Sharon presenta alla Knesset il piano di ritiro da Gaza
cronaca e analisi del difficile passaggio della politica israeliana
Testata: Corriere della Sera
Data: 26/10/2004
Pagina: 15
Autore: Antonio Ferrari - Mara Gergolet
Titolo: Il giorno più difficile del generale che si gioca tutto - Ritiro da Gaza, Sharon alla prova finale
A pagina 15 del CORRIERE DELLA SERA di oggi, 26-10-04 Antonio Ferrari commenta il dibattito alla Knesset sul piano di ritiro da Gaza nell'articolo "Il giorno più difficile del generale che si gioca tutto". In un articolo sostanzialmente corretto Ferrari formula due giudizi privi di fondamento.
Il primo: Sharon avrebbe iniziato il suo mandato con la convinzione "che il processo di pace si potesse congelare sine die". In realtà il processo di pace era stato "congelato" dalla scelta terrorista di Arafat, e Sharon lo avrebbe riaperto, come si era più volte impegnato a fare, non appena fossero cessati gli attentati. Resosi conto dell'assenza di un interlocutore ha optato per un disimpegno unilaterale.
In secondo luogo: "duecentomila coloni, e in particolare alcune migliaia di estremisti terrebbero oggi "in scacco Israele".
Alcune migliaia di estremisti avrebbero forse la volontà, ma non la possibilità, di "tenere in scacco" in scacco Israele. Duecentomila coloni ne avrebbero forse la possibilità, ma non la volontà.
Ecco l'articolo:

Ariel Sharon ha ammesso: «E' il momento più difficile della mia vita». Ma alla fine ha ascoltato soltanto la propria determinazione, e ha voluto ignorare le minacce di morte e il clima di crescente ostilità, che ha spinto persino il suo principale avversario politico, il leader laburista Shimon Peres, a lanciare l'allarme, cogliendo nell'ira dei coloni contro il premier la stessa carica d'odio che precedette l'assassinio di Yitzhak Rabin.
Ma il primo ministro è un duro, e come Peres ha la tempra dei padri fondatori di Israele. Convinto di agire per il bene del Paese, ha deciso di chiedere un voto definitivo al suo piano, che prevede lo smantellamento degli insediamenti ebraici della Striscia di Gaza. Ben cosciente di dover giocare l'ultima mano di un poker al buio, con una posta altissima, e sapendo di sfidare la minaccia di una guerra civile. Se ce la farà, passerà alla storia come il leader che ha infranto il tabù della sacralità della terra. Se fallirà, il suo declino sarà inevitabile. Il premier, a disagio tra gli opportunismi dei politici di professione, è tornato a indossare la divisa da generale e vuol dimostrare con i fatti quali siano le «dolorose concessioni», che aveva spesso annunciato e sempre evitato di indicare.
In verità, Sharon ha temporeggiato finché ha potuto, cercando di compensare il suo piano con le uccisioni mirate, il pugno di ferro contro gli estremisti palestinesi, e profondendo giudizi sprezzanti sulla leadership dell'Anp, prigioniera di rancori incrociati, impotente, e incapace di parlare con una sola voce. Già sa, Sharon, che il premier Abu Ala è pronto a dimettersi, e che l'isolato Arafat, nella sua disperata partita per il potere, è tornato inutilmente a stuzzicare le ambizioni di Abu Mazen, rioffrendogli quel che l'anno scorso gli aveva sottratto.
Temporeggiare ancora? Impossibile, perché le pressioni sono fortissime, l'ansiosa società israeliana chiede certezze, e i territori rischiano di esplodere.
Ci ha provato più volte, Sharon, a strappare il consenso del suo partito. Lui, uomo della destra e garante della sicurezza del Paese, era convinto che il Likud fosse pronto a inghiottire l'amara medicina, nonostante molti parlamentari avessero ricevuto il voto proprio dai coloni. Ha fallito. Il referendum nel partito, che nessuno lo obbligava a fare, è stato una disfatta. La coalizione di governo ha cominciato a perdere i pezzi, e a quel punto alcuni erano convinti che il primo ministro cercasse disperatamente una via d'uscita. Grave errore di valutazione, dice Naoum Barnea, editorialista dello Yedihot Ahronot, uno dei più bravi e preparati giornalisti del mondo. «L'errore è di aver ritenuto Sharon l'alfiere delle richieste dei coloni, dell'espansione territoriale, dell'Eretz Israel. Si è scambiata la politica a sostegno degli insediamenti con un dogma. La frattura che si è prodotta ne è la dimostrazione. Se infatti i coloni credono nella sacralità della terra, il premier pensa alla terra soltanto in termini di garanzie di sicurezza per Israele». Ieri, alla Knesset, il primo ministro non ha esitato ad ammonire i coloni: «In alcuni di voi si cela un complesso messianico».
All'inizio, Sharon aveva probabilmente pensato che il processo di pace si potesse congelare sine die. Ma lo stato di instabilità permanente stava diventando pericoloso (come segnalava l'intelligence), e il premier ha colto al volo gli umori di una società turbata: diversa da quella che lo aveva spinto al vertice di Israele, e che oggi vuole aggrapparsi al coraggio e prepararsi a riaprire il dialogo con la parte moderata del mondo palestinese.
Ecco perché Sharon si è convinto che lo smantellamento degli insediamenti di Gaza sia l'unica strada percorribile. Stasera deve affrontare un voto drammatico, sapendo di potercela fare spaccando, però, il suo partito: poco più della metà dei deputati del Likud lo sosterrà, gli altri voteranno contro. Un risultato che, paradossalmente, verrà letto come una vittoria della sinistra, compatta nel chiedere l'evacuazione di 7.500 coloni infuriati, che le cospicue compensazioni economiche non hanno placato.
