Gli anni di piombo di Israele
quelli che i media chiamano "seconda Intifada"
Testata: Tempi
Data: 18/10/2004
Pagina: 1
Autore: Giulio Meotti
Titolo: Anni di piombo
Dal numero del 14 ottobre 2004 del settimanale TEMPI, riportiamo l'articolo di Giulio Meotti "Anni di piombo"
Sono quattro e sono costati 1.017 vittime israeliane e oltre 5mila feriti
(il 70% dei quali, civili): per i media si chiama "seconda Intifada", per
Israele l'attacco finale alla propria esistenza

Come il precedente a Ras Burka, nel Sinai, dove nel 1985 un poliziotto
egiziano uccise sette turisti israeliani, l'attentato di Taba cade pochi
giorni dopo il quarto anniversario della "seconda Intifada". I dati diffusi
dallo Shin Bet, il servizio segreto israeliano, raccontano meglio di
qualunque altra cronaca questi quattro anni: un israeliano morto ogni tre
palestinesi, 138 attentati suicidi e 13.730 con armi da fuoco, 1.017 vittime
israeliane (più che nella guerra del 1967), per il 70 per cento civili, e il
ferimento di altre 5.598. La mesta contabilità del terrore è scesa grazie al
"gader", in ebraico "recinto", per l'Onu "Muro": Marc Otte, inviato
dell'Unione Europea in Medio Oriente, ha appena detto al Financial Times
Deutschland che «la barriera tra Israele e Cisgiordania ha determinato un
drastico calo nel numero degli attentati» (l'84 per cento delle vittime e il
92 dei feriti). Il liberal Los Angeles Times citando il poeta Robert Frost
scrive: «Buoni recinti fanno buoni vicini».
Sull'Intifada Al Aqsa abbiamo intervistato Alexandre Adler, editorialista di
Le Figaro, intervenuto nell'ottimo documentario "Decryptage" di Philippe
Bensoussan: «La prima Intifada fu qualcosa di spontaneo, aveva le sue radici
nella coscienza che emergeva nei Territori e non era prevista dalla
direzione palestinese di Tunisi: fu una vittoria morale del popolo
palestinese e una sconfitta per Arafat. Con la vicenda del tunnel sotto la
Spianata delle Moschee, il 25 settembre del 1996, Arafat sperimentò che la
violenza non spingeva Israele, allora governato da Netanyahu, ad una
risposta altrettanto dura. Capì che non poteva ripetere l'errore del 1987 e
decise di fare il doppio gioco: negoziare con Abu Mazen e preparare
l'insurrezione armata, delegando a Marwan Barghouti la creazione dei Tanzim.
Arafat non voleva andare a Camp David, Peres lo comprese e disse: "Dovremmo
fermarci, ci siamo spinti troppo oltre". Al suo ritorno dagli Stati Uniti
Arafat vide che per la sinistra israeliana era la fine e decise di lanciare
l'Intifada. Qualche ora prima della visita di Sharon sul Monte del Tempio,
ritenuta malamente la causa delle violenze, tre ufficiali israeliani alla
testa delle pattuglie miste, create con gli accordi di Oslo, furono uccisi a
sangue freddo. Poi le manifestazioni dell'amico di Arafat e deputato alla
Knesset, Ahmed Tibi. Il piano era cominciato». Il ministro per la Sicurezza
d'Israele, Shlomo Ben Ami, consentì la visita di Sharon solo dopo che Jabril
Rajoub, suo omonimo palestinese, gli aveva assicurato che non sarebbe
successo nulla se Sharon non fosse entrato nelle moschee. Nel 2001 Rajoub ha
detto che «non fermeremo i figli del nostro popolo (i "martiri") per far
piacere ad Israele».
Barghouti, nel marzo del 1996, all'Indipendent aveva riferito che «i nostri
uomini hanno già ricevuto i loro ordini». Quali fossero gli ordini lo disse
Arafat nel campo di Dehaishe, dove gridò: «Guerra! Guerra! Continuate
così!». Quell'anno un'ottantina di israeliani saltavano in aria, dalla Jaffa
Road di Gerusalemme al centro Digenzoff di Tel Aviv. All'algerino Sawt
al-Ahrar, nel 1998, Arafat disse che «l'Anp è pronta a iniziare l'Intifada».
Dal 1993 al 2000, quando la trattativa era più che mai in corso, furono
uccisi 350 israeliani. Arafat, alla radio palestinese, aveva detto che «la
lotta continuerà fino a che tutta la Palestina non sarà liberata», dal fiume
al mare, aggiunse Faisal Husseini, leader dell'Olp a Gerusalemme. Farouk
Kaddoumi, uno dei leader dell'Olp, nel gennaio del 2003 ha detto che «non
siamo mai stati differenti da Hamas. Non c'è differenza fra noi e loro».
Efraim Inbar, docente all'università Bar-Ilan, sul Jerusalem Post ha scritto
che l'obiettivo principale dell'Intifada era far sì che «la società
israeliana andasse in pezzi e che, alla fine, accettasse di essere invasa da
milioni di profughi palestinesi». Soprattutto alla luce dei dati
dell'American Jewish Committee, secondo cui nel 2012, nel "Grande Israele"
con dentro Gaza, la Samaria e la Giudea, i palestinesi saranno già
maggioranza. Per questo «la vittoria di Israele è arrivata con un prezzo
altissimo», come ha detto al Wall Street Journal lo storico Michael Oren.
Oltre a Sari Nusseibeh, che alla Cnn ha appena parlato di "un'immane
tragedia per i palestinesi", l'analista Mahdi Abdelhadi ritiene che la
seconda Intifada «è un'altra Naqba (catastrofe) per i palestinesi, peggiore
della prima». L'economista Sebastien Dessous ha fatto i conti: «Il 50 per
cento della popolazione è povera, rispetto al 20 di prima. Il 15 vive
nell'assoluta povertà». Prima del settembre del 2000 i palestinesi che
lavoravano in Israele erano 150mila, oggi sono 35mila. Chiarissime le parole
di Zakariya Zubeidi, leader delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa: «Siamo un
totale fallimento. Non abbiamo portato a termine niente in cinquant'anni di
lotta». Un imam dell'Autorità Palestinese, a Gaza, continua intanto a
dettare la linea: «Stiamo combattendo una guerra contro i fratelli delle
scimmie e dei maiali, gli ebrei». E per far questo, rivela il Maariv, «la
dirigenza baathista nell'Irak post-Saddam, che si pone a capo delle violenze
sunnite nell'Irak centrale, continua a coltivare gli stretti legami con i
gruppi terroristi palestinesi avviati a suo tempo dal dittatore irakeno».
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