati dalla legge universale su cui si basa il diritto internazionale, per cui, chi perde le guerre, perde anche i propri diritti (loro le hanno combattute tutte dalla parte sbagliata e le hanno perse tutte; addirittura ne hanno combattute – e perse – due "contro" la legalità sancita dall’Onu). Il progetto di Arafat è stato disegnato con straordinaria chiarezza in quelli che anche i suoi più accaniti estimatori considerano "errori inspiegabili" e che vengono però poi giustificati citando, a sproposito, l’icastica frase di Abba Eban: "Arafat non perde mai l’occasione di perdere un’occasione". Ma non è così, Arafat non ha mai scelto di "perdere un’occasione", ha sempre tentato di coglierle tutte. Solo che queste occasioni non erano inserite nel progetto di "due popoli, due Stati". Tutto qui. Ma nel progetto di un unico Stato in Palestina, quello arabo.
L’eredità del Gran Muftì L’accettazione d’Israele, il suo riconoscimento formale è stato tardivo (siglato nel 1993 è formalizzato soltanto nel 1998 e subito smentito con il lancio dell’Intifada delle stragi del 2000). Arafat non è stato il leader che cercava, armi alla mano – anche con il terrorismo – la strada della convivenza tra palestinesi e israeliani. Ha cercato, fino alla fine, di realizzare l’impegno della prima leadership palestinese, quella religiosa del Gran Muftì: cancellare Israele, fare della Palestina un unico Stato, Stato arabo, in cui naturalmente anche gli ebrei possano vivere, secondo quanto prescrive la sharia. Nel farlo ha dovuto tenere conto delle sue forze, mediare, e si è dimostrato geniale. Arafat sapeva di capeggiare un movimento in cui la maggioranza, con un’aspirazione islamico-totalitaria, è determinata a "eliminare l’entità sionista", come era scritto nello Statuto dell’Olp sino al 1998 e in cui soltanto una forte minoranza è disponibile alla trattativa alla "pace contro terra", sulla base di un normale progetto nazionalista. Arafat è stato il pendolo tra queste due tendenze, senza mai dominarle. Arafat, in questo, non è stato mai leader, non si è imposto, non ha mai rotto con la propria tradizione politica (come invece fecero Anwar Sadat e Menachem Begin e come fa oggi Ariel Sharon). E’ in questa ambiguità, in questa caratura essenzialmente fondamentalista del "rifiuto d’Israele", in questa posizione subordinata del "nazionalismo" puro (di Abu Mazen, Abu Ala, Adnan Ashrawi, Hanna
Seniora…) che ha origine lo svelamento del carattere non laico di Arafat e del suo Fatah, tanto che, proprio nel momento in cui otteneva da Ehud Barak e Bill Clinton, nel 2000, la terra, tutta la terra (il 94-97 per cento dei Territori, come lo stesso Arafat ha poi ammesso), la rifiuta. Ha rifiutato la terra, il passaggio dall’Autorità nazionale palestinese allo Stato palestinese e quindi subito, immediatamente, ha cambiato nome e pratica di lotta. Al Fatah di fatto è scomparso, spargendo stragi – tramite Tanzim e Forza 17, i suoi bracci armati – come "Brigate dei martiri di al Aqsa" e in questo cambiamento di nome c’è tutta la trama debole, inesistente, del laicismo dell’organizzazione e del suo leader. La seconda Intifada è infatti quella delle stragi dei suicidi-omicidi, portati a segno non contro i militari, ma contro i civili, non nei Territori, ma in Israele. Lucidamente, Arafat ha rinunciato dunque alla "terra"
che pure infine Israele gli ha riconosciuto e ha dato il suo pieno, totale avallo alla pratica del "martirio islamico"; ha riconosciuto in pieno la leadership sostanziale di Hamas che islamicamente scrive nel suo Statuto: "Nessuno può negoziare della terra di Palestina perché essa è un waqf, un lascito eterno di Allah al popolo dell’islam". Hamas è articolazione dei Fratelli musulmani e il gruppo dirigente di Fatah (forse a esclusione di Arafat, se si deve dar fede alla sua testimonianza) esce da un’esperienza giovanile nei Fratelli musulmani d’Egitto. Arafat, il Fatah, l’Olp non sono dunque laici, ma movimenti politico-militari, interni a una strategia che trova nell’islam fondamentalista, e soltanto nell’islam, il suo punto di forza e anche la sua rigidità, la sua impossibilità a mediare per dare spazio alla politica della trattativa. Arafat era laico soltanto perché indossava la divisa, null’altro. La sua ideologia era dentro l’islam, era l’islam e proprio a causa dell’islam rifiutava lo Stato d’Israele con cui è sceso a patti una sola volta, costretto, e poi ha subito denunciato il patto. E’ qui il vero segreto del grande equivoco che accompagna l’enorme simpatia che in Europa suscita la parabola dell’Olp. Arafat, più ancora di Nasser, ha saputo infatti costruire agli occhi dell’opinione pubblica occidentale la falsa immagine di una prospettiva non religiosa, non islamica del suo movimento; un segno forte di modernità, di emancipazione dalle pastoie religiose che avevano caratterizzato i primi 50 anni di lotta dei palestinesi contro i sionisti sotto la guida del Haji al Husseini, il Gran Muftì di Gerusalemme. Alla "Naqba", al disastro di una dirigenza religiosa dei palestinesi che aveva portato nel 1948 alla sconfitta di tutti gli eserciti arabi da parte di un esercito israeliano che a stento era forte un decimo, è dunque succeduta una dirigenza laica, secolare, improntata soltanto al nazionalismo palestinese, incarnata appunto da
Arafat. Ma in realtà il carattere, la cultura, la finalità di Arafat, al Fatah, l’Olp sono pienamente e totalmente "islamici", come ha mostrato la seconda Intifada. Questo è il punto essenziale, la sede dell’equivoco, la ragione del fraintendimento: se la lotta dei palestinesi, se il "rifiuto arabo d’Israele" che essi incarnano è un esempio di lotta di liberazione nazionale, di lotta per la terra, o è invece altro: una guerra che trova nella religione islamica il suo vero ambito, i suoi confini, le sue leggi, i suoi riti; una guerra di religione motivata dalla posizione subordinata che il Corano attribuisce all’ebraismo, dal carattere sacro di Gerusalemme, dall’intreccio inscindibile tra "territorio e applicazione della sharia", in cui gli elementi nazionalisti
esistono, ma sono subordinati. Se si mette a fuoco questo punto, tutto torna,
anche le apparentemente incomprensibili convulsioni di Arafat. Se non lo si mette a fuoco, se si continua a considerare la posizione palestinese alla pari delle tante situazioni irredentiste del secolo scorso, si sbaglia. La grande simpatia che l’opinione pubblica europea aveva nei confronti di Arafat, la sua eccezionale capacità mediatica di sollecitarla, rafforzarla, eccitarla, si basano dunque su un equivoco, voluto, costruito con metodica precisione dallo stesso rais. L’equivoco spiega l’inspiegabile. A differenza di tutte le altre lotte di liberazione nazionale, infatti, quella palestinese, come ha urlato
un rabbioso funzionario dell’Anp allo stesso Arafat, si caratterizza per una serie infinita di sconfitte, che hanno alla base una caratteristica che unifica, non a caso, la dirigenza del Gran Muftì e quella di Arafat: il rifiuto dell’accordo, della mediazione, addirittura della trattativa. Questo rifiuto s’invera nel rifiuto dello Stato palestinese. E’ una verità scomoda, ma non per questo meno vera: fino al 1993 infatti, prima il Gran Muftì,poi lo stesso Arafat non accettano la ripartizione, i "due Stati" e arrivano sino al punto di non volere lo Stato