Arafat è un problema, non un alibi per Israele
è stato realmente un ostacolo alla pace e un interlocutore inaffidabile
Testata: Corriere della Sera
Data: 29/10/2004
Pagina: 1
Autore: Antonio Ferrari - Guido Olimpio
Titolo: La battaglia dei riformisti per preparare il futuro - Ora Israele aspetta i nuovi leader
Per il CORRIERE DELLA SERA di oggi, 29-10-04, l'uscita di scena di Arafat toglierebbe a Sharon un'"alibi" per rifiutare la trattativa con i palestinesi. Di "alibi", e di "giustificazione" scrivono infatti sia Antonio Ferrari nel suo corsivo "La battaglia dei riformisti per preparare il futuro", sia Guido Olimpio nel suo articolo "Ora Israele aspetta i nuovi leader", del quale deve essere anche segnalata la scelta di definire le organizzazioni terroristiche palestinesi "gruppi armati" e in particolare Hamas "movimento islamico".
Un "alibi", in ogni modo, è una spiegazione falsa di un comportamento, volta a coprire una condotta e motivazioni disdicevoli o criminali. L'uso di u ntale termine presuppone dunque che per Olimpio e Ferrari Sharon rifiutasse di trattare con Arafat per motivi diversi da quelli dichiarati, e non confessabili.
Si dà il caso però, che Arafat abbia realmente selto la via del terrorismo e dell'oltranzismo. Dati di fatto molto concreti e rilevanti corroborano dunque la spiegazione data da Sharon del suo unilateralismo.
Pubblichiamo di seguito l'articolo di Ferrari:

Tutti a Ramallah per assistere all'agonia di Arafat, il padrepadrino che non sarà più quello che è stato. Comunque vada, il vertice dell'Autorità nazionale palestinese ha già cominciato a pensare al dopo, alla propria struttura vacillante. Tutti a Ramallah. Capi, capetti, ex capi, giovani ambiziosi, dinosauri insoddisfatti, intrepidi portaborse in cerca di riscatto. C'è anche chi, in questi ultimi anni, aveva cercato di nascondersi, e che oggi ricompare con il volto di circostanza, pronto a gioire per una ripresa miracolosa di Yasser Arafat, oppure per ordinare i fiori da portare al funerale. Arrivano per assistere all'agonia del padrepadrino, che non sarà più quello che è stato. Gli ospiti scendono dalle auto di servizio, si cercano, si scrutano, si fiutano. I tempi di una malattia non sono mai quelli della politica, e men che meno quelli delle ambizioni personali. Nella pigra Ramallah, che vive senza particolari scosse la giornata di Ramadan, spicca la processione di chi sa che è cominciata una nuova era e cerca di riposizionarsi in fretta.
Non occorre essere profeti per capire che tutto, da mercoledì sera, è cambiato. Sono vari gli scenari dopo il trasferimento in un ospedale francese del presidente palestinese, bandiera indiscussa e leader discusso della lotta di un popolo. Il ritorno sulla scena di un Arafat prostrato e ormai incapace di gestire il potere come era abituato, dispensando promozioni, rimozioni, veti e ripescaggi, ma pretendendo l'ultima parola; la sopravvivenza vegetativa del presidente, che forse potrebbe realizzare quello che ha sempre rifiutato: il ruolosimbolico di padre della patria. Infine — non si può escludere nulla — che il raís sia ormai vicinissimo al trapasso, e che si stia prendendo tempo per sistemare i problemi della successione e organizzare le misure di sicurezza, necessarie per prevenire incidenti, violenze e attentati.
Comunque vada, il vertice dell'Anp ha già cominciato a pensare al dopo, alla propria struttura vacillante, al recupero dell'autorevolezza perduta, per potersi presentare, il più compatto possibile, all'appuntamento con la storia. Creare insomma una leadership unita, che possa esprimere un partner affidabile, togliendo ogni alibi al primo ministro israeliano Sharon.
Dai sotterranei del silenzio delle ultime settimane è riaffiorato il decisionista Mohammed Dahlan, ex responsabile della sicurezza interna, che Arafat aveva giubilato. Anche lo sfiduciato Abu Mazen è corso al capezzale dell'ex amico, che gli ha impedito di poter essere un vero premier. Come il taciturno Abu Ala, o come tutti coloro che avevano formato quell'unico governo verniciato di riformismo che aveva offerto al mondo un volto nuovo al vertice di Aqaba, dove venne tenuta solennemente a battesimo la Road Map, cioè quel cammino che avrebbe dovuto condurre al traguardo della creazione di due Stati, risolvendo il dilemma di un conflitto fra due diritti.
Con l'uscita di scena di Arafat, che oggi pare l'unica certezza politica, sono proprio i riformisti i più battaglieri nel preparare il futuro. In gioco ci sono non soltanto la sopravvivenza dell'Autorità nazionale palestinese, ma la speranza di attivare un progetto, senza l'alibi dell'ostacolo rappresentato dal presidente.
Che il futuro sia rappresentato da un governo Abu Mazen-bis, per cercare di dare seguito alla mancata promessa dell'anno scorso, è possibile. Il pieno controllo sugli apparati di sicurezza e sulla cassa possono esserne la prima e fondamentale garanzia. Ma quello che chiedono i più giovani, come Dahlan e Jibril Rajoub, è che si evitino le sabbie mobili dell'inazione. Anche perché la maggioranza palestinese è stanca: più delle parole e delle promesse, chiede certezze. Ecco perché la fase che si è aperta è davvero epocale.
E quello di Olimpio:
Ariel Sharon e con lui molti israeliani hanno sognato per quattro anni questo momento. Yasser Arafat che esce di scena fisicamente e politicamente senza bisogno di ricorrere a tank o bulldozer. Il premier che ha appena sbaragliato con la consueta abilità tattica gli avversari interni, forse è vicino alla neutralizzazione del suo avversario esterno. Il malandato raìs considerato la causa di tutti i guai, l'ostacolo «ad una vera pace» che vola mestamente a Parigi per farsi curare. Arafat, come ha efficacemente scritto un commentatore, ha finito per essere la bambolina voodoo di Sharon, sulla quale infilzare gli spilloni della frustrazione politica. Ma Mr Palestina è diventato anche l'alibi per la destra israeliana. Finché è al timone della causa palestinese non vi sarà possibilità di trattare seriamente. Ora l'eclisse del leader apre nuove prospettive e Israele si interroga sulla quale strada seguire. Forte del consenso popolare e fresco del successo in Parlamento, Sharon ha la possibilità di andare avanti con il piano di disimpegno da Gaza e trovarsi successivamente ad un tavolo negoziale con nuovi rappresentanti palestinesi. Siamo pronti a trattare, ha assicurato ieri il ministro degli Esteri Silvan Shalom, con una leadership disposta a fermare il bagno di sangue. E per tutta la giornata si sono susseguite le riunioni di esperti e generali, impegnati a disegnare scenari. A valutare i pro e i contro della drammatica svolta in campo palestinese. Nella notte, lo stesso Sharon ha ripreso, dopo un lungo gelo, i contatti telefonici con il premier palestinese Abu Ala. Israele si è detto disposto a favorire i movimenti dei dottori accorsi al capezzale del Grande Malato e si è impegnato — fatto importante — a permettere un eventuale ritorno a Ramallah del raìs. Un'ipotesi, viste le condizioni di Arafat, giudicata per il momento remota.
Con un occhio alle notizie che giungevano nella notte dalla Mukata e un altro alle informazioni raccolte dai servizi di sicurezza, il governo si è concentrato sul nuovo assetto a Ramallah. Mercoledì sera, malgrado le smentite, Arafat avrebbe firmato il decreto che passa la gestione temporanea del potere al triumvirato Abu Ala, Abu Mazen, Salim Al Zanoun. Tre elementi che rappresentano nella sostanza l'Organizzazione per la liberazione della Palestina piuttosto che l'Autorità. Indiscrezioni dicono che contro i tre si starebbero muovendo altri protagonisti, come Hani El Hassan (Fatah) e Azzam Al Ahmed.
La nuova realtà con personaggi che hanno il sostegno dei paesi arabi (Egitto, Giordania) e della diplomazia occidentale può diventare un'occasione irripetibile per ritrovare il filo del dialogo. Caduto l'ostacolo — e l'alibi — di Arafat, Israele si trova nella condizione che ha tante volte auspicato. Dunque Sharon da una parte mantiene l'impegno a sgomberare la striscia di Gaza e dall'altra studia le ipotesi di negoziato con quei dirigenti ritenuti graditi. Al triumvirato potrebbe aggiungersi, a Gaza, la figura dell'ex superpoliziotto Mohammed Dahlan. E' il candidato preferito degli americani e degli israeliani quale uomo forte per controllare la striscia dopo il ritiro delle truppe.
Ma il piano di disimpegno — ed ecco l'altro sentiero politico — potrebbe morire presto. Non essendoci più un leader eletto quale è Arafat, sparito l'unico interlocutore riconosciuto dalla piazza palestinese, Israele rinuncia al ritiro. Un'ipotesi evocata dai collaboratori del premier e gradita agli ambienti della destra più dura. Con una possibile variante accarezzata dal ministro Shalom per ricomporre la frattura con l'ala radicale del Likud: il piano di disimpegno verrà attuato solo dopo l'assunzione del potere da parte di nuovi capi. Il quotidiano liberal Haaretz prevede che il cambio di leadership tra i palestinesi farà cadere una delle giustificazioni presentate da Sharon per il ritiro unilaterale: non esiste un partner per le trattative. E che il disimpegno dovrà avvenire attraverso negoziati.
I fautori del congelamento scommettono su un altro scenario. Il caos. Privati del loro simbolo, divisi in clan, con le strutture di comando sfilacciate o inesistenti, i palestinesi potrebbero regolare i loro conti in una sanguinosa faida. Che porterebbe alla «soluzione dei sette nani». Ossia in ogni città palestinese un raìs, sorretto dai militanti locali. Figure dal potere orizzontale, con un'autorità che deve tener conto della forza dei gruppi armati. A cominciare dalle Brigate dei martiri di Al Aqsa, costola radicale del Fatah. Sono sparpagliate sull'intero territorio e ricevono denaro oltre che istruzioni dall'Hezbollah libanese che ha individuato in queste cellule degli agenti di influenza. Sono laici però non disdegnano rapporti con il partito integralista filo-iraniano. Ben più cauta, ma consapevole della propria base (specie a Gaza), Hamas. Il più importante movimento islamico, pur falcidiato dalle operazioni israeliane, ha gli strumenti per proteggere il proprio spazio politico senza però pregiudicarlo. Nelle prime dichiarazioni i capi di Hamas e della più piccola Jihad islamica hanno annunciato che non sfrutteranno il vuoto di potere causato dalla malattia di Arafat.
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