Per Viola Israele ha torto, sempre e comunque
ecco il il fulcro del suo ragionamento
Testata: La Repubblica
Data: 27/10/2004
Pagina: 1
Autore: Sandro Viola
Titolo: Ma così non riparte il processo di pace
Israele ha torto. Sempre e comunque. Questo è il fulcro attorno al quale Sandro Viola costruisce i ragionamenti che ama condividere con i suoi lettori.

Nel giorno in cui tutti i media esaltano fin dai titoli il coraggio e l’ abilità manovriera di un primo ministro che ha forzato il proprio governo ed il parlamento, nel quale è in minoranza, ad approvare una decisione lacerante, Viola mette in rilievo solamente quel che a lui pare un effetto perverso della decisione assunta.

Procediamo con ordine, seguendo il perverso modo di analizzare i fatti di cui Viola, una volta di più, fa sfoggio.

Il ritiro da Gaza rappresenta un traguardo che "una lunga serie di piani di pace avanzati in questi trentasette anni dalla comunità internazionale non erano mai riusciti ad ottenere dai governi israeliani". Che questi piani di pace siano stati accettati da Israele e respinti dai palestinesi non conta nulla: è Israele che non ha fatto quel che ci si aspettava da lui.Che i piani di pace prevedessero obblighi per entrambe le parti in conflitto, e che sia stata quasi sempre la parte palestinese a non ottemperare a questi obblighi non modifica il giudizio.

Viola prosegue affermando che il piano Sharon (forse questa volta l’ immagine personalistica ed in qualche modo mitizzante di Sharon responsabile unico di qualunque cosa succeda, in particolare se si tratta di atti di forza, non è usata a sproposito) suscita "perplessità" , "prima di tutto perché si tratta d’ un gesto unilaterale".

Il governo ed il parlamento d’ Israele hanno deciso di compiere spontaneamente un dolorosissimo gesto unilaterale, privo di contropartite: ma questo è un merito, non un demerito, dal momento che sblocca una situazione incardinata ai reciproci rifiuti di ascoltarsi e di dialogare, ed in particolare al rifiuto delle fazioni palestinesi di abbandonare l’ orrendo strumento del terrorismo.

Viola precisa meglio: "Con i palestinesi, infatti – né più né meno come Golda Meir all’inizio dell’ occupazione, e più tardi Begin e Shamir – Ariel Sharon non intende negoziare". Viola appare sempre più affetto da una amnesia congenita, e non ricorda che nel 1967 e dopo i governi israeliani hanno ripetutamente offerto al mondo arabo e palestinese la terra in cambio dei tratti di pace, come poi fece proprio il governo Begin con l’ Egitto. Non ricorda che i territori occupati, per Israele, costituivano a quel tempo un pegno per la pace, e che solamente dopo, a seguito di decenni di violenti drastici ed espliciti rifiuti da parte araba le cose cambiarono. Non ricorda questi rifiuti, Viola, da Khartoum ad ogni altra occasione, e l’ odio attizzato contro Israele nelle sedi ONU, della Lega Araba, dei congressi panislamici, del mondo dei paesi non allineati….Non ricorda, Viola, che nel 1979 l’ ONU votò, con 75 voti a favore, 35 contrari e 37 astensioni, una risoluzione di condanna del trattato di pace appena stipulato fra l’ Egitto ed Israele in quanto "accordo parziale" e pertanto illegittimo…

Viola scopre le sue carte poco più avanti: "Israele è già adesso lo Stato che suscita più riprovazione nelle opinioni pubbliche di mezzo mondo". Già, grazie ai Viola ed a quanti come lui amano demonizzare Israele anche quando si ritira dal Libano o da Gaza, o quando (come nel 1979) firma un trattato di pace. L’ affermazione di Viola, così esplicita, così brutale, senza possibilità di ripensamenti o di opinioni diversamente formulate, lascia allibiti. E’ vero, la Russia che reprime ed opprime, che usa armi vietate contro le vittime del terrorismo e contro i bambini uccidendone centinaia, non suscita lo sdegno che ritroviamo nei commenti ad un plotone di terroristi in procinto di compiere un attentato uccisi da soldati israeliani. Ma la colpa di ciò è di Israele, o delle menti distorte di chi ci ammannisce la sua saggezza dalle pagine dei giornali?

