Non è possibile dire "siamo tutti occidentali" se non si vuole dire "siamo tutti israeliani"
e si continua a pensare, come Paolo Garimberti, di sconfiggere il terrorismo premiando quello di Arafat
Testata: La Repubblica
Data: 11/10/2004
Pagina: 1
Autore: Paolo Garimberti
Titolo: I tre errori dell'Occidente
In prima pagina su La Repubblica di oggi, 11-10-04, Paolo Garimberti firma l'articolo "I tre errori dell'Occidente".
Garimberti parte dalla morte delle sorelle Rinaudo nella strage di Taba e indica tre errori "dell'Occidente" legati alla guerra irachena: in Iraq non c'erano armi di distruzione di massa, la guerra ha distolto risorse dall’ obiettivo di distruggere Al Qaeda e non è servita a risolvere il conflitto israelo-palestinese, origine prima del terrorismo, perchè gli Stati Uniti, troppo sbilanciati a favore di Israele, hanno rinunciato ad un ruolo di mediatori Per questo Bush, scrive Garimberti ripetendo le vergognose parole dell'ambasciatore britannico a Roma, " è diventato il miglior reclutatore di al Qaeda".
Se sui primi due presunti "errori" indicati da Garimberti si può quantomeno dubitare (i legami tra l'Iraq e il terrorismo internazionale sono certi, in alcuni casi, come quello dei soldi dati alle famiglie degli attentatori suicidi palestinesi, pubblicamente dichiarati; i legami con Al Qaeda sono quanto meno probabili, l'esistenza di un programma di riarmo non convenzionale e della capacità di attuarlo é ritenuta certa dalla molti esperti), riguardo al terzo è certo che il vero errore è del giornalista. Il terrorismo islamico ha colpito e colpisce l'Occidente anche e soprattutto per motivi che nulla hanno a che vedere con il conflitto israelo-palestinese: il sostegno dato a regimi musulmani che gli islamisti vorrebbero abbattere (come quello saudita o quello pakistano), l'"impura" presenza di truppe "cristiane" sul suolo sacro dell'Arabia, la prima guerra del Golfo e il successivo embargo all'Iraq, e un odio onnicomprensivo e indipendente da qualsiasi scelta politica verso i suoi valori, il suo sistema politico "empio" in quanto democratico, la sua libertà.
A far fallire le speranze di pace tra israeliani e palestinesi non è stata la partigianeria filo-israeliana degli americani, ma il terrorismo di Hamas e dell'Anp, l'assenza di un interlocutore credibile con il quale Israele potesse trattare un accordo e anche il credito che l'Europa ha continuato a dare a una leadership screditata e criminale come quella di Arafat.
L'illusione di poter fondare la difesa e l'unità dell'Occidente sacrificando Israele al terrorismo è appunto un illusione.
Può essere vero, come scrive Garimberti, che non basta più, per affrontare il terrorismo, dichiararci "tutti americani" o "tutti spagnoli" e che è venuto il momento di dirci "tutti occidentali" e di definire una risposta comune al fenomeno.
Per farlo con una qualche legittimità morale e con autentico realismo è però prima necessario colmare una vistosa lacuna delle nostre solidarietà. La strage di Taba, proprio perché ha coinvolto due italiane, potrebbe e dovrebbe essere l'occasione per dire, finalmente, senza più distinguere tra terrorismo e terrorismo, che "siamo tutti israeliani".
Senza di che dichiararci "occidentali" non è che vuota retorica.

( a cura della redazione di Informazione Corretta)

«Tutti gli italiani piangono Sabrina e Jessica». Nelle parole di Carlo Azeglio Ciampi non c´è cordoglio istituzionale, né pietà retorica. C´è la constatazione che le due sorelle di Dronero sono il simbolo di quella che si può definire l´universalità del terrorismo islamico. Che sceglie i suoi obiettivi con una minuziosa, quasi maniacale attenzione geopolitica, ma non si cura minimamente né della quantità, né dell´identità delle vittime. Per cui nessuno, oggi, può più sentirsi al riparo da questa immane minaccia, nessuno viene risparmiato: né chi è dedicato ad azioni umanitarie, né chi si proclama pacifista, ma neppure chi vive in una piccola cittadina di provincia e finisce nel tritacarne per l´avventura di una vacanza a basso costo.
L´Italia sotto questo aspetto è purtroppo un caso da laboratorio, ha avuto tutte le esemplificazioni possibili dei bersagli e delle vittime di questo terrorismo: dai militari di Nassirya a Quattrocchi, da Baldoni alle due Simone, le uniche scampate ai macellai di Al Qaeda, per finire con le sorelle Rinaudo. «Giovani vite barbaramente stroncate insieme con quelle di tanti innocenti di altre nazionalità»: ancora nelle parole del capo dello Stato emerge questa universalità del terrore, che ci accomuna tutti e al tempo stesso ci interpella perché esige una risposta comune.
Anche in passato il terrorismo aveva compiuto stragi indiscriminate: basti pensare a quella dell´aereo esploso nel cielo di Lockerbie. Diceva il personaggio della «Tamburina», il romanzo di John Le Carré sulla lotta senza quartiere tra il capo dei servizi israeliani e un terrorista palestinese: «Il terrorismo è come una rappresentazione teatrale, se non coinvolge tutti gli spettatori finisce per fallire». Oggi, però, travolge anche gli spettatori involontari, lontani mille miglia per residenza, professione, interessi, stile di vita dal teatro globale della grande politica internazionale, della diplomazia e della guerra. È a partire dalla fine del secolo scorso che la nuova strategia, che unisce la qualità dell´obiettivo alla quantità indistinta delle vittime, ha preso corpo. Fu Bill Clinton il primo che si rese conto della pericolosità di Al Qaeda in quanto non "Stato canaglia", ma una multinazionale di "invidui canaglia". E cercò di decapitarla prima che crescesse ordinando il bombardamento dell´accampamento dove avrebbe dovuto essere bin Laden. Fallì e Al Qaeda divenne un´idra dalle molte teste.
Il presidente pachistano Pervez Musharraf ha detto recentemente che tra l´Occidente e il mondo islamico si sta «alzando una cortina di ferro». L´11 settembre 2001, con l´attacco alle Torri gemelle di New York, fu posato il primo reticolo di questa cortina di ferro. Di fronte a quella che nacque nell´immediato dopoguerra, e che Churchill individuò nel suo storico discorso di Fulton, in Missouri, nel 1946, l´Occidente seppe dare una risposta unita e univoca per opporsi alla minaccia del comunismo sovietico. Ora deve trovare una risposta delle stesