Tre quotidiani che non hanno capito l'importanza del voto sul ritiro da Gaza
Europa, Il Messaggero e Il Mattino
Testata:
Data: 27/10/2004
Pagina: 1
Autore: la redazione
Titolo: Tre quotidiani che non hanno capito l'importanza del voto sul ritiro da Gaza
EUROPA di oggi, 27-10-04, pubblica a pagina 3 l'articolo di Filippo Cicognani "Alla Knesset resa dei conti su Gaza. Arafat operato. Ma sta davvero meglio?".
Per Cicognani il disimpeno da Gaza è: "Uno sgombero che gli stessi palestinesi definiscono un bluff. Infatti, Israele manterrà il controllo militare della striscia col diritto d’intervento se e quando lo ritenga opportuno; non solo, per rendere il ritiro più accettabile dall’estrema destra, Sharon continua ad ordinare raid dal cielo e da terra".
Non ha nessuna importanza, per lui, il fatto che i raid sono risposte ai lanci di razzi kassam, nè che da terra (attraverso i tunnel a Rafah) e dal mare (vedi la vicenda della Karine A) transitino le armi che alimentano il terrorismo.
Il fatto che, se finisse quest'ultimo, la sovranità palestinese su Gaza potrebbe divenire piena è ignorato.
Lo stesso smantellamento delle colonie è ignorato: le colonie infatti erano un perfetto argomento per dichiarare che Israele non difende la propria sicurezza, ma un progetto di espansione territoriale. Una volta che caduta questa possibilità non rimane ai critici pregiudiziali di Israele che ignorare del tutto l'esistenza di un problema "sicurezza".
Come infatti Cicognani fa nel suo articolo, che di seguito pubblichiamo:

Ariel Sharon è andato dritto per la sua strada, senza cercare soluzioni di ripiego, come qualcuno ipotizzava: ha messo ai voti in parlamento il suo piano di disimpegno da Gaza e da piccole porzioni della Cisgiordania, nonostante il rovinoso referendum tra gli iscritti al Likud , la possibile spaccatura del suo partito e le minacce di morte, ma sicuro di poter contare sul consenso della maggioranza dell’opinione pubblica. E tutto fa pensare che abbia avuto ragione: secondo le previsioni il suo piano dovrebbe passare, ma per diventare operativo occorrerà un altro voto, nella migliore delle ipotesi a marzo. Il prezzo potrebbe essere alto. Infatti, senza l’appoggio esterno dei socialisti sarebbe crisi, una crisi che porterebbe probabilmente a problematiche elezioni anticipate . Dei 40 deputati del Likud, la metà dovrebbe votare contro e tra questi anche ministri e sottosegretari del governo in carica, che Sharon, come ha annunciato, vuole licenziare dai rispettivi ministeri. E lo può legittimamente fare, come ha stabilito la Corte suprema, poche ore prima del voto.
Il sì alla Knesset, se alla fine così sarà, molto probabilmente spingerà fuori dal governo il Partito nazionale religioso, contrario al ritiro, lasciando il premier alla guida di un esecutivo di minoranza.
A Sharon, dunque, non restano molte possibilità a disposizione: la strada che vorrebbe percorrere e che gli è sempre piaciuta, è quella di formare un governo di unità nazionale, soluzione già sperimentata con scarso successo nel suo primo mandato.
Il severo giudizio dell’elettorato laburista sulla partecipazione del loro partito ad una coalizione considerata troppo intransigente nei confronti della questione palestinese, allora costò moltissimo al Labur, che oggi può contare solo su 21 deputati, forse neppure sufficienti per garatire a Sharon quella stabilità che cerca. Ma ora i laburisti non ripeteranno gli stessi errori, saranno molto cauti e chideranno garanzie precise prima di entrare nel governo.
Finora, ufficialmente non ci sono accordi, Shimon Peres si limita a parlare della necessità di abbandonare Gaza e non fa anticipazioni sul futuro: la resa dei conti si potrebbe verificare con l’imminente voto sulla finanziaria. Se fallisse l’operazione governo di unità nazionale, a Sharon, che si è alienato il consenso dei coloni, un tempo suoi strenui sostenitori, e con lo scisma incombente del suo partito, la cui ala dura, guidata dal ministro delle finanze ed ex premier Benjamin Netanyahu, da tempo è sul piede di guerra contro il piano di disimpegno, resterebbero solo due alternative. Un referendum su base nazionale, che potrebbe anche ricompattare il partito in caso di una sostanziosa maggioranza a favore del piano, ma che non convince il premier, oppure il voto anticipato, con scarse possibilità di successo. Tra l’altro, Netanyahu, proprio prima del dibattito, ha incassato un appoggio rilevante, quello del capo dello stato Moshe Katsav, finora fedele al suo ruolo super-partes.
A questo punto Sharon potrebbe entrare di diritto nella storia come il primo capo di governo che ha infranto il tabù della sacralità della terra, ma al di là dei futuri sviluppi politici, sa bene che sarà maledettamente difficile allontanare i coloni da quegli insediamenti che a suo tempo lui stesso volle, e ieri hanno manifestato in tanti davanti alla Knesset; inoltre anche i rabbini hanno invitato alla disobbedienza ufficiali e soldati che il prossimo anno dovrebbero procedere allo sgombero. Uno sgombero che gli stessi palestinesi definiscono un bluff.
Infatti, Israele manterrà il controllo militare della striscia col diritto d’intervento se e quando lo ritenga opportuno; non solo, per rendere il ritiro più accettabile dall’estrema destra, Sharon continua ad ordinare raid dal cielo e da terra. Nell’ultimo attacco, durato 48 ore, contro un campo profughi di Kan Yunis, la seconda città della striscia, sono rimasti uccisi 17 palestinesi, una settantina i feriti, molti sono ragazzini. E probabilmente continuerà così per scoraggiare ogni velleità palestinese di cantar vittoria al momento dell’eventuale ritiro.
Alla tensione politica di Gerusalemme, al sangue di Gaza si aggiunge il giallo sulle condizioni di salute di Yasser Arafat. Prima un via vai di medici dal Cairo e da Tunisi che alimenta l’ipotesi di un ricovero in ospedale, con tutte le imlicazioni che comporta una simile eventualità, poi il suo atourage che dice: « il Rais ha solo l’in- fluenza, con febbre e dolori addominali».
Dopo un fine settimana concitato e pieno di interrogativi, lunedì Arafat, da quasi tre anni prigioniero del suo quartier generale di Ramallah, è stato sottoposto, negli stessi uffici della Moqata, a gastroscopia, in pratica gli è stata inserita nello stomaco una sonda a fibre ottiche per valutare l’origine dei dolori. Oppure, sempre per via endoscopica gli sono stati tolti calcoli alla cistifelia, un malanno che lo affligge da tempo. Comunque, la diagnosi è stata tranquillizzante: «Arafat sta bene, ha tutti i sintomi di uno stato postin fluenzale, è ancora debole e ha bisogno di riposo». Tutti concordi i suoi fedelissimi, ma il mistero resta. Forse il vecchio combattente è più grave di quanto i suoi lasciano intendere se lunedì il ministro della difesa Shaul Mofaz ha detto di non aver obbiezioni ad un suo eventuale ricovero al Cairo, senza però garantirgli il ritorno.
«Ma chi glielo ha chiesto?» è stata la piccata risposta di Saeb Erekat, responsabile delle eterne trattative con Israele
Su IL MESSAGGERO Eric Salerno, nel suo articolo "La pace merita un prezzo anche alto" esordisce con una messa in dubbio delle intenzioni di Sharon, a questo punto ingiustificabile.
"Soltanto il tempo", scrive infatti Salerno, ci dirà se Sharon è sincero, se il suo piano di disimpegno da Gaza non sia una trappola come quella che Itzhak Shamir, premier ai tempi della conferenza di Madrid, predispose quando si disse disponibile al negoziato"
A quale "trappola" alluda Salerno non è dato sapere. Si capisce bene invece quale sarebbe, secondo lui, la prova della sincerità di Sharon: l'accettazione di un negoziato sulla base dei principi di Ginevra, che così sintetizza: "no al ritorno dei rifugiati, scambio territoriale per salvare alcuni insediamenti, Gerusalemme capitale indivisa dei due stati" .
E' utile ricordare, in proposito, che i "negoziatori" palestinesi a Ginevra, che no rappresentavano nessuno, hanno dichiarato, una volta tornati nei territori, che non si erano affatto impegnati a rinunciare al ritorno dei profughi e, anzi, che la bozza di accordo prevedeva di fatto che Israele fosse tenuto ad accettare "qualunque cifra" di profughi titolari del "diritto al ritorno" indicat dai palestinesi.
Su IL MATTINO, Michele Giorgio firma la "cronaca" "I palestinesi non esultano e temono un inganno", che ripropone le tesi dell'articolo pubblicato sul MANIFESTO (vedi "Manifesto contro la pace, IC 27-10-04). L'articolo: "Tre mesi per cancellare gli effetti dell'occupazione" inizia così: "Tel Aviv. Tre mesi, da maggio a agosto 2005, per cancellare 37 anni di colonizzazione ebraica nella Striscia di Gaza, iniziata dopo la conquista di questo territorio che fu egiziano fino alla «guerra dei sei giorni»"
Gaza è stata dunque "occupata" dagli israeliani, mentre è semplicemnte stata un "territori" egiziano fino alla guerra dei sei giorni.
Nessuna occupazione egiziana nella guerra del 48...

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