Un torto da riparare, la ricerca scientifica in Israele, le strategie dell'Iran
informazione corretta e una giusta richiesta
Testata:
Data: 20/10/2004
Pagina: 1
Autore: un giornalista - Giulio Meotti - Tatiana Boutourline
Titolo: Solo scuse (e in ritardo) al diplomatico israeliano. Ma quando può parlare - Una radicale libertà, ricerca ed esperimenti senza limiti in Israele - L'Iran, privato di Moqtada, arma gli alleati e aspetta il suo momento
Dalla prima pagina del FOGLIO di oggi, 20-10-04, riportiamo l'articolo "Solo scuse (e in ritardo) al diplomatico israeliano. Ma quando può parlare?", sulla vicenda dell'aggressione al consigliere dell'ambasciata di Israele Shai cohen all'università di Pisa, di cui Informazione Corretta si è più volte occupata nei giorni scorsi.
Il FOGLIO chede, giustamente, che il torto fatto alla libertà di tutti venga riparato consentendo effettivamente al diplomatico israeliano di parlare
Ecco l'articolo:

Roma. L’università di Pisa è in ritardo. Ormai sono passati sei giorni da quando il consigliere dell’ambasciata d’Israele, Shai Cohen, è stato cacciato dall’aula magna della facoltà di Scienze politiche, in seguito a un’azione squadrista di un gruppo di studenti "pacifisti" che ha lanciato un messaggio violento, per lo meno a parole: "Fuori da quest’aula, altrimenti la nostra violenza si trasformerà da verbale a fisica". Questo silenzio imbarazzante danneggia l’immagine di uno tra i più antichi atenei d’Italia, nato nel
1343. Giovedì il professor Maurizio Vernassa ha invitato gli studenti di Storia e istituzioni dei paesi afroasiatici ad ascoltare il diplomatico israeliano per una lezione intitolata: "Israele, l’unica democrazia in medio oriente". Cohen non è arrivato di nascosto, è stato invitato a entrare nell’università dalla porta principale, dove si trovava un gruppo di manifestanti con kefiah al collo. "Sharon assassino, Israele boia, il sionismo è un crimine contro l’umanità", erano alcuni degli slogan dei manifestanti, ricorda Cohen al Foglio. I cori da fuori sono entrati nell’aula magna. "Uno squadrone di oltre venti ragazzi ha cominciato a urlare verso di me: fascista, assassino, e altri insulti personali che non vorrei ripetere". La situazione ha rischiato di diventare pericolosa, c’è mancato poco che l’attacco verbale si trasformasse in una rissa totale, che avrebbe potuto mettere in pericolo l’incolumità del diplomatico e di decine di studenti. I tentativi di altri ragazzi, pronti ad ascoltare l’ospite, di calmare i manifestanti, sono falliti. Il messaggio di
terrore diretto alla direzione della facoltà è stato chiaro: "O lo cacciate oppure rimaniamo qui. Questo israeliano non apre bocca". "Non siamo antisemiti, ma antisionisti – hanno precisato i manifestanti – Israele non ha diritto d’esistere". Il preside della facoltà di Scienze politiche, Alberto Massera, ha preso il microfono e ha annunciato: tutti a casa, incluso l’ospite. Niente polizia, niente lezioni d’ordine pubblico, niente educazione di tolleranza verso l’altro. Massera ha spiegato la sua decisione al Foglio: "In 14 anni a Pisa, soltanto una volta sono stato costretto a chiamare la polizia, quando un ragazzo si era rifugiato nel mio ufficio, perseguitato da un gruppo di studenti che lo minacciavano per le sue opinioni politiche. Questa volta il clima era molto acceso. Se avessi deciso di chiamare la polizia, in quei cinque minuti poteva accadere un disastro".
Se è successo oggi a un ebreo israeliano, domani potrebbe accadere a qualcun’altro che non è visto bene da alcuni studenti. E’ una minaccia reale. Fonti all’interno dell’Università di Pisa confermano: "Si tratta di un gruppo radicale che i professori non vogliono affrontare perché hanno paura di finire sulla lista nera. Sanno che potrebbero essere minacciati a loro volta". Eppure
lo "squadrone" dei ragazzi della sinistra della facoltà di Scienze politiche conosce la parola democrazia. Due di loro fanno persino parte del consiglio di Facoltà. Il giorno dopo i fatti non si è sentita alcuna voce ufficiale. Il professor Massera precisa che si è scusato con il diplomatico israeliano che è stato costretto a tornare a casa, ma non è stato presentato alcun progetto che miri a ripulire l’immagine della facoltà e dell’università. 48 ore dopo la vicenda, secondo un giornale locale (a livello nazionale soltanto il Giornale ha raccontato i fatti di Pisa), il presidente della regione Toscana, Claudio Martini, ha preso carta e penna e ha scritto al consigliere Cohen il suo rammarico. Passano altre 48 ore e anche il rettore dell’Università presenta
le sue scuse, e così anche il professor Massera ieri ha scritto all’ambasciata d’Israele. Ma manca un aspetto essenziale in tutte queste lettere, che servono a poco: una proposta che dimostri che a Pisa un ebreo e un israeliano hanno il diritto di esprimersi, una data in cui si reinvita Shai Cohen e lo si fa parlare nell’università che lo ha cacciato. E poi, forse, servirà anche
una giornata di studio in cui intellettuali della sinistra italiana ed europea si chiedano, insieme agli studenti, come sia stato possibile arrivare a questo punto. Se la conclusione fosse la stessa, con ragazzi che accusano altri ragazzi di essere fascisti, e loro stessi si comportano come tali, affermando
che Israele non ha diritto d’esistenza e di parola, allora non ci sarà differenza tra pacifismo finto e odio radicale e vero verso gli ebrei e gli israeliani.
