Una pagina di disinformazione sul quotidiano cattolico
con la sola eccezione dell'analisi di Graziano Motta
Testata: Avvenire
Data: 02/11/2004
Pagina: 9
Autore: Barbara Schiavulli - la redazione- Graziano Motta
Titolo: Baby-kamikaze, strage aTel Aviv
Avvenire di oggi 2-10-04 pubblica a pagina 9 l'articolo di Barbara Schiavulli "Baby-kamikaze, strage a Tel aviv".
La Schiavulli scrive, verso la conclusione del suo articolo, che "Un ragazzino di 12 anni che tirava pietre contro una pattuglia israeliana è stato ucciso dai soldati che attraversavano il campo profughi di Askar, vicino a Nablus", senza citare la smentita dell'esercito israeliano. Scrive poi che "Altri tre palestinesi sono stati uccisi in serata dai militari israeliani in un'incursione sempre a Nablus", senza informare i suoi lettori che si trattava di tre terroristi di Al Fatah.
Scrive poi che "L'esercito ha fornito le ultime cifre del mattatoio palestinese: solo nel mese di ottobre, 165 persone sono state uccise durante i raid israeliani, 159 nella Striscia di Gaza, 500 persone sono state ferite e 90 case distrutte".
Senza inserire questi dati nel contesto della guerra al terrorismo e senza dire che di quei 165 morti solo 50, secondo i dati dell'esercito, erano civili colpiti accidentalmente.
Gli altri erano terroristi.
Ecco l'articolo:

Il mercato di Carmel era pieno di gente quando Amer al-Fahr si è fatto esplodere. Un boato e ancora una volta il tempo si è fermato in Israele. Quattro morti: l'attentatore, due donne e un uomo di 65 anni più una trentina di feriti. Decine di persone sono state fatte a pezzi, mentre tra le stradine del mercato è rimasto l'incubo di un altro orrore. Per un attimo la partenza di Arafat per Parigi aveva fatto sperare gli israeliani: il vecchio e malato rais per Israele era il mandante di tutti gli attentati. Ma Arafat, dal letto di ospedale, ha diffuso la sua condanna. Abu Rudeina, un suo aiutante, ha ricevuto la telefonata del presidente: «Condanno l'attentato di Tel Aviv. Mi appello a tutte le fazioni palestinesi perché si impegnino a non fare del male agli israeliani, e mi auguro che Sharon si adegui all'iniziativa e non faccia del male ai palestinesi». Per niente convinto, il premier israeliano Ariel Sharon ha ribattuto: «Le condanne a mezza bocca non ci bastano più. L'attentato dimostra che l'Autorità nazionale palestinese è rimasta sempre la stessa. Vogliamo vengano adottate misure concrete per estirpare il terrorismo e le organizzazioni che lo praticano». Mentre rimbalzano condanne e accuse, da una parte e dall'altra la gente continua a morire. Nel mercato di Carmel, un negozio di latticini è stato raso al suolo e un negozietto di verdure danneggiato. I paramedici si sono gettati tra verdure e formaggi, per cercare ogni piccolo resto che potesse appartenere a morti o feriti. «Ho visto un mucchio di gente cadere a terra - ha raccontato Michal Weizman, un negoziante, che era a una decina di metri dallo scoppio - il corpo di una donna è stato completamente straziato». Poco dopo, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), un gruppo laico, fazione militante dell'Olp (fondato nel '67, combina ideologia marxista con nazionalismo arabo, e ha alle spalle attentati spettacolari, come dirottamenti e l'uccisione nel 2001 del ministro del turismo israelia no Zeevi), ha rivendicato l'attentato, fugando le voci che potessero essere stati i gruppi radicali islamici come Jihad o Hamas, ormai indeboliti dai continui attacchi mirati dell'esercito israeliano. L'attentatore aveva solo 16 anni, proveniva dal campo profughi di Askar, non lontano dalla città di Nablus. «È immorale mandare qualcuno a morire così giovane - ha detto la madre del kamikaze, Samira Abdullah, che nelle ultime settimane aveva notato un cambiamento nel figlio - avrebbero dovuto usare un adulto in grado di capire il significato dei suoi gesti. Avevo intuito che c'era qualcosa di strano. Mi baciava spesso la mano e mi chiedeva di pregare con lui, ma non avrei mai potuto pensare che sarebbe stato in grado di fare una cosa del genere». Suo padre, Abdel Rahim, ha raccontato che suo figlio, gli aveva chiesto due shekel, 50 centesimi, prima di uscire: «Ho pensato che fosse troppo poco, poi mi ha baciato la mano e sono tornato a dormire». Non sapeva che suo figlio sarebbe stato il 116simo kamikaze dall'inizio della seconda Intifada nel settembre 2000. Secondo un sondaggio del Centro di Ricerca per la Sicurezza Nazionale presso l'Università di Haifa un cittadino israeliano su cinque ha perso qualcuno dei suoi cari, si trattasse di un parente o di un amico, a causa della rivolta. Il 15 per cento del campione, in tutto 1.613 adulti, sostengono infine di aver personalmente assistito a uno o più attacchi terroristici. E mentre Israele piange i suoi morti, i palestinesi si disperano per i propri. Un ragazzino di 12 anni che tirava pietre contro una pattuglia israeliana è stato ucciso dai soldati che attraversavano il campo profughi di Askar, vicino a Nablus. L'esercito ha fornito le ultime cifre del mattatoio palestinese: solo nel mese di ottobre, 165 persone sono state uccise durante i raid israeliani, 159 nella Striscia di Gaza, 500 persone sono state ferite e 90 case distrutte.