"Non si può vincere con la sola spada" è una citazione di Begin usata da Sharon, che Viola giudica "un soprassalto di saggezza", che tuttavia giunge tardi. E nuovamente Viola dimentica che molti dei militari che sono stati eletto a capo di governi israeliani hanno sempre sostenuto questo principio, cercando di dargli attuazione, e che nulla di tutto ciò trova riscontro sul versante arabo-palestinese.

"Il terrorismo palestinese e le devastanti risposte militari israeliane": una frase ad effetto che crea una forma di non esplicitabile simpatia per il primo termine di questo raffronto,il terrorismo, che non ha aggettivazioni negative. Solo le risposte militari israeliane sono "devastanti".Il terrorismo non ha nulla di devastante, è lì, e si può solo prenderne atto.

Ma forse il colmo dell’ incapacità di capire di cui Viola dà prova è occultato in una successiva osservazione: Israele avrebbe dovuto prendere la decisione di abbandonare una parte "almeno" dei territori occupati uno due o tre anni fa. Nel pieno della fase più incandescente del terrorismo suicida. Nel più totale vuoto di potere palestinese, in cui Arafat impediva la nascita di governi, o li sabotava, e rifiutava di fare quanto i vari tentativi di arrivare ad una procedura di pace (la Road Map ne è solo l’ ultimo esempio) richiedevano alla parte palestinese. Subito dopo che Arafat aveva rifiutato l’ offerta di avere la sua capitale a Gerusalemme. Insomma, per Viola Israele avrebbe dovuto capitolare dinanzi all’ ondata del terrorismo irrefrenabile, fuggendo ed abbandonando ogni suo avamposto, anziché tentare di sconfiggere sul campo il terrorismo e trovare una controparte politica per discutere. Solo in quel caso, della fuga, la decisione unilaterale di Israele avrebbe potuto trovare il consenso di Viola.

Ecco l'articolo:

La maggioranza del parlamento di Gerusalemme ha votato per il piano Sharon: e questo vuol dire che verso maggio o giugno dell'anno prossimo - salvo un ribaltamento per ora imprevedibile - l'esercito israeliano si ritirerà dalla striscia di Gaza, gli insediamenti ebraici verranno smantellati, e circa 7000 coloni dovranno rientrare in Israele. Nella cronologia dei cent'anni dello scontro per la Palestina, l'evento è importante.

Per la prima volta Israele abbandona infatti una parte dei territori occupati con la guerra del 1967. Ritiro che una lunga serie di piani di pace avanzati in questi trentasette anni dalla comunità internazionale, non erano mai riusciti ad ottenere dai governi israeliani, di sinistra e di destra, succedutisi da allora.

Non che il piano Sharon non susciti perplessità, obbiezioni. Prima di tutto perché si tratta d'un gesto unilaterale, uscito da una decisione del governo d'Israele e non da un negoziato con la parte palestinese. Con i palestinesi, infatti - né più né meno come Golda Meir all'inizio dell'occupazione, e più tardi Begin e Shamir - Ariel Sharon non intende negoziare. Ha deciso l'abbandono di Gaza perché considera che esso conviene alla sicurezza d'Israele, e questo è tutto. Del resto sa bene che non ritirarsi richiederebbe azioni militari sempre più massicce, stragi di palestinesi sempre più vaste (centotrenta morti soltanto nell'ultimo mese), mentre Israele è già adesso lo Stato che suscita più riprovazione nelle opinioni pubbliche di mezzo mondo. Una scelta unilaterale, dunque, non il riavvio del processo di pace.


Ma nonostante queste riserve, sarebbe assurdo sottovalutare la portata del voto di ieri alla Knesset. Basta dare un'occhiata alla scena politica d'Israele, dove la destra estrema schiuma di rabbia e i pacifisti, finalmente, festeggiano. Dove la sinistra laburista, che ha votato per il piano Sharon, rientra in gioco dopo quattro anni di sconfitte elettorali e lacerazioni interne. No, su questo non ci sono dubbi. Di fronte al cadaverico immobilismo del conflitto israelo-palestinese (immobilismo politico-diplomatico, si capisce: perché i kamikaze, i carri armati e gli elicotteri non hanno mai interrotto le loro sanguinose scorrerie), il ritiro d'Israele da una parte dei territori occupati rappresenta un primo movimento.

Una crepa, quanto meno, in una situazione dominata sinora dall'immutabile e disperata sequenza di attentati palestinesi e rappresaglie israeliane.
Semmai, c'è da riflettere sui tempi della decisione d'abbandonare la Striscia di Gaza. Aprendo lunedì il dibattito parlamentare, Sharon ha pronunciato una frase per lui, uomo di guerra, protagonista di tante delle battaglie combattute da Israele nell'ultimo mezzo secolo, del tutto nuova: "Non si può vincere con la sola spada". E dinanzi a questo soprassalto di saggezza, è lecito chiedersi perché esso giunga così tardi. Quando tutt'attorno si stende ormai un paesaggio di rovine. Le rovine materiali, morali e politiche che il terrorismo palestinese e le devastanti risposte militari israeliane hanno provocato in questi quasi quattro anni di governi Sharon.

I "se" non servono, è vero, a interpretare la storia, ma in ambito morale hanno una loro logica. Come sarebbe diversa oggi, infatti, la situazione tra Israele e Palestina se la decisione d'abbandonare almeno una parte dei territori occupati fosse stata presa uno, due o tre anni fa. Centinaia di vittime innocenti sarebbero ancora in vita, le ruspe non avrebbero abbattuto centinaia di case palestinesi. Invece d'essere percorsa com'è adesso da refoli di vera e propria follia (basta pensare ai cartelli dei coloni che promettono a Sharon la stessa fine di Rabin), la società israeliana sarebbe meno spaccata, e nessuno parlerebbe d'un rischio di guerra civile. Sia pure dedita ai doppi giochi, incapace di decidere una volta per sempre tra lotta armata e negoziato politico, la dirigenza dell'Olp potrebbe essere ancora coinvolta in uno sforzo di mediazione internazionale: mentre oggi il vuoto di potere è totale, il caos scaturito dal terrorismo di Hamas e dalle mazzate di Sharon ha in pratica tolto di mezzo l'interlocutore palestinese.

Soprattutto, Gaza non sarebbe il girone dell'inferno che è diventata in questi quattro anni. Macerie, montagne d'immondizia, collasso di tutte le attività economiche, 75 per cento di disoccupati. La disperazione in cui il fondamentalismo ha pescato a volontà, rendendo Hamas la forza politico-militare dominante in tutta la Striscia. Ciò che sollecita, pensando al giorno del ritiro, interrogativi inquietanti. Chi interverrà a mettere ordine, a fermare il terrorismo, a riportare una qualche forma di vita civile, sostenibile, in questo che è ormai un annus mundi? Sicché ha ragione Arieh Eliav, uno dei primi leader pacifisti, quando dice sconsolato: "A che prezzo terribile stiamo pagando una scelta che anni fa non ci sarebbe costata niente".

Né Gaza era, riguardo ai simbolismi religiosi che infestano l'area, difficile da lasciare. È vero che nel libro di Giosuè viene detta abitata da una delle tribù d'Israele, ed è vero che per i più bigotti fa anch'essa parte di Eretz Israel. Ma le vere terre bibliche sono la Giudea e la Samaria. È lì che il mondo religioso ebraico potrebbe vedere, se Israele le lascerà mai, l'amputazione, il gesto sacrilego, il tradimento. Non a Gaza. E Sharon lo sa benissimo, tant'è vero che ha varato il piano di ritiro da Gaza ma in Cisgiordania non ha smantellato neppure gli insediamenti illegali dei gruppi religiosi più fanatici. Così, conviene non dimenticare l'intervista data un po' più d'un mese fa ad Haaretz dal più intimo consigliere di Sharon (avvocato della famiglia e del governo), Dav Weisglass. Il piano del ritiro da Gaza, diceva Weisglass, serve in realtà a congelare ogni trattativa di pace, perché Sharon non ha mai accettato l'idea d'uno Stato palestinese. Mollare Gaza e quattro insediamenti minori in Cisgiordania, ci permetterà quindi di tenere tutto il resto. E se l'avvocato dice il vero, il giubilo che i pacifisti mostravano ieri nelle strade di Gerusalemme non durerà a lungo.
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