palestinese se questo significa accettare quello ebraico. L’accordo è rifiutato nel 1936, con il diniego delle conclusioni della commissione Peel che assegnava ai sionisti soltanto 5.000 chilometri quadrati; nel 1939, con il rigetto del Libro Bianco di Londra: neanche un metro ai sionisti, ma ufficializzazione della loro presenza, in cambio del blocco dell’immigrazione di ebrei dall’Europa, alla vigilia di Auschwitz; nel 1947 con il rifiuto da parte della Lega araba e della leadership del Gran Muftì, reduce dalla Berlino hitleriana e subito reinserito al comando del Consiglio palestinese, non soltanto della nascita dello Stato d’Israele, ma anche dello Stato palestinese; nel 1979, con le minacce di morte (naturalmente e non casualmente esaudite) di Arafat a Sadat e con il rifiuto della logica dell’accordo sul Sinai; nel 2000, con il rigetto degli accordi di Camp David proposti da Clinton e Barak. Mentre si negava alla logica dell’accordo sulla terra con Israele, Arafat sviluppava però un progetto: chiaro, lucido, lineare, la sua unica strategia definita. Dal ’67 al ’91 la sua Olp tenta infatti in tutti i modi di conquistare il controllo di uno Stato arabo. Questa è stata la vera storia del "settembre nero" del ’70; del Libano tra il ’76 e l’84; della guerra tra Iran e Iraq dell’80; la vera spiegazione all’altrimenti inspiegabile appoggio a Saddam Hussein che nel ’90 annette il Kuwait all’Iraq. Nel ’70 la Legione araba di re Hussein di Giordania ha massacrato 10 mila feddayn di Arafat, nel disinteresse di un mondo arabo che sapeva bene che il monarca
aveva ragione e il palestinese torto. Arafat e l’Olp stavano sviluppando una
strategia chiara di confronto militare con l’esercito giordano, in cui il dirottamento dei due aerei sulla pista di un aeroporto in disuso nel regno doveva costituire l’innesco di una rivolta dei profughi palestinesi mirata
ad abbattere la monarchia hashemita. Stesso copione in Libano. Tutti ricordano Sabra e Chatila, nessuno ricorda Tell al Zatar, sei anni prima. Identiche stragi di palestinesi a Beirut, per mano di arabi (la prima con la complicità passiva degli israeliani). Ma perché gli sciiti libanesi, i cristiani libanesi, i sunniti libanesi, i drusi libanesi hanno ucciso per anni, in un vortice di alleanze e tradimenti, più palestinesi di quanti mai ne abbia uccisi Tshaal? Perché Arafat ha tentato di controllare lo Stato libanese usando, come ad Amman, la forza congiunta dei suoi feddayn armati e delle centinaia di migliaia di profughi palestinesi dei campi. Contro l’Iran, invece, ha usato un’altra tattica, ma sempre con la stessa mira: è stato Arafat, infatti, la scintilla che ha fatto scoppiare la guerra Iraq-Iran del 1980. Tutta la strategia di Saddam si basava sull’ipotesi di una rivolta della minoranza araba nel Khouzestan petrolifero, millantata proprio dal leader palestinese. La regione contava decine di migliaia di connazionali ai livelli medio- alti dell’industria estrattiva iraniana, che hanno tentato un insurrezione araba anti
iraniana che subito è fallita. Arafat poi ha sprecato tutto l’enorme patrimonio politico della prima Intifada nell’avventura kuwaitiana. Il passaggio è centrale per comprendere l’uomo e la sua politica e per dimostrare che la nostra irrituale immagine dell’uomo è esatta. L’Intifada delle pietre non è stata promossa né dall’Olp né da al Fatah: è stato un fenomeno spontaneo che ha avuto al suo centro le moschee e i militanti integralisti di Hamas e Hezbollah. E’ evidente però che Arafat è stato l’unico a capitalizzarne la forza sul piano politico internazionale. Dopo la rinuncia del re di Giordania, Hussein, alla sovranità sulla West Bank del 