Da Gush Katif, sempre Barbara Schiavulli scrive un articolo sui coloni israeliani a Gaza.
Che per lei sono tutti fanatici con i quali è inutile parlare, perché "non c'è dialogo con chi non riconosce la legge internazionale o le risoluzioni dell'Onu".
Fondata su di un' interpretazione tendenziosa della "legge internazionale" e delle "risoluzioni Onu", questa frase ci sembra un bell'esempio di intolleranza.
Ecco l'articolo:

Si è aperto il dibattito al Parlamento israeliano per discutere del risarcimento che verrà dato ai coloni che dovranno lasciare gli insediamenti della Striscia di Gaza. Per domani è previsto il voto. Sono più o meno settemila le persone che «a meno che avvenga un miracolo», come sperano loro, dovranno lasciare la casa, di una vita per alcuni, di diversi anni per la maggior parte.
Alcuni degli insediamenti sono storici, vi abita gente ormai alla quarta generazione, altri risalgono agli anni Settanta quando i laburisti favorirono la migrazione verso Gaza. Una delle comunità è la stessa che era già stata fatta evacuare dal Sinai nell'82, dopo la firma del trattato di pace con l'Egitto. Passeggiare per le stradine di Gush Katif è come entrare in un'altra dimensione. Villette, giardini, fiori, buganville spettacolari, antenne paraboliche, centri culturali, scuole, piscine. Tutto intorno soldati e filo spinato, da una parte il mare, da un'altra l'Egitto e poi i palestinesi con i loro campi profughi, le case ogni giorno distrutte, i morti e i colpi di mortaio che lanciano contro quel piccolo paradiso verde. 4600 proiettili di mortaio in 4 anni e 36 morti.
«Questo per noi è il paradiso, non c'è motivo per andarsene. La gente è meravigliosa, non dobbiamo chiudere la porta di casa o della macchina, la minaccia che ci circonda ci tiene uniti», racconta Debbie Rosen, 41 anni, sei figli, a Kush Katif da 20 anni. Nessuno ha intenzione di andarsene o di prendere soldi per trasferirsi da qualsiasi altra parte. Non è facile entrare nel loro mondo, dove l'unica legge è quella della Bibbia, per loro Israele comincia a Gaza e finisce in Iraq. Per loro i palestinesi non esistono, ci sono solo gli arabi, con cui non capiscono bene perché non possono vivere tranquillamente insieme. «Sharon ci ha tradito, ha perso la testa, 11 anni fa aveva detto ai coloni che non avrebbero mai dovuto andarsene, che non avrebbero dovuto vendersi - spiega Iran Steinberg, 29 anni, tre figli -. Non cambierà niente se noi ce ne andiamo, Israele non sarà più sicuro, anzi lo sarà meno, noi facciamo da cuscinetto, mandano i mortai contro di noi, invece che contro altri. Questa è la nostra missione. Il problema è Arafat, le cose sono peggiorate da quando lui è tornato».
Ma il problema vero è che non c'è dialogo con chi non riconosce la legge internazionale o le risoluzioni dell'Onu. «Questa è la nostra terra data da Dio». La vista della casa di Moshe Saperstain, toglierebbe il fiato con il deserto, il mare, se non fosse per il filo spinato. Le note della Traviata si diffondono nell'aria. «Sono venuto qui in pensione, io volevo un posto tranquillo e mia moglie uno avventuroso», non può fare a meno di scherzare, ma il suo corpo ha i segni della storia. Un braccio lo ha perso durante la guerra dei Sei giorni, colpito e sopravvissuto a un missile katiusha. Due dita le ha perse sulla strada verso l'insediamento quando i cecchini hanno colpito la sua macchina 24 volte; lui è stato centrato da quattro proiettili due anni fa. «La donna che era nella macchina davanti a me è stata uccisa. Cercate di capire, io sono un fanatico a tutti gli effetti. Questa terra è stata data alla tribù di Giuda e ci appartiene». Moshe è nato negli Stati Uniti, è qui da soli sette anni, e ha appena votato per Bush alle elezioni, che negli Stati Uniti cominciano oggi, eppure lui appartiene a Gush Katif.
Nell'articolo "L'Egitto: Al Qaeda non c'entra con gli attentati a Taba" vengono riportate le conclusioni dell'inchiesta egiziana sulla strage avvenuta nella località turistica.
Conclusioni che attribuiscono ambiguamente la responsabilità della strage al "clima sanguinario e di estrema violenza instaurato nei Territori palestinesi".
Nessun rilievo critico, relativo per esempio ai condizionamenti politici ai quali, in una dittatura come quella egiziana, può essere sottoposto il giudizio degli inquirenti, agli interessi economici dell'industria del turismo, che sarebbero duramente colpiti da un attentato targato Al Qaeda, o al pesante clima antisraeliano e antisemita tollerato promosso nel paese dal governo, è presente nell'articolo, che di seguito riproduciamo:

I risultati delle inchieste sugli attentati del sette ottobre scorso a Taba, nei quali hanno perso la vita 34 persone fra le quali le sorelle italiane Jessica e Sabrina Giraudo, hanno escluso qualsiasi rapporto fra gli esecutori e la rete terroristica di al-Qaeda. Lo ha riferito ieri il ministro dell'interno egiziano, Habib Al Adly, durante una conferenza stampa al Cairo. «Le prove raccolte al riguardo sono incontrovertibili», ha detto il ministro, sottolineando che gli attentati di Taba non sono in alcun modo ricollegabili al terrorismo internazionale e rappresentano solo «una ripercussione del clima sanguinario e di estrema violenza instaurato nei Territori palestinesi». Le autorità di Israele hanno viceversa attribuito, fin dalle prime fasi dell'inchiesta, ad esponenti di al-Qaeda la responsabilità degli attacchi, che hanno preso di mira alberghi e campeggi frequentati da turisti israeliani. Per la strage di Taba sono state incriminate nove persone, fra cui cinque persone di nazionalità egiziana.
L'ipotesi del complotto per avvelenare Arafat, diffusa dal quotidiano arabo Al Hayat sulla base di fonti anonime, e smentita da fonti palestinesi vicine al rais, viene riportata, senza cenno a questa smentita, nell'articolo "Da Parigi: migliorano le condizioni di Yasser. C'è un giallo sulle analisi per avvelenamento", che di seguito riproduciamo:
Arafat non è più in pericolo di vita, ha intrattenuto varie conversazioni telefoniche ad alto livello e le sue condizioni migliorano a vista d'occhio. È questo, almeno, quanto assicura nelle ultime ore lo stretto entourage raccolto alla periferia di Parigi attorno al leader palestinese. I medici dell'Ospedale militare "Percy" di Clamart, dove Arafat era stato trasportato d'urgenza venerdì scorso, scioglieranno però la loro diagnosi non prima di domani. Per il momento, dunque, resta il mistero sulle cause della rapida «caduta» clinica del capo dell'Olp e della «grave anomalia ematica» confermata fin dalle prime ore. La delegata dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) in Francia Leila Shahid è fra le voci ufficiali che escludono adesso, sulla base dei test già effettuati, l'ipotesi di una leucemia, circolata fortemente nelle ore della trasferta in Francia. Un delegato palestinese giunto in Europa assieme ad Arafat, poi, ha sostenuto che questi «non soffre di alcun tipo di cancro». Nelle ultime ore, sulla scorta di queste prime eco, parte della stampa araba ed europea avvalora l'eventualità di un avvelenamento. I medici francesi starebbero compiendo ripetuti test in questa direzione, assicura ad esempio citando fonti anonime "Al Hayat", quotidiano arabo internazionale. Piuttosto che un'infezione virale, prima ipotesi corrente, potrebbe ben essere stata una sostanza espressamente inoculata ad indurre la reazione immunitaria "cieca" scagliatasi contro le piastrine sanguigne, osserva anche parte della stampa britannica. Sul fronte diplomatico, intanto, anche il premier palestinese Abu Ala ha ringraziato gli «amici francesi» e «la Francia per l'attenzione che dedica ad Arafat».
