La sinistra ripensa Sharon?
è un buon segno, ma vada fino in fondo, cambiando la sua analisi sbagliata del conflitto israelo-palestinese
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Data: 28/10/2004
Pagina: 1
Autore: la redazione
Titolo: La sinistra ripensa Sharon?
"Ripensare Ariel (e scusarsi)" è il titolo di un articolo di David Bidussa pubblicato dal RIFORMISTA di oggi, 28-10-04, emblematico dei dubbi che in parte cominciano ad affiorare a sinistra sul giudizio politico pregiudizialmente negativo fin qui riservato a Sharon.
Anche su L'UNITA' di oggi Umberto De Giovannangeli, in un articolo intitolato "Timori per Arafat: aggravate le sue condizioni", ma dedicato in gran parte al discorso di Sharon sulla tomba di Rabin e al sostegno dato al premier dai figli dello statista assassinato e dal quotidiano israeliano di sinistra Ha'aretz (che oggi in prima pagina pubblicava un articolo di Yoel Marcus intitolato "Corri, Arik, corri") ravvisa sostanzialmente in Sharon il possibile erede della politica di Ytzhak Rabin.
Persino sul MANIFESTO, mentre Michele Giorgio, nell'articolo "Sharon festeggia, il governo implode" continua a rammaricarsi che "Lo Sharon di Sabra e Chatila" sia stato "trasformato in un alfiere della pace", Zvi Shuldiner in un'analisi ("Il voto alla Knesset un terremoto per lapolitica israeliana") il cui principale difetto, dal punto di vista dell'aderenza ai dati di fatto, è l'identificazione dei coloni con le posizioni oltranziste che sono presenti al loro interno, ma che non ne costituiscono la totalità, riconosce la grande portata politica del voto di ieri.

A noi sembra che in realtà ciò che la sinistra dovrebbe ripensare, al di là del giudizio sulla figura di Sharon, è il suo giudizio complessivo sull'attuale conflitto israelo-palestinese e sul fallimento del processo di pace. Che non si sono prodotti, come spesso ci è stato raccontato, per il prevalere di forze oltranziste, che tali non sono, in Israele, ma per la scelta terrorista e di chiusura al dialogo della dirigenza palestinese. Constatato che Sharon compie oggi scelte che sarebbero potute essere quelle di Rabin, è venuto il momento di capire che Rabin, se si fosse trovato a far fronte all'ondata di terrorrismo stragista e di odio denominata "seconda intifada", sarebbe stato costretto come Sharon a "sfoderare la spada" per garantire a Israele la sopravvivenza.

Ecco l'articolo di David Bidussa:

Da ieri sera esiste di nuovo una questione israeliana rispetto ai luoghi
comuni della convinzione politica. Soprattutto per la sinistra europea e
italiana. Ma anche, occorre aggiungere, per coloro che raramente hanno avuto
la pazienza di guardare dentro la realtà di Israele e di inquadrarlo come
una realtà lacerata, contorta, ma che, alla fine, doveva misurarsi con
la politica.

Esiste, in ogni caso al di là di questo e forse prima di tutto anche una
specifica "questione Sharon". E di questo conta immediatamente prendere
atto.
Da molti punti di vista. Prima di tutto come messa in questione dei canoni
con cui l'abbiamo di solito affrontata, classificata e risolta dall'estate
1982.
In politica non si fanno sconti. E niente è stato più facile che inquadrare
Sharon come l'ultima incarnazione del male. Vi concorrevano molti fattori:
l'aridità del linguaggio, un tono di voce e una dialettica secchi, una struttura
del ragionamento che si materializza persino nel modo di camminare e che
è arrancata, inelegante, priva delle sottigliezze che in diplomazia e nella
comunicazione sognante della politica contano.
A Sharon non sono mai state concesse molte attenuanti e in ogni caso, si
potrebbe anche dire, nemmeno lui le ha mai cercate. Messo alle strette da
una puntigliosa Oriana Fallaci (quando ancora non era all'ordine del giorno
"lo scontro di civiltà") nell'agosto 1982, Sharon giocava allora una partita
in cui si mischiavano arroganza, uso della forza, e determinazione. La storia
sembrava che nella sua testa fosse solo il risultato prometeico e titanico
di realizzare il proprio sogno. Per molto tempo sostanzialmente fino a ieri,
questa era l'immagine che noi avevamo di Sharon. Quella del cavaliere che
combatte la sua battaglia "a prescindere".
Il suo profilo, abbandonata un'immagine a tutto tondo, era quello del perseguimento
di un progetto all'interno del quale non era previsto scendere a patti col
nemico.

