Antisemitismo in Ambasciata e all' Università. Cristiani perseguitati nell' "Islam moderato"
cronache dell'intolleranza e dell'odio
Testata:
Data: 28/10/2004
Pagina: 2
Autore: un giornalista - Giulio Meotti - Carlo Panella
Titolo: Le carte segrete della storica gaffe dell'ambasciatore Roberts - Pisa antiebraica -
Il FOGLIO di oggi, 28-10-04, pubblica l'articolo a pagina 2 dell'inserto, "Le carte segrete della storica gaffe dell'ambasciatore Roberts", che di seguito riproduciamo:
Roma. Non ce ne voglia Jack Straw, ministro
degli Esteri di sua maestà britannica,
se ritorniamo sull’argomento. Ma a nostro
avviso Sir Ivor Roberts, ambasciatore
della stessa maestà qui nella nostra beneamata
città eterna che fu di imperatori,
papi e gerarchi (certo non una tradizione
solidamente democratica e sempre rispettosa
delle minoranze), dovrebbe essere con
grazia e discrezione quantomeno interrogato
per avere qualche spiegazione in più
su un evento spiacevole e inusuale soprattutto
per un rappresentante di una potenza
atlantica, europea, alleata di Washington
e di Roma nella guerra al terrorismo e
nell’opera di pacificazione e ricostruzione
dell’Iraq.
Antefatto. Dal 17 al 19 settembre Sir Ivor
Roberts, in compagnia di tante eccelse e illuminate
menti del centrosinistra europeista
inglese e italiano, stava assiso in quel di
Pontignano, in similmente nominata Certosa,
vicino a Siena. Tra gli ulivi, le vigne e i
gentili declivi toscani, all’ombra del sobrio
chiostro e certamente ispirati da buona cucina
e generose mescite di Chianti, gli illuminati
hanno proceduto – come ricorda lo
stesso Straw in una lettera scritta e inviata
la settimana scorsa a Neville Nagler, direttore
del Board of Deputies of British Jews,
l’organizzazione che rappresenta le comunità
ebraiche inglesi – a discutere animatamente
per due giorni di "Età dell’Europa",
tema dell’annuale raduno organizzato dal
British Council, braccio culturale di sua
maestà nei cinque continenti. Ricorda
Straw al Board che al convegno vigevano le
regole di Chatham House, edificio situato
nella Piazza di St. James, a due passi da
Piccadilly Circus e dai più eleganti sarti
londinesi di Vermyn Street e Savile Row, dove il governativo Royal Institute of International
Affairs discute da generazioni ormai
di politica estera, nella speranza d’illuminare
i ministri con saggezza e acume. Regola
cardine del vetusto istituto è che, come
ricorda Straw nella suddetta lettera, "quando
un incontro o parte di un incontro avviene
secondo le regole di Chatham House, i
partecipanti sono liberi di usare le informazioni
ricevute, ma l’identità o l’affiliazione
istituzionale dell’oratore non possono essere
rivelate". Traduzione: si dice il peccato,
ma non il peccatore.
Perché Straw ricorda al Board le regole
di Chatham House? Perché secondo un articolo
del Corriere della Sera del 20 settembre,
ripreso da centinaia di quotidiani
in più di cinquanta paesi, tra cui il Times di
Londra, all’ambasciatore veniva attribuito, al condizionale viste le suddette regole, un
eccelso commento. L’ambasciatore avrebbe
detto che "se qualcuno è pronto a celebrare
l’eventuale rielezione di Bush, quello è
al Qaida", aggiungendo che Bush era "il miglior
sergente reclutatore di al Qaida" e
che invece John Kerry "sarà molto più ragionevole
e arrendevole coi palestinesi, e
terrà testa alle pressioni della lobby ebraica
a Washington". Di quest’ultima frase il
direttore del Board chiedeva a Straw di
render conto in una lettera del 21 settembre,
nel quale notava come, se i commenti
fossero effettivamente stati pronunciati
dall’ambasciatore britannico, "essi rivelano
un grado di pregiudizio e antisemitismo
che in un esperto diplomatico è assolutamente
inaccettabile". Sir Ivor, nel frattempo,
aveva lasciato il consiglio di saggi riuniti
all’ombra dei cipressi di Pontignano ed
era ritornato nell’urbe, limitandosi a rilevare
come quei commenti non riflettessero
le sue opinioni personali, ma non facendo
nulla per smentirne l’origine. Nemmeno
Straw, rispondendo in una lettera del 18 ottobre
ora integralmente pervenuta al Foglio,
smentisce l’avvenuto. Si limita a rispondere
alle educate e discrete proteste
del Board citando la regola di Chatham
House e chiudendo, a suo avviso, il discorso
con la laconica e diplomatica frase:
"Non sarebbe appropriato per me fare
commenti su un articolo scritto da qualcuno
che non era alla conferenza e fondato su
una selettiva citazione di presunti commenti".
Traduzione: o avete le prove oppure
smettetela di rompere scatole.
Carteggio alla mano e in tutta umiltà,
verrebbe da far notare al ministro degli Esteri di sua maestà le seguenti cose: a più
d’un mese dall’accaduto, né l’ambasciatore
né il ministro hanno smentito nulla o negato
che i commenti siano stati espressi nel
corso dell’incontro di Pontignano. Né alcuno
dei partecipanti ha dichiarato che tali
commenti non siano stati fatti e che il giornalista
del Corriere della Sera se li sia inventati.
Possiamo quindi notare come le
frasi riportate dall’autorevole giornale italiano
e successivamente dalla stampa internazionale
siano innegabilmente state
dette da qualcuno, non siano state citate in
maniera faziosa o selettiva, ma fedelmente,
e che chi le ha pronunciate – chiunque esso
sia – appartenga a buon merito alla categoria
delle persone che coltivano pregiudizi
antisemiti e non sia proprio l’esempio
perfetto di diplomatico (sempre se lo fosse,
ovviamente) di un paese alleato degli Stati
Uniti in Iraq e non solo. Ora, lungi da noi il
voler additare Sir Ivor per aver detto cose
la cui paternità non è dato attribuirgli, e
lungi da noi il voler additare il suo datore
di lavoro in questo suo ripararsi dietro le
regole di Chatham House per non fare l’atto
dovuto, cioè o smentire seccamente oppure
chiudere l’argomento diplomaticamente
invitando Roberts a spiegare, smentire
o magari traslocare, senza troppo rumore,
tra qualche mese. Ci permettiamo invece
di notare, sempre lettere in pugno, che
la risposta del ministro di un governo che,
senza dubbio, è "impegnato contro la discriminazione
razziale e l’incitamento all’odio
razziale, a livello nazionale e internazionale",
non dà spiegazioni, pare inoltre
"riservata", troppo riservata, per far considerare
dimenticato un incidente che, nel
bene e nel male, è comunque diventato di
pubblico dominio.
A pagina 4 del FOGLIO di ieri, 27-10-04, Giulio Meotti presenta, sotto il titolo "Pisa antiebraica" una panoramica inquietante di atti di antisemitismo nel mondo.
Ecco l'articolo:

Roma. "Bisogna guardarsi da un nemico
silenzioso", recita un proverbio yiddish. Sui
muri di via Festa del Perdono, sede dell’Università
Statale di Milano, dopo molti anni
è comparsa la scritta "Boicotta Israele".
Negli anni Ottanta, parlando di una docente
ebrea, capitava che una studentessa dicesse:
"Guarda com’è benvoluta e circondata.
E pensare che pochi anni fa sarebbe
diventata una saponetta". O che due studentesse
discutessero così di regali natalizi:
"Ho comprato un’agenda di pelle. Di
ebreo naturalmente". O che un docente invitato
a una conferenza esternasse: "Assumete
dei prof. ebrei? Una volta non potevano
insegnare". Mentre negli Stati Uniti il
Congresso ha approvato il Global Anti-Semitism
Awareness Act, un monitoraggio annuale
sul fenomeno, in una piazza di Oslo è
stata eretta una statua con una stella di David
inzuppata nel sangue, nelle parole
"morte" e "Sabra e Chatila". Stando a ciò
che è emerso ieri dal Senato accademico di
Pisa, il Rettore reinviterà il consigliere
Shai Cohen. Mai come oggi però le parole
di Martin Luther King furono più vere: "Dichiari
di non odiare gli ebrei, di essere
semplicemente antisionista. Quando qualcuno
attacca il sionismo intende gli ebrei".