In prima pagina e seconda pagina Giulio Meotti nell'articolo: "Una radicale libertà, ricerca ed esperimenti senza limiti in Israele" descrive con accurate informazioni come Israele affronta i problemi bioetici posti dallo sviluppo della medicina e delle scienze della vita.
Ecco il pezzo:

Roma. La ricerca scientifica gode di un’ampia libertà in Israele, trova fondamento e limitazioni nella Halaka, la Legge religiosa ebraica. E’ una libertà accettata moralmente dall’intera società e dalle autorità rabbiniche, perché le nascite tramite fecondazione in vitro sono il 2 per cento del totale, contro lo 0,2 degli Stati Uniti. L’ordine di "prolificare e moltiplicarsi" ripetuto due volte nella Torah, prima ad Adamo ed Eva e poi alla famiglia di Noè, non è mai stato considerato tanto urgente quanto oggi che Israele non beneficia più delle grandi ondate migratorie. Inoltre: dall’inizio della seconda Intifada sono morti 1017 israeliani e nel 2012, stando ai dati dell’American Jewish Committee, nel Grande Israele, con dentro Samaria e Giudea, i palestinesi saranno maggioranza. Per questo vengono addirittura finanziati dallo Stato i tentativi di fecondazione in vitro fino alla nascita dei primi due figli. Con gli attentati kamikaze, alcuni genetisti hanno parlato
persino della possibilità di prelevare un tessuto di un figlio morto e di clonarlo, e consentire alle mogli dei soldati uccisi nei Territori di fecondarsi con il seme congelato del marito.
Michel Revel è il simbolo del connubio israeliano tra religione e scienza: noto genetista molecolare, Revel è un ebreo osservante e un sostenitore acceso della libertà di sperimentazione. E i rabbini, come Rav Herzog, primo rav capo d’Israele e studioso di scienze; rav Tatz, del Centro per l’etica medica di Gerusalemme; rav Halperin, editore di Assia, principale magazine israeliano di etica medica; rav Glatt, rettore del New York Medical College e rav Zilberstein, chassid che organizza i più grandi forum israeliani con i più importanti medici. Se per un grande rav spagnolo del XIV secolo, Yosef Albo, "non è possibile che la Halaka sia stagnante e che non cambi", il centro Schlesinger dello Shaare Zedek Medical Center di Gerusalemme fornisce consulenze in tutto il mondo a pazienti con problemi interpretabili attraverso la Halakah. Nel 1987 Israele ha varato una legislazione sull’impianto degli
ovuli fertilizzati, lasciando in sospeso la questione degli embrioni sovrannumerari. Nel 1999 il Parlamento ha bloccato per cinque anni la clonazione umana e l’intervento sui gameti, per studiare l’impatto di queste tecniche da un punto di vista sociale, morale e legale. Questo Genetic Intervention Act non ha limitato però la ricerca sulle staminali, laddove tutta l’Europa lo ha fatto, ad eccezione dell’Inghilterra e della Francia, che ha interdetto l’utilizzo di embrioni francesi ma consentito l’importazione di embrioni dall’estero. Israele è il paese con più brevetti procapite al mondo, in cui Uri Sivan, del Technion di Haifa, identifica un virus in trenta minuti e Ben-Zeev, del Weizmann, inverte le metastasi del cancro al colon. E l’elenco dei
premi Nobel di origine ebraica è pressoché sterminato (49 in biologia, 43 in fisica e 26 in chimica). Aaron Feit, ricercatore al Weizmann di Rechovot, con rav Michael Beio sta scrivendo un libro su "Bioetica e pensiero ebraico nell’era postgenomica", frutto di un grande scavo filologico e scientifico. Erano ebrei i migliori medici nel medioevo, gli unici a poter vivisezionare un cadavere. Maimonide era medico personale del visir islamico. Libri come Qohelet, Isaia e Giobbe sono il braille del pessimismo occidentale, deserto dentro stampato in faccia, carne estenuata e grazia lapidata, il Giobbe di "dalla vulva perché farmi uscire?". Oltre a questa ventata di buio, c’è un pensiero ottimista, un’economia immanente degli scopi umani. Così per rav Auerbach "è meglio un minuto in questa terra che tutto il mondo nell’aldilà".