Non solo. A preoccupare il premier è soprattutto l'appello di numerosi rabbini, che invitano alla disobbedienza gli ufficiali e i soldati, che il prossimo anno dovranno procedere allo sgombero. Sharon sa che alla Knesset avrà i numeri per procedere, ma sa anche che da dopodomani dovrà aprire a coloro che lo sosterranno.
Altrimenti, le elezioni diventeranno inevitabili per rispondere alla domanda che molti hanno cercato di scongiurare: possono duecentomila coloni, e in particolare alcune migliaia di estremisti, tenere in ostaggio Israele?
Mara Gergolet scrive la cronaca del dibattito nell'articolo "Ritiro da Gaza, Sharon alla prova finale", sostanzialmente corretto, tranne che per una "spiegazione" delle parole di Sharon che non convince: "Si rivolge ai ribelli della destra: «Io credo che il disimpegno rafforzerà Israele, ci permetterà di mantenere il territorio che è vitale per la nostra esistenza». Come dire: sacrifico Gaza per salvare le colonie in Cisgiordania".
In realtà, se è vero che Sharon vorrà conservare gli insediamenti più garndi in Cisgiordania, non è affatto certo, e anzi è piuttosto improbabile, che li voglia conservare tutti.
Ecco l'articolo:

GERUSALEMME — Ariel Sharon si presenta in anticipo. Arriva quando l'Aula è ancora vuota, come il generale che vuole fiutare il campo di battaglia: in tre anni di guida del governo, e forse in tutta la sua carriera, mai con un solo voto si è giocato il futuro. E mai ha affrontato una questione così grande, che — se approvata — rimarrà scritta nei libri di storia. Il Parlamento di Gerusalemme vota sul ritiro da Gaza: ossia lo sgombero di 7.500 coloni in 21 insediamenti, la fine di 37 anni d'occupazione israeliana della Striscia. Il tutto, mentre a Ramallah, lo «storico nemico» Arafat è alla prese con una misteriosa malattia: molto seria, forse, se ieri il ministro della Difesa Shaul Mofaz ha detto che Israele non si opporrà a un suo ricovero in Egitto (senza, però, garantirgli l'autorizzazione a tornare). Secondo altre fonti, il raìs potrebbe semplicemente lasciare la Mukata per andarsi a curare nell'ospedale di Ramallah. Intanto, ieri, nel suo fortino Arafat sarebbe stato sottoposto a un piccolo intervento. Solo un esame endoscopico, secondo un portavoce, per il quale il raìs è risultato in buone condizioni.
E' stata una vigilia tormentatissima, che ha spaccato in due il Paese e il governo. Sulla carta, l'esecutivo di Sharon non ha i numeri per vincere. Occorrerà il sostegno dell'opposizione laburista, del resto sicuro. Così Sharon, quando legge il discorso, ha la calma di chi ha contato le forze. Non un eccesso, non un tremore.
Spiega: «Ho imparato dall'esperienza che non si può vincere con la sola spada.
Non possiamo governare su milioni di palestinesi. Israele vuole essere una democrazia». Si rivolge ai ribelli della destra: «Io credo che il disimpegno rafforzerà Israele, ci permetterà di mantenere il territorio che è vitale per la nostra esistenza». Come dire: sacrifico Gaza per salvare le colonie in Cisgiordania. Dall'aula, una raffica di fischi, le kippah nere insorgono, il deputato Effi Eitan viene cacciato dall'aula: Sharon non alza neppure lo sguardo.
Piuttosto, previene le critiche della comunità internazionale: «Il disimpegno non sostituisce i negoziati (come aveva affermato il suo consigliere Weisglass, ndr). Ma è un passo fondamentale in un periodo i cui la trattativa con i palestinesi è impossibile». Infine, l'appello: «Chiedo a Israele di unirsi in questo momento. Chiedo a tutti di sostenermi».
Ma è proprio l'unità che Sharon ha bruciato, in questa sua ostinata determinazione ad andare avanti.
Del governo. Del suo partito, spaccato come mai: alla resa dei conti, voteranno a favore del ritiro non più di 22 dei 40 parlamentari del Likud. Ma soprattutto, il premier ha tagliato i ponti con i coloni, che l'accusano di tradimento. Sharon si rivolge anche a loro, ma è una frase che segna il distacco tra due mondi: «Siete delle splendide persone, ma purtroppo tra voi si sta sviluppando un complesso messianico».
A pochi metri di distanza, Shimon Peres segue il discorso sprofondato sulla poltrona. Imperturbabile. E' lui che porterà a Sharon i voti decisivi, i 21 deputati laburisti: secondo i calcoli, voteranno per il ritiro dai 65 ai 68 parlamentari; 45 o 48 i contrari. Quando tocca a lui parlare, Peres dice: «Non vale la pena di combattere per Gaza. Quando mai la guerra è stata un vantaggio?». Fuori dalla Knesset, centomila persone chiedono il ritiro: «Bisogna lasciare Gaza subito». Oggi, nello stesso posto si raduneranno migliaia di coloni: «Sharon — il loro slogan — dilania il popolo». Si teme che impediscano l'ingresso ai deputati. Ma quando, stasera, dopo 17 ore di dibattito, il ritiro sarà messo ai voti, Sharon quasi certamente la spunterà. Però avrà anche dietro di sé una diversa maggioranza, spostata a sinistra. Il primo atto di un nuovo governo?
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