Anche dopo la vicenda, a Pisa circola un
volantino: "Israele è la testimonianza di come
lo stato e il capitale possono mostrare il
loro volto più feroce".
Però c’è un’altra Pisa, senza olezzo antagonista,
la Pisa a volto scoperto, che studia,
viaggia, stringe mani e accordi. Il 9 dicembre
2003 l’Università ha firmato una convenzione
con l’International Institute for
Holocaust research dello Yad Vashem. Nei
giorni dell’agguato a Cohen, tra il 10 e il 15
ottobre, a Gerusalemme c’è stato un seminario
congiunto e l’11 novembre inizierà un
ciclo di incontri. Pisa è la prima università
italiana, purtroppo l’unica, ad aver attivato
un centro di studi ebraici, presieduto da
Michele Luzzati. Si sta lavorando a una ricognizione
di tutte le epigrafi del cimitero
ebraico della città e d’accordo con le università
israeliane si terrà il nono convegno
internazionale "Italia Judaica". E’ in progetto
il catalogo dei libri ebraici delle biblioteche
pisane.
A Roma invece all’Università La Sapienza,
insegnano docenti come Rita di Leo, che
chiama Colin Powell "il giamaicano" e si
compiace che i terroristi "tengono sulla
graticola degli attentati quotidiani i generali
latinos che vengono da West Point".
L’Unione delle Università del Mediterraneo,
presieduta dal rettore della Sapienza,
Giuseppe D’Ascenzo, ha sedi al Cairo e Algeri,
e nel suo board uno sciame di docenti
di Tunisi e Nablus, ma nemmeno un israeliano.
Affiliate a Unimed sono le università
di "Palestina", tra cui quella di Nablus, An
Najah. Najah è la roccaforte di Hamas in
Cisgiordania. Sari Nusseibeh ci rischia la
pelle quando va a parlare di accordo con
Israele. E’ l’università da cui sono usciti
moltissimi kamikaze, dove nel luglio scorso
Hamas progettava una serie di attentati. E’
l’università di Samaa Atta Bader, una studentessa
fermata prima di farsi esplodere,
che ha detto: "Ho deciso di sacrificarmi uccidendo
più soldati che potevo". Unimed
organizza conferenze sugli Hezbollah, ha il
benestare della Lega araba e nella sua rassegna
stampa fa bella mostra di articoli di
El Watan, Al Ahram, Al Arabi sui "bambini
vittime dell’aggressione israeliana", analisi
dell’Unicef sul "mondo pieno di tante
Beslan dimenticate" e dell’Unrwa che "cerca
l’appoggio mondiale per porre termine
alle sofferenze del popolo palestinese".
"L’odio rende produttivi", scriveva Karl
Kraus. La Sapienza ha organizzato un convegno
sull’antisemitismo, poi fallito, invitando
Tariq Ramadan, e un altro sull’acqua
in medio oriente, millantandolo come
scientifico. Si è concluso con un video sul
"Muro sionista". Ma non ci si meraviglia
più di niente, nemmeno che il giornale
Maariv riferisca che il Brasile ha proibito
ai coloni israeliani di adottare bambini
brasiliani. Ci mancava però la notizia che
un dipartimento di un’università italiana è
affiliato col bacino di utenza di Hamas.
Tutto questo si fa, ovviamente, in nome
della pace, la stessa per cui l’avvocato Robert
Jancu si era presentato a una manifestazione
di New York con il cartello "Sionisti
per la Pace". Uno degli organizzatori lo
ha aggredito: "Chi ti ha detto che si trattava
di una dimostrazione per la pace?
A pagina 2 dell'inserto di oggi, IL FOGLIO pubblica anche l'articolo di Carlo Panella "Non solo Baghdad, contro i cristiani pure gli Stati arabi "moderati" ", che fa il punto sull'intolleranza e le persecuzioni religiose anticristiane nell'Islam.
