Perché il terrorismo minaccia tutti, le fosse comuni di Saddam e l'apologia dell'integralismo confutata
3 articoli di informazione corretta sul Medio Oriente
Testata: Il Foglio
Data: 14/10/2004
Pagina: 1
Autore: Emanuele Ottolenghi - Carlo Panella - Ilaria Colombo
Titolo: Sentimentalizziamo il terrore per non guardarlo in faccia - Così le fosse di distruzione di massa raccontano Saddam - I buoni integralisti
Poiché "nessuno, per i terroristi, sarà mai abbastanza innocente da essere risparmiato",il terrorrismo è "la guerra di tutti". Distinguere tra le vittime, ritenendone alcune "in qualche modo complici o colpevoli" della propria morte non solo è moralmente ripugnante: è anche un grave errore, che ci indebolisce, dividendoci, nel confronto con il nemico comune.
Lo spiega Emanuele Ottolenghi su IL FOGLIO di oggi, nell'articolo "Sentimentalizziamo il terrore per non guardarlo in faccia", a pagina 1 dell'inserto.

Il terrorismo islamico ha colpito anche l’Italia dopo l’11 settembre 2001. I nostri diciannove soldati a Nassiriyah, gli ostaggi Fabrizio Quattrocchi ed Enzo Baldoni trucidati, e ora due giovani italiane in vacanza in Egitto, morte nell’attentato contro l’Hilton di Taba, la settimana scorsa, sono tutti vittime della stessa furia assassina. Di loro, dei morti, abbiamo saputo molto, se non tutto. Il loro paese d’origine, le facce dei loro cari stravolte dal dolore,
la solidarietà, l’intervista al parroco. Abbiamo visto le fotografie dell’infanzia e abbiamo ascoltato racconti su quello che progettavano di fare in futuro. Ci siamo commossi. Ma poco abbiamo approfondito e non molto ci siamo detti sul perché delle loro morti. Chiediamocelo, dunque. Le due sorelle
morte nel rogo e nel crollo dell’albergo sono davvero vittime innocenti di una guerra che non era la loro? O siamo tutti in guerra, e questa è una guerra di tutti proprio perché il nemico non conosce frontiere, né fa distinzioni tra soldati e civili, amico e nemico? Se la prima risposta è quella giusta, allora
la reazione diffusa in Italia (e non solo) – di concentrarsi sul lutto, sul dolore, e sulla solidarietà – è in parte comprensibile. In fondo, è come se fossero morte per un disastro naturale, come un terremoto o un’inondazione oppure una fuga di gas. Sfortuna, il solito destino cinico e baro, di trovarsi lì, al momento sbagliato nel posto sbagliato. Ma questa risposta è buona solo
in parte però, perché anche se si accetta la spiegazione secondo la quale questa guerra non era loro, non erano il bersaglio e non c’entravano, quel che si finisce per dire è che altri invece sì, morti pure loro, c’entravano, erano il bersaglio, erano parte belligerante, vittime od ostaggi giusti. I dodici israeliani morti, le altre ventuno vittime, tra cui egiziani, russi e le due italiane: chi c’entra e chi non c’entra allora, se questa guerra non era e non è di tutti? Intendiamoci, non c’è dubbio che l’attentato fosse diretto ai turisti israeliani, come successe a suo tempo due anni fa in Kenya, allorché al Qaida attuò una simile operazione contro un villaggio turistico gestito da israeliani. Ma l’attentato contro un obiettivo civile – un albergo su territorio egiziano – mira a indebolire anche il Cairo, e lo fa colpendone l’industria del turismo, oltre che i rapporti con il vicino Israele, per di più in una fase delicata perché caratterizzata dai negoziati attorno al piano di ritiro unilaterale di Ariel Sharon da Gaza. Allora forse anche le due italiane assassinate facevano parte di questa guerra. Dopotutto, erano turiste. Come lo erano del resto i duecento morti di Bali, nell’ottobre del 2002. E come lo siamo tutti in fondo, perché tutti siamo turisti, due, tre, quattro settimane l’anno, quando ci prendiamo le vacanze. La guerra insomma riguarda tutti, nessuno può sottrarvisi e far finta di non centrarci. Perché l’attacco terroristico, ogni attacco terroristico, ha due obiettivi apparentemente contradditori, ma in realtà che si complementano. Primo, il terrorismo mira a influenzare politicamente un’opinione pubblica, creando l’impressione che concessioni politiche di qualche tipo avrebbero potuto (e quindi potranno in futuro) evitare l’accaduto. Colpiti dalle immagini dell’orrore causato