E in quegli stessi libri ci sono le prime risposte sull’embrione, la fecondazione eterologa e quella in vitro. Sono nel Talmud i primi casi d’inseminazione artificiale: "L’uomo il cui seme fuoriesca mentre fa il bagno in una vasca e questo entra nell’utero della donna che vi si lava dopo è considerato padre". Per i Poskim, i maestri che legiferano, "è divieto di Torah uccidere un embrione dal suo concepimento, ad eccezione del caso in cui la madre sia in pericolo". Maimonide auspicava la vivisezione, "puoi togliere le piume da un’oca viva" per trovare la cura. Aggiunse che "chi uccide un embrione è un omicida". Per un grande Posek del XVII secolo, rav Shah, fino al 40° giorno l’embrione "non è nulla", goccia senza significato, atomo senza scopo. Un aborto entro questi giorni è "come se non ci fosse mai stato". Perché sebbene la vita umana sia sacra per Pikuah Nefesh, l’embrione non ha nefesh, anima. Paternità e maternità hanno nella Ghemarà la loro prima definizione: "Tre compagni sono nella persona: Dio, il padre e la madre. Dal bianco del padre ossa e tendini e unghie e cervello e il bianco dell’occhio. Dal rosso della madre la pelle e la carne e i capelli e il nero dell’occhio. Dal Signore il respiro e l’anima". E’ il primo testo che parla di un’ereditarietà genetica. Secondo la maggioranza dei rabbini c’è persona solo dall’attimo in cui emette il primo respiro. E’ quindi conforme alla Halaka il Rapporto della Commissione di consulenza bioetica dell’Accademia israeliana delle Scienze: si permettono tutti gli esperimenti con cellule staminali; è accettabile non solo l’utilizzo di embrioni sovrannumerari, ma anche la loro
creazione; una volta fatto questo "la ricerca non deve avere ulteriori limitazioni". Solo un rabbino, Moshe Feinstein, parla di terapia
genetica a scopi cosmetici, non solo curativi. La Legge ebraica, che non ammette
forme d’industrializzazione della maternità e marketing della nascita, consente l’eliminazione d’embrioni in sovrannumero: se è "rodef", colui che viene a ucciderti, e ha minori
possibilità di vita perché più piccolo e mal locato nell’utero, è lecito eliminarlo per salvare gli altri e la madre. E’ vietata la donazione e il commercio di seme, ovuli ed embrioni per il pericolo di futuri rapporti
consanguinei. La tecnica eterologa, che in Israele è anonima e molto frequente, è bandita nei testi talmudici perché "colui che viene su molte donne e non sa su quale o colei su cui vengono molti uomini e non sa da quale, si troverà un padre che sposa la propria figlia e un fratello la propria sorella, si
riempirà il mondo di bastardi e la terra di zima". Per la Halaka la fecondazione in vitro è applicabile solo tra coppie sposate e che non abbiano figli da almeno dieci anni. Secondo Jung "chi conosce gli abissi della fisiologia ne ha le vertigini". L’ebraismo sembra averle domate. "Gettare reti a nord del futuro", scrisse Paul Celan, sembra davvero il destino dell’ebraismo.
A pagina 2 Tatiana Boutourline nell'articolo "L'Iran, privato di Moqtada, arma gli alleati e aspetta il suo momento" analizza le strategie destabilizzatrici di Teheran in Iraq e nel conflitto israelo-palestinese.