In una pagina dedicata al conflitto israelo-palestinese, molto squilibrata, si segnala positivamente l'analisi di Graziano Motta, "Una bomba per colpire entrambi i fronti" sostanzialmente corretta, anche se attribuisce troppo peso agli "oltranzisti" nella politica israeliana.
Ecco l'articolo:

Una nuova strage, vigliacca come può essere quella ideata e compiuta nel più grande mercato all'aperto di Tel Aviv, con il deliberato intendimento di fare più vittime possibile. Un'azione affidata a un giovane palestinese a cui è stato inculcato soltanto odio da parte di chi, nella sua comunità ne ha radicato tanto nel suo disegno politico di destabilizzazione da farlo divampare in un momento cruciale. E e a dispetto, in Israele, di chi (il primo ministro Sharon), e di quanti (trasversalmente fra le forze politiche) stanno cercando di proporre uno scenario nuovo verso una possibile ripresa del dialogo fra due popoli. Ma anche a monito di coloro che a Ramallah (il primo ministro Abu Ala e il segretario generale dell'Olp Abu Mazen) assunte le responsabilità provvisorie del potere nell'assenza di Arafat ammalato, potrebbero dare credibilità alla capacità del loro popolo di rappresentarsi come civile dinanzi agli israeliani e alla comunità internazionale. Ma è anche una strage contro chi, in America, proprio alla vigilia delle elezioni presidenziali e nei due campi (democratico e repubblicano), ha speso in passato tante energie e mezzi e vuol profonderne ancora in futuro per la composizione del conflitto.
L'eruzione della violenza e l'effusione di sangue eccita soltanto chi ha rinchiuso il proprio orgoglio nella cecità del radicalismo, in questo caso gli aderenti al Fronte Popolare per la liberazione della Palestina, componente storica dell'Olp, che hanno rivendicato l'attentato. Un "fronte del rifiuto" di Israele e dello «Stato sionista» che inevitabilmente rafforza sempre più, nella contrapposizione ideologica e nel rifiuto di ogni compromesso politico, l'estremismo religioso e nazionalista ebraico.
Sharon si è ritrovato così ancora una volta esposto all'irrisione e al dileggio di quanti - in particolare nel suo stesso partito - vedono soltanto un indebolimento della sicurezza d'Israele nel ritiro unilaterale di soldati e coloni dalla Striscia di Gaza e da alcuni insediamenti della Cisgiordania. Piano che egli intende attuare comunque, nonostante il persistente terrorismo abbia inciso nel cuore popolare di Tel Aviv nel giorno in cui alla Knesset è cominciato l'esame della legge che stabilisce le modalità di esecuzione del disimpegno e di indennizzo alle migliaia di famiglie danneggiate.
E Abu Mazen, come Abu Ala, se non forse più, è stato di nuovo posto dinanzi alla squallida e dilaniata arena delle violenze in cui si esaltano quanti, in nome dell'Intifada, sono stati lasciati correre nella loro pratica da Arafat. Da considerare un'impresa improba e lunga quella del ristabilimento di norme a cui voleva accingersi da primo ministro e a cui aveva dovuto rinunciare.
Norme che secondo i promotori della Road map per la pace - Stati Uniti, Russia, Unione europea e Onu - dovranno in via preliminare essere rispettate. Al momento lo scenario è scoraggiante sia per la nuova leadership palestinese che deve dissolvere le maglie del terrorismo, sia per Sharon che non riesce a coagulare una maggioranza stabile di governo e un consenso generale nel paese per svincolarlo dalle reti avvolgenti dell'intransigenza oltranzista.
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