dal terrorismo e dal dolore che in alcuni casi li tocca da vicino, gli spettatori sono spinti da questo ricatto psicologico a incolpare il bersaglio designato dai terroristi, che spesso non è nemmeno chiaramente definito, per far sì che sia l’opinione pubblica stessa a trarre discordanti conclusioni e a produrre confusioni: al ricatto dunque si aggiunge l’incertezza, che semina dissidi e dissensi all’interno delle società colpite, suggerendo quindi guardarlo in faccia contrastanti strategie di risposta e indebolendone
dunque l’incisività. Secondo, il terrorismo mira a seminare il panico: colpendo indiscriminatamente, crea la sensazione di paura, che ci accomuna tutti, di essere in qualche modo tutti vulnerabili e quindi tutti bersagli. Tutti andiamo in vacanza, e nessuno di noi vuole morire in vacanza, così come nessuno vorrebbe morire sul treno di pendolari che prendiamo ogni mattina e che l’attentato di Atocha l’11 marzo scorso ci ha inevitabilmente ricordato. Il bersaglio quindi è uno, ma lo siamo tutti allo stesso tempo. Questo ci vogliono far credere i terroristi ed è per questo che ammazzano indistintamente senza pietà, colpendo gli obiettivi più vulnerabili perché simboli della società aperta. Credere che le vittime del terrorismo siano in qualche modo complici o colpevoli della loro morte non è soltanto moralmente ripugnante perché fa ricadere la responsabilità della morte sulle vittime piuttosto che sui carnefici, ma è anche sbagliato, perché il terrorismo lotta contro tutti, e fa di tutti noi vittime potenziali. Questa non è una guerra degli altri, di cui i nostri morti sono stati vittime per sbaglio. Erano loro, siamo noi i bersagli. I
sentimentalismi sono benvenuti. Ma non dimentichiamoci, dopo le lacrime, che potrebbe toccare a tutti, non soltanto a Taba, Bali e Madrid, ma anche a Roma, Cortina, o San Casciano ai Bagni. E nessuno, per i terroristi, sarà mai abbastanza innocente da essere risparmiato.
Sempre a pagina 1 dell'inserto Carlo Panella, nell'articolo "Così le fosse di distruzione di massa raccontano Saddam" scrive della sconvolgente realtà delle fosse comuni di Saddam Hussein.E le "anime belle" si chiedono ancora dove il rais teneva le armi di distruzione di massa ! Perchè non vanno a chiederlo ai curdi, di persona e guardandoli negli occhi ?
Ecco l'articolo:

Roma. "Mi occupo di fosse comuni damolto tempo, ma non ho mai visto niente di
simile", ha detto Greg Kehoe, un avvocato americano nominato dalla Casa Bianca per lavorare con il Tribunale speciale iracheno, inorridito di fronte allo spettacolo delle fosse comuni di Hatra, nel nord dell’Iraq. Nove trincee contengono circa trecento corpi, tutti di civili, ma una è la più atroce di tutte: contiene soltanto cadaverini di bambini – uno ha ancora la sua piccola palla da gioco stretta tra le mani – e di donne, alcune che stringono ancora al petto il neonato, ucciso anche lui. Atrocità nell’atrocità: sono stati tutti assassinati, bambini e donne, con un colpo di arma leggera alla nuca, il che vuol dire, tra l’altro, che, aspettando il proprio turno, aspettando che i boia si avvicinassero da dietro alle loro teste per sparargli, hanno anche dovuto sopportare il supplizio di vedere tutti i loro fratelli, i loro amici, i loro bambini morire. Quando afferma di non avere mai visto un orrore simile, l’avvocato Greg Kehoe va preso sul serio: ha passato infatti gli ultimi cinque anni della sua vita nei Balcani, in Bosnia e nel