E' l'aspetto di continuità su cui e con cui ancora Sharon sembra restare
fedele. Questo profilo c'è ancora, ma va spiegato dentro un'altra cornice.
Per comprenderlo noi dobbiamo uscire dalle nostre classificazioni psicologiche
e analitiche - in breve abbandonare l'idea del "guerriero giapponese" -
e misurarci con una dimensione politica.

Ieri si è aperta una lunga partita che si origina da una presa d'atto laica
e utilitaristica della dimensione politica. Semplicemente Sharon ha compiuto
un passaggio: l'ipotesi della esistenza di Israele non passa più per l'espansione
territoriale, ma per la garanzia della maggioranza demografica sul proprio
territorio. Non è un'idea di sinistra né rappresenta un progetto di sinistra.
Ma la politica si è rimessa in moto e noi dobbiamo prendere atto di questo
mutamento. E, possibilmente, riflettere, e rispondere politicamente.
La partita che ieri ha rimesso in moto Sharon, al di là delle immagini eroiche
o sognanti è la riapertura del dossier del realismo politico. Ma come tutti
i dossier realistici che si scontrano con un sogno, che partono dal prendere
atto che un sogno è destinato a rimanere sogno, non sarà un picnic ed è
possibile anche che finisca male come sulla piazza di Tel Aviv in una sera
di novembre di nove anni fa.

Perché qualcuno può pensare che andrebbe ripetuta la "lezione Rabin" (per
una strana coincidenza che a qualcuno potrebbe anche solleticare strane
congiunzioni cabalistiche, ieri ricorreva l'anniversario nel calendario
ebraico dell'uccisione di Rabin); perché come afferma Uri Avnery forse si
è aperta l'ipotesi concreta della guerra civile dentro Israele; perché gran
parte della topografia politica e dell'asse destra/sinistra da ieri dentro
Israele si è rimesso in moto ed è ancora da vedere se ci sarà la forza di
sopportare internamente il conflitto. Israele, oggi, è un paese complesso,
lacerato, forse anche stanco (si veda per tutti, Stefano Jesurum, Israele,
nonostante tutto, Longanesi). Certamente è di fronte a una svolta. Noi non
possiamo cavillare se chi ha riaperto il processo ci è sempre piaciuto o
meno. Sharon ha riaperto il gioco. Noi dobbiamo sostenerlo.
Tutto questo è possibile. Tuttavia noi dobbiamo anche sapere che se tutto
finirà, invece, di nuovo in tragedia, sarà perché - nonostante il carattere
solitario e titanico della propria scelta, da "padre della patria" che sceglie
contro l'opinione corrente e chiassosa di "fare la propria strada" - anche
noi, qui ci avremmo messo la nostra parte, o, più prosaicamente, avremmo
pensato che niente sarebbe potuto cambiare su quel fronte.
Da ieri la politica si è rimessa in moto. Sharon l'ha rimessa in moto.
La sinistra politica, il fronte culturale e politico che tradizionalmente
l'ha collocato e interpretato come l'ostacolo maggiore al processo di pace,
in breve noi, deve prenderne serenamente atto. Possiamo scusarci e poi continuare
come prima. Avremo compiuto un atto formale di cortesia, ma non avremo dato
nessuna chance alla politica.

Abbiamo anche un'altra possibilità. Quella di smettere di immaginarci lo
scontro politico come un insieme di carte da gioco dove ciascuno è la perfetta
silhouette di un'idea pre-concetta, dove c'è chi gioca al despota e chi
alla vittima e, invece, considerare la partita in Medio Oriente tra israeliani
e palestinesi per quella che è: una lunga ed estenuante guerra che a un
certo punto deve trovare una soluzione mediana. Meglio due feriti che un
morto. Il problema in Medio Oriente non è più la possibilità di un solo
morto, ma evitare che i morti siano due.
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