1988, Arafat era al sicuro. Soprattutto, Israele, che considerava suo interlocutore soltanto la Giordania e riteneva Arafat un terrorista, non aveva più spazio. Ma perché Arafat ha bruciato tutto nel suo sconsiderato appoggio – è stato assolutamente l’unico leader arabo ad averlo fatto – a Saddam Hussein quando ha invaso il Kuwait? La risposta sta in quel che abbiamo sin qui delineato: perché Saddam gli era indispensabile per continuare a giocare la carta della distruzione d’Israele e perché il Kuwait prendeva, nella sua strategia, la stessa posizione che avevano avuto Giordania e Libano. A Kuwait City, i palestinesi dell’industria petrolifera hanno svolto
un ruolo chiave e hanno funzionato, come dieci anni prima in Khouzestan, da quinta colonna all’armata di Saddam, macchiandosi degli eccidi di civili kuwaitiani (subendone poi la vendetta nel 1991). Trascinato nella sconfitta da Saddam, dopo aver dilapidato tutto il patrimonio politico dell’Intifada, isolato da tutti i leader arabi, Arafat è stato obbligato all’unica e sola trattativa mai conclusa nella sua vita. Ma non ha avuto altra scelta, era all’angolo: ha bruciato nelle sabbie del Kuwait e nei suoipozzi dati alle fiamme dai palestinesi tutta la sua credibilità nel mondo arabo. Soprattutto ha rotto con i sauditi, oltre che con gli egiziani e gli iraniani, e questo nessun leader arabo può permetterselo. Ecco allora la stretta di mano con Ytzhak Rabin. Ecco l’accettazione dell’accordo, come testimonia lo stesso Nemer Hammad, con un’esiguissima maggioranza dentro il Consiglio nazionale palestinese, con il suo "ministro degli Esteri", Farouk Kaddumi, che marca a tutt’oggi la sua opposizione, rifiutando finanche di recarsi nei territori dell’Anp. Ma gli accordi di Oslo non sono stati un trattato di pace, sono stati "un accordo per l’accordo", hanno mostrato un cammino, non la sua conclusione. Quando infine la conclusione gli è offerta, quando Barak gli ha dato tutto quanto potesse chiedere, inclusa Gerusalemme, Arafat ha rifiutato. La sua vicenda, tutto sommato lineare, è perfettamente inserita nella grande tragedia delle ideologie totalitarie e finalistiche del 900, in cui la lotta per la terra era subordinata a quella di un "fine ultimo", in cui la cultura della morte ha prevalso sulla cultura per la vita (Arafat, in arabo, mai in inglese, ha sempre "benedetto i nostri martiri islamici" che facevano strage di ebrei innocenti). Ma la sua vicenda è drammatica per i palestinesi, che vedono bruciarsi sull’altare del totalitarismo due intere loro leadership, quella musulmano integralista del Gran Muftì filo nazista e del suo lontano nipote Arafat, che ne continua le tracce in veste "laica", ma interna al totalitarismo
musulmano e altrettanto perdente. La vicenda è imbarazzante soprattutto per la "vecchia Europa". Perché la molla che convince il Consiglio europeo di Venezia nel settembre 1980 a riconoscere in Arafat – che pure minaccia di morte Sadat per gli accordi con Begin – quale unico interlocutore palestinese (imponendo così agli Stati Uniti e a Israele la rinuncia alla trattative con la Giordania), altri non è che il petrolio a 40 dollari al barile (83 al valore di oggi). Perché la grande forza di Arafat in Europa è la "bomba atomica petrolifera" che dalla guerra del Kippur in poi la fondamentalista Arabia Saudita innesca per combattere e isolare con successo, tramite Arafat, Israele.
Perché l’Europa cede in pieno al ricatto petrolifero e ancora oggi, sfidando l’evidenza, fa finta di parteggiare per una lotta di liberazione nazionale dei palestinesi, mentre invece pensa al suo eterno "non olet".
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