Kosovo, impegnato appunto a raccogliere nelle fosse comuni le prove dei massacri dei serbi, come dei croati, per poi fornirle al Tribunale internazionale dell’Aia che giudica Slobodan Milosevic, il generale Ratko Mladic e gli altri sterminatori dell’ex Jugoslavia. Proprio per questa sua esperienza e preparazione professionale, Washington l’ha inviato ora in Iraq. E’ infatti indispensabile che l’attività di ricognizione delle fosse comuni delle vittime di Saddam Hussein, che prosegue incessantemente dall’aprile del 2003, sia svolta non soltanto con criteri umanitari, per permettere i familiari di riconoscere e dare degna
sepoltura ai propri cari, ma che sia anche effettuata secondo i canoni della procedura legale, per potere essere utile quale prova durante i processi a carico di Saddam Hussein e dei gerarchi del Baath: "Stiamo cercando di rispettare gli standard internazionali che sono stati accettati dai tribunali di tutto il mondo", ha spiegato Kehoe, aggiungendo che per il momento le operazioni di scavo saranno interrotte per poter approfondire il lungo e complesso lavoro di medicina legale (che spesso è mancato
sinora). Le fosse di Hatra, come molte altre, risalgono al 1987-’88 e contengono con ogni probabilità cadaveri di curdi, contro cui Saddam Hussein lanciò una campagna di terrore, con lo scopo dichiarato di farli fuggire ed emigrare in altre zone del paese. Stragi come quella con i gas ad Hallabja (circa 5.000 morti) e come questa dei bambini e delle donne di Hatra, miravano proprio alla pulizia etnica nel nord curdo del paese, esattamente come nel sud sciita, per poi assegnare villaggi e terreni delle popolazioni ribelli o inaffidabili per il regime a tribù sunnite fedeli al partito Baath. "La mia opinione è che quello di Hatra sia stato un vero campo di sterminio", ha affermato l’avvocato Greg Kehoe, che proseguirà poi il suo lavoro, assieme ad altri esperti, nelle 215 fosse comuni che sono state finora localizzate in Iraq, ma non sono state ancora aperte (che si sommano alle 55 i cui corpi sono già stati esumati). Secondo le organizzazioni umanitarie le vittime sono stimate tra 200 mila e 300 mila. Si tratta di fosse comuni che risalgono in gran parte al triennio 1988-1991 (gli anni della rivolta curda, dell’invasione del Kuwait e della sollevazione sciita), ma che in alcuni casi sono state scavate in anni recentissimi. Non si trovano dunque in Iraq le armi di
distruzione di massa dell’ex regime, ma si trovano le fosse di distruzione di massa, le prove concrete materiali che il rais Saddam e il suo potere andavano fermati perché dediti a "reati contro l’umanità", e il fatto che l’ex presidente americano George Bush padre abbia sbagliato a non farlo nel 1991, quando poteva, non può certo essere addebitato al figlio, che l’ha fatto appena
ha potuto. Rimane lo strano caso di un mondo progressista e politicamente corretto americano, europeo e italiano che ha approvato la "guerra umanitaria" di Bill Clinton in Kosovo ("illegale" come quella contro l’Iraq perché non approvata dalle Nazioni Unite), in cui il "corpo del reato" è risultato poi essere costituito dall’uccisione di 2-3000 kosovari, e che continua a far finta di non sapere che l’emergenza umanitaria nell’Iraq di Saddam Hussein era infinitamente più grave. In Iraq non si trovano le armi di distruzione di massa, ma si trovano le masse di civili innocenti, di donne e di bambini, distrutte con armi convenzionali, a riprova che era un obbligo per la comunità internazionale fermare il massacro, deporre e processare i massacratori.
A pagina 2 dell'inserto Ilaria Colombo recensisce l'ultimo libro del redattore capo di Le Monde Diplomatiqu Alain Gresh ("L’Islam,la Republique et le monde", Fayard, 439 pp., 20 euro), confutandone, sulla base delle sue stesse fonti, l'apologia dell' "innocuo" integralismo islamico.
