La disperazione della madre di un terrorista suicida, descritta senza spiegare come l'Anp crea i giovani "shahid"
da Umberto De Giovannangeli
Testata:
Data: 03/11/2004
Pagina: 8
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: Mio figlio, kamikaze ragazzino
L'UNITA' di oggi, 03-11-04, pubblica a pagina 8 l'articolo di Umberto De Giovannangeli "Mio figlio, il kamikaze ragazzino".
Si tratta di un articolo interessante, che però, oltre a non commentare il fatto che la madre del terrorista morto non esprime condanna per l'uccisione di civili israeliani, ma solo per la scelta di un attentatore troppo giovane, non fornisce informazioni sulla campagna di incitamento al suicidio-omicidio promossa dall'Autorità Palestinese e rivolta soprattutto ai bambini e ai giovani.
Ecco l'articolo:

Le parole di una madre disperata. La denuncia di un padre a cui i signori della guerra hanno strappato il figlio poco più che bambino per trasformarlo in uno strumento di morte. Samira Abdallah ha 45 anni. Un volto fiero in un corpo precocemente invecchiato. Samira è la madre di Amer al-Fahr, il kamikaze sedicenne fattosi saltare in aria l’altro ieri tra le bancarelle di un mercato a Tel Aviv. Amer era cresciuto tra la rabbia e la desolazione del campo profughi di Askar, nei pressi di Nablus. Un’infanzia trascorsa a scalare montagne di rifiuti e a fare il gioco dello «shahid», il martire che sacrifica la sua vita ad Allah il misericordioso e alla Palestina liberata dall’occupante sionista. Un gioco divenuto realtà. Così è cresciuto Amer. Senza speranza. Senza futuro. Facile preda per i reclutatori di kamikaze, coloro che usano le stragi per accrescere il proprio potere all’interno della galassia dei gruppi armati dell’Intifada.
Samira ha conosciuto la pesantezza dell’occupazione israeliana. All’ Unità racconta che uno dei suoi otto fratelli è stato ucciso in uno scontro a fuoco con i soldati israeliani. Ha conosciuto il dolore, Samira. Ma quel dolore non è nulla di fronte a ciò che ha provato dopo aver appreso la notizia della morte del suo Amer. «Mio figlio era molto giovane - ripete in lacrime - era ancora un bambino. Perché hanno scelto lui?». Samira non intende vestire i panni della madre orgogliosa per l’«eroismo» del figlio. Rifiuta i messaggi di solidarietà e di sostegno che ha ricevuto dai capi del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), il movimento che aveva reclutato Amer. Non c’è traccia di orgoglio nelle sue parole. Ma solo indignazione. Per i capi del Fronte Amer è un «trofeo» da esibire, il più giovane attentatore suicida nei quattro anni della nuova Intifada, l’Intifada dei kamikaze. Per la madre, non c’è giustificazione per il sacrificio del figlio: «Chi ha mandato a morte Amer - protesta - deve solo vergognarsi». Samira ritorna con la mente alla mattina dell’altro ieri. L’ultima volta che vide il figlio vivo. «Amer - racconta - era uscito di casa alle 7:30 senza dire dove andava. In lui c’era qualcosa di strano. Era nervoso, silenzioso...Gli ho chiesto se si sentiva male, ma lui mi ha risposto con un abbraccio, dicendomi di non stare in pensiero...». Attorno alle 12:30 un fratello di Amer apprende la notizia dell’attentato suicida dalla radio e dell’identità del kamikaze. «All’inizio - prosegue il suo racconto Samira - ho pensato che non fosse vero...Amer è solo un ragazzino, mi sono detta....Nessuno era venuto a informarci...Ma poi c’è stata la conferma...». Il dolore si è subito intrecciato con la rabbia. «Avrebbero potuto risparmiarlo - ripete Samira, alludendo ai capi del Fplp -. Perché non hanno mandato qualcuno più grande? Tutti noi siamo pronti a sacrificarci per la nostra patria, ma mio figlio, il mio Amer, era troppo giovane, era ancora un bambino».
Samira non si dà pace: «Avrei dovuto capire - dice - che c’era qualcosa che non andava, avrei dovuto impedire a mio figlio di uscire di casa quella maledetta mattina...». La donna racconta che nell’ultima settimana Amer aveva continuato a baciarle la mano e la fronte e a chiederle di pregare per lui. «Credevo che lo facesse perché ispirato dal mese santo del Ramadan», afferma Samira. Amer invece si era già votata al martirio.
La rabbia di Samira e anche quella di suo marito e padre di Amer, Abdelrahim al-Fahr, 54 anni. Abdelrahim cammina aiutandosi con un bastone perché ferito dal fuoco israeliano nei primi giorni dell’Intifada. Non si dà pace, Abdelrahim, e giura che non darà pace ai «vigliacchi che hanno usato un ragazzino non avendo il coraggio di affrontare il nemico in faccia...». È un torrente in piena, Abdelrahim al-Fahr: «Dio maledica chi ha reclutato Amer - sibila - . Avevo sentito storie di ragazzini reclutati a Nablus, ma non ci credevo....È vero che qui è difficile per tutti a causa dell’occupazione e la vita a Nablus è un inferno, ma i bambini non dovrebbero essere sfruttati in questo modo». Samira e Abdelrahim non possono indugiare nel dolore. Già l’altra sera la famiglia, aiutata dalla gente di Askar, ha iniziato a impacchettare le sue cose in attesa della reazione israeliana. Che si è manifestata all’alba di ieri, quando gli artificieri di Tsahal hanno raso al suolo la loro abitazione: è la punizione riservata da Israele alle famiglie degli autori di attentati. «Chi ha mandato a morte un ragazzino di 16 anni ha anche distrutto quel poco che avevamo costruito in anni di sacrifici», commenta amaramente Samira.
Nella società palestinese si sono più volte levate voci contro l’impiego di minorenni negli attentati suicidi. Voci come quella di Mohammed Abu Mahsen, padre di un bambino di 13 anni arruolato dalla Jihad islamica. Mohammed è grato ai soldati israeliani che hanno arrestato Tarek, il figlio, prima che potesse compiere l’azione kamikaze. «Il nemico ha salvato mio figlio - dice a l’Unità - sono contento che sia stato arrestato e non ucciso». Abu Mashsen, 39 anni, usa parole durissime contro i capi della Jihad islamica: «Io - afferma deciso - non ho cresciuto mio figlio per perderlo in un istante». E rivolgendosi ai capi della Jihad islamica aggiunge: «Andate a suicidarvi voi, o mandateci i vostri figli o fratelli».
Abu Mahsen racconta di aver per anni fatto in modo che Tarek evitasse di vedere i telegiornali e gli ha sempre istillato la sua contrarietà all’uccisione di esseri umani. Precauzioni inutili, dal momento che ha trovato una lettera di addio del figlio nel quale diceva: «Voglio compiere un attacco contro il muro di Sharon». Ora Tarek si trova in un carcere minorile israeliano in attesa di processo. Abu Mahsen spera di poterlo riabbracciare al più presto. Questa tragedia familiare ha rafforzato la sua convinzione: «È sbagliato commettere attentati suicidi contro civili o militari, non si risolvono i conflitti in questo modo...No, questa questione non potrà essere risolta con gli esplosivi».
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