Ecco l'articolo:

Gli attentati che il 16 ottobre hanno profanato
a Baghdad la chiesa caldea di
San Joseph, nel quartiere Nafaq al Shurta,
quella ortodossa di San Jacob e San George
nel quartiere di Doura, la chiesa cattolica
di rito latino a Karrada, e quella siro-antiochena
di S. Thomas a Mansour, sono diversi
dagli altri. Questi attentati dimostrano
infatti che i cristiani iracheni – che già
fuggono in massa dal paese – rischiano di
vivere come i cristiani di tutti i paesi arabi
e islamici moderati: perseguitati, impossibilitati
a fare proselitismo, ammazzati, come
risulta dalla lista degli 88 uccisi negli
ultimi mesi pubblicata dalla Fides. All’agenzia
Fides il laico Elias, siriaco-cattolico
iracheno, affida la sua richiesta d’aiuto alla
Chiesa: "Le famiglie cristiane hanno
paura per questo molte fuggono dal paese".
E’ finito il privilegio garantito dal cristiano
Tareq Aziz, numero due del regime
di Saddam Hussein, che aveva cooptato le
comunità cristiane (800 mila iracheni, il 3
per cento della popolazione) all’interno del
blocco sociale ristretto che godeva della
protezione del regime baathista. Con le
stragi del primo agosto, che hanno fatto una
decina di morti nelle chiese di Baghdad e
Mosul, i cristiani iracheni hanno iniziato lo
stesso calvario di persecuzione che da
vent’anni sopportano i loro confratelli pachistani,
molucchesi, egiziani, yemeniti, algerini,
sudanesi, nigeriani. E’ dagli anni 80,
infatti, che in tutto il mondo musulmano è
iniziata una persecuzione di cristiani, con
decine di migliaia di martiri (quelli veri,
che subiscono innocenti la morte, non quelli
islamici, che si uccidono per sterminare
innocenti), con apice di crudeltà nei paesi
musulmani "moderati". Il fenomeno si è
sommato alla proibizione di praticare la fede
cristiana in vigore dal 1930 nella "moderata"
Arabia Saudita, in cui la pena per
l’esibizione di un crocefisso è la morte.
E’ un fenomeno radicale e diffuso, denunciato
raramente e sottovoce dalla Chiesa
cattolica e dallo stesso Giovanni Paolo II,
con una scelta tra le più misteriose del suo
pontificato. Le grandi organizzazioni religiose
impegnate nel "dialogo interreligioso"
occultano il fenomeno con testardaggine
mentre quelle laiche, come le Acli, ne
parlano soltanto per sostenere che "questi
cristiani morti pagano con la loro vita il
prezzo di guerra illecita e sbagliata che gli
Stati Uniti hanno condotto imbrogliando la
comunità internazionale", accusando dunque
Washington d’esserne la causa con un
trucco temporale che ignora migliaia di
martiri cristiani innocenti uccisi prima del
marzo 2003 nei paesi musulmani.
Il culmine della tragedia delle persecuzioni
di cristiani e della decisione della
Chiesa cattolica di "porgere l’altra guancia"
in silenzio, si ebbe in Pakistan il 7 maggio
1998, quando John Joseph, 62 anni, vescovo
di Faisalabad, la terza città del paese,
dopo aver pronunciato un appello all’unità
di cristiani e musulmani, si suicidò con
un colpo di pistola alla tempia, dopo essere
andato, alla testa di un gruppo di fedeli,
davanti a un tribunale in cui era stato condannato
a morte il 28 aprile precedente un
suo fedele cristiano, Ayub Masih, accusato
in base alla "legge contro la blasfemia",
promulgata dal dittatore Zia-ul-Haq. Il Vaticano
non commentò il gesto; attenzione e
condoglianze arrivarono soltanto dalla Fides
e da Radio Vaticana. Quella terribile
scelta del vescovo di dare scandalo, racchiudeva
in sé tutta la drammaticità del
contesto, delle motivazioni. Esprimeva la
chiara volontà di immolarsi platealmente
per sfidare la persecuzione pachistana e insieme
per chiamare con il proprio sangue
innocente l’attenzione delle gerarchie della
Chiesa di Roma, del pontefice. Non ebbe
soddisfazione. Roma tacque, il pontefice
tacque. Eppure, la persecuzione dei cristiani
in Pakistan, la condanna a morte di
Ayub Masih e di tanti altri, sono di una gravità
eccezionale, proprio perché sono
espressione di quella cultura islamica che
viene definita "moderata", perché sono attuate
dallo Stato con nuovi codici che la
sanciscono. E’ una "persecuzione islamica
di Stato" non inquinata, come troppo spesso
si dice per quelle in atto in Nigeria,
Sudan
(due milioni di morti in vent’anni),
Egitto e Molucche, per relativizzarle, da
conflitti etnici. La condanna a morte di
Ayub Masih, comminata da un tribunale di
Stato, era una delle tante condanne a morte,
sempre accolte nel quasi silenzio dal Vaticano,
o ad altre pene emesse sulla base di
un’"islamizzazione" dello Stato che il "laico"
generale Zia-ul-Haq, dittatore pachistano,
peraltro totalmente appoggiato dagli
Stati Uniti, ha introdotto dal 1977 in poi.