Ecco l'articolo: "I buoni integralisti"

A leggere l’ultimo libro di Alain Gresh, redattore capo del "Monde Diplomatique"
ed esperto di medio oriente ("L’Islam, la Republique et le monde", Fayard, 439
pp., 20 euro) in occidente siamo tutti islamofobi. L’autore è un giornalista egiziano di cultura francese, nato da genitori militanti comunisti, madre ebrea russa e padre egiziano antisionista. La Francia altermondialista ha salutato in questo saggio la capacità di smontare finalmente la tesi dell’islam come minaccia, allo stesso tempo interna ed esterna per l’occidente. Peccato, però, che gli esempi e le citazioni riportati dall’autore non solo non smontano quella tesi, ma finiscono paradossalmente per accreditarla. Vediamo le argomentazioni di Gresh, che premette che "la creazione dello Stato
di Israele" sia la fonte prima di ogni problema. E’ lui a dirci che sono solo quattro, sui sessanta Stati che formano l’Organizzazione della conferenza islamica (Oci), e cioè Indonesia, Mali, Senegal e Turchia, ad avere un sistema politico democratico, mentre tutti gli altri sono caratterizzati da regimi autoritari o semiautoritari. Da questo dato di fatto, che testimonierebbe la
quasi totale impermeabilità dell’islam all’idea di democrazia, Gresh desume invece che sarebbe un errore identificare i paesi a religione musulmana con forme di governo antidemocratiche, o, peggio ancora, teocratiche. E contesta la tesi di Anne-Marie Delcambre nel libro "L’islam des interdits", secondo cui "l’integralismo non è affatto la malattia dell’islam. Esso rappresenta l’interezza dell’islam. Ne costituisce la lettura letterale, globale e totale dei testi fondanti. L’islam degli integralisti, degli islamisti, è semplicemente l’islam giuridico che coincide con la norma". Gresh si affretta a precisare che questi paesi si limitano ad applicare la legislazione islamica solo parzialmente ed "esclusivamente nell’ambito familiare" e spiega a modo suo la sharia, come l’insieme delle prescrizioni alle quali tutti i credenti si devono conformare. Essa riguarda sia le obbligazioni culturali che le relazioni sociali (eppure Gresh nega una visione totalizzante dell’islam). In realtà, egli dimentica che la sharia, che costituisce la totalità dei precetti di Allah,
comprende, in un unico complesso legame, l’insieme dei doveri religiosi, politici, sociali, familiari e privati dei fedeli. Le fonti della sharia di origine divina sono quattro: il Corano, la Sunna, la Qiyas, ovvero "deduzione per analogia", la Igma, "consenso" degli esperti o dottori su qualsiasi questione di fede. L’approfondimento delle quattro fonti venne a costituire l’ijtihad, "sforzo intellettuale"; mugtahid è propriamente colui che si dedica a tale approfondimento e che dà la sua opinione legale (fatwa). Attraverso le quattro scuole accettate come canoniche già nel XIII secolo, una formulazione religiosa assoluta si è inserita nelle realtà storiche. I giuristi posteriori possono soltanto praticare l’imitazione (taqlid) che è, propriamente, l’adozione dei pronunciamenti o degli esempi di comportamento di altri, ritenuti autorità valide in materia di fede senza diritto di investigare sui loro motivi. Questo è il punto cruciale. Anche Gresh è costretto ad ammettere, attraverso le parole di Nadia Yassine, portavoce del movimento islamista marocchino Al-Adl walIhan, che "a considerare la caduta libera del nostro pensiero dopo l’abbandono della ijtihad, non possiamo che dare ragione a tutte le critiche, anche le più aspre. La comunità è caduta poco a poco nella notte nera del taqlid (l’imitazione cieca dei predecessori nel campo del diritto)". Ma Gresh vuole dimostrare che "i fini del potere profetico sono molto diversi da quelli del potere politico" e conclude affermando che il potere religioso "non ha come obiettivo quello di preservare e gestire gli interessi
temporali e gli affari del mondo, ma essenzialmente e prima di tutto, a preparare gli uomini alla vita eterna". Il dato di fatto che le fonti della religione e del diritto coincidano nel mondo islamico, e siano invece nettamente separate nel mondo occidentale, arriva a essere negato da Gresh. Egli paragona il mondo islamico al mondo occidentale che sarebbe stato governato dalla stessa logica (identità delle fonti del diritto divino e delle norme giuridiche e della civile convivenza), con l’aggravante, a suo giudizio, dall’esistenza di un Papa che era allo stesso tempo un sovrano temporale. Ma il paragone non regge, perché l’elaborazione delle fonti del diritto civile e penale ha origini molto lontane nella nostra cultura, che risalgono al tempo dei greci e dei romani. Gresh inoltre non considera che anche ai tempi del Sacro romano impero, quando l’investitura dell’imperatore era avallata dalla Chiesa, le leggi che regolavano la vita sociale non promanavano dall’Antico
e dal Nuovo Testamento, ma da fonti giuridiche elaborate dall’uomo e non attribuite a Dio. Ma Gresh insiste nell’equivoco, quando afferma che "come le altre religioni monoteiste, l’islam riconosce, durante tutto il medioevo, ma spesso anche nell’era contemporanea, l’origine divina del potere". Alla fine si chiede, senza rispondere: "La legge islamica può adattarsi al mondo moderno e alle nuove forme di separazione tra Stato e Chiesa che caratterizzano
il mondo occidentale attuale?". Verrebbe da rispondergli con le parole pronunciate il 29 marzo 1883, alla Sorbona da Ernest Renan: "L’islam è l’unione indiscernibile di spirituale e temporale, è il regno del dogma, è la catena più pesante che l’umanità abbia mai portato".
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