La situazione in Iraq rappresenta una minaccia e un’opportunità" tuonava quest’estate, in un sermone all’università di Teheran, l’uomo per tutte le stagioni, Hashemi Rafsanjani. La partita non è ancora chiusa, ma la minaccia (americana e israeliana) è tutt’altro che dissolta e le opportunità di dettare le regole a Baghdad si assottigliano. Dallo Sciri (Consiglio supremo per la rivoluzione in Iraq) a Moqtada al Sadr, passando per i buoni uffici di Ahmad Chalabi, nessuno dei cavalli su cui l’Iran ha finora puntato ha poi confermato sul campo la stoffa del purosangue. Ma Teheran non si può permettere di ritirarsi in buon ordine. Circondata com’è da Washington e dai suoi alleati, per la Repubblica islamica non è in gioco soltanto lo status e la sua influenza di potenza regionale, ma la sopravvivenza stessa del regime al quale lo spauracchio nucleare potrebbe non bastare. La mullahcrazia iraniana non si rassegna a non dirigere le danze e, se l’orgoglio sciita resta un’arma da brandire, senza nuovi uomini della provvidenza all’orizzonte la strategia iraniana non può che essere attendista. Fallito il sogno di marciare su Baghdad con Moqtada e i suoi per creare una Repubblica islamica sorella, l’Iran intensifica la penetrazione della sua intelligence. Lo sforzo delle ultime settimane è stato quello di estendere la rete informativa, moltiplicare i
contatti e gli interlocutori e, di pari passo, cementare le intese, armare gli alleati e aspettare. L’avanzata iraniana – coadiuvata da una rete capillare di organizzazioni caritatevoli associate a Sadr, agli Hakim, ma anche al vasto arco religioso di Qom legato alla Hawza di Najaf – non è sfuggita alle autorità irachene. L’infiltrazione di falsi pellegrini iraniani, intensificata in occasione del ramadan e stimata a 14 mila uomini dal quotidiano iracheno al Nahdha, è stata denunciata dal ministro della Difesa iracheno Hazem al Shalan che in passato aveva già definito l’Iran "il primo nemico dell’Iraq". Le accuse sono state aggravate dall’ipotesi che dietro una serie di omicidi mirati perpetrati contro uomini dell’intelligence irachena si nasconda la longa manu di
Teheran. I sospetti si concentrano sulle attività del corpo diplomatico iraniano in Iraq. Secondo il responsabile della sicurezza irachena, Mohammad al Shahwani, l’offensiva iraniana si avvantaggerebbe della collaborazione di Badr, il braccio armato dello Sciri. Al Shawani non esclude la possibilità che la Repubblica islamica abbia stretto un’alleanza con il terrorista giordano al Zarqawi. Il giornale iracheno al Zaman riporta le voci di un soggiorno iraniano
e fonti dell’intelligence giordana avvalorano le voci di colloqui e contatti a partire dallo scorso anno. Se è impossibile escludere l’eventualità di accordi tra emissari di Teheran e al Zarqawi per colpire obiettivi mirati, risulta meno plausibile la tesi di un accordo programmatico. Del resto, in Iraq, l’Iran vanta
già guerriglieri armati di comprovata fedeltà. Con la caduta di Saddam, Teheran si è assicurata l’ingresso in Iraq di un primo nucleo di 90 uomini di Hezbollah. Legata a Badr dopo anni di addestramento congiunto, questa prima avanguardia ha fraternizzato con l’armata di al Mahdi ritagliandosi rapidamente un ruolo di primo piano. L’infiltrazione di Hezbollah è stata guidata da una nuova unità dei pasdaran, la Brigata dei martiri per il risveglio islamico globale, un’organizzazione incaricata anche di reclutare uomini per missioni suicide in Iraq, Libano e Palestina. Il rafforzamento dei tradizionali legami con Hezbollah non si limita infatti alla corsa per Baghdad. Il sostegno iraniano all’organizzazione passa per la Siria e guarda a Israele. L’asse Teheran-Damasco, rinverdito dalla cooperazione sul nucleare, è stato rafforzato
da una recente visita del presidente iraniano, Mohammed Khatami, nella capitale siriana. Il viaggio fa seguito all’invio di una partita di 220 missili che l’Iran, stando al quotidiano kuwaitiano al Siyassa, ha potuto far consegnare a Hezbollah: "Il 4 agosto, in un aeroporto militare a nord di Damasco sono atterrati due velivoli. All’atterraggio erano presenti l’ambasciatore iraniano
in Siria Reza Baqiri e l’ambasciatore iraniano in Libano Massoud Idriss". Secondo fonti dell’opposizione siriana a Londra, i missili in questione avevano una gittata di 250/350 km, erano cioè potenti abbastanza da poter raggiungere qualsiasi obiettivo, Israele in testa. Il ruolo di Damasco, secondo l’analista Patrick Seale, sarebbe quello di un fondamentale trait d’union: "Una nuova struttura di comando composta da pasdaran, Hezbollah e Hamas sta prendendo
forma e i siriani sono la testa di ponte di questo pericoloso gruppo misto sciita-sunnita". Ma mentre la Siria mostra di chinare la testa alle pressioni internazionali in Libano, la Repubblica islamica rilancia la sua partita contro Israele. L’offensiva, partita nei campi dei rifugiati palestinesi di Ein Hilweh in Libano, mira, secondo il quotidiano israeliano Maariv, ad annientare la leadership fedele ad Arafat e a egemonizzare la lotta armata palestinese in Israele anche a costo di servirsi di al Qaida. Le prime avvisaglie si sono già intraviste a Gaza, ma potrebbe essere solo l’inizio.
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.
lettere@ilfoglio.it