Dopo aver portato a termine un colpo di
Stato e avere impiccato il leader laico Alì
Bhutto, dando piena soddisfazione alla
piattaforma dell’ideologo fondamentalista
Sayyd al Mawdudi e del suo movimento Jama’
e Islami, Zia-ul-Haq ha modificato leggi
e Costituzione abbandonando i codici
ispirati alla Common Law. La Repubblica
islamica che in Iran è nata con la rivoluzione
dell’ayatollah Khomeini, in Pakistan
si è imposta dall’alto, avendo come elemento
trainante le élite militari (che poi
sceglieranno Osama bin Laden e i talebani
per fare dell’Afghanistan un protettorato
del Pakistan). E’ stata così introdotta la più
rigida versione della Legge coranica, la
sharia, che vieta ogni forma di proselitismo
religioso cristiano, equiparata all’apostasia
e permette il culto solo dei già convertiti.
Questo processo si è sviluppato, in forme
più contorte, anche in Egitto, dove, nei fatti,
lo Stato si fa carico di perseguitare il
proselitismo
cristiano: 12 musulmani che si sono
convertiti al cristianesimo copto sono in
prigione nel basso Egitto, con l’accusa di
"apostasia". Quello che è più grave e che
ha conseguenze ancora più funeste, è che
questa messa al bando del proselitismo cristiano
e quindi la legittimazione della persecuzione
dei cristiani è teorizzata in quel
vero e proprio manifesto dell’islam "moderato"
che è la Dichiarazione islamica dei
Diritti dell’Uomo. Approvata all’unanimità
1l 5 agosto 1990 al Cairo da tutti e 54 gli Stati
musulmani, teorizza nel suo articolo 10
che l’islam "è una religione intrinsecamente
connaturata all’essere umano" e quindi
proibisce il proselitismo di altre religioni
verso i musulmani. La persecuzione dei cristiani
sviluppata dall’islam "moderato" e
dagli Stati musulmani "moderati" fa dunque
da fondamenta, da sfondo, da giustificazione
delle persecuzioni dei cristiani da
parte degli islamici fondamentalisti e terroristi.
I quattro religiosi dei Padri Bianchi
uccisi in Algeria il 28 dicembre ’92; i sette
monaci trappisti sgozzati in Algeria nel
maggio ’96; il vescovo cattolico di Orano,
Pierre Clavarie, trucidato il 2 agosto ’96; le
tre suore missionarie della carità, la famiglia
religiosa fondata da Madre Teresa di
Calcutta, uccise ad Hodeida, in Yemen il 27
luglio ’98; i 18 cristiani pachistani massacrati
in un attentato a Bahawalpur, nella
provincia del Punjab il 28 ottobre 2001, i tre
missionari massacrati in Yemen il 30 dicembre
2002 sono frutto d’iniziative "private"
di musulmani che si arrogano il diritto
di supplire a una prescrizione di legge in
vigore anche negli Stati musulmani moderati.
Questo tema rivela i legami profondi,
biunivoci, tra il terrorismo islamico e un
contesto musulmano "moderato" che ne
supporta e motiva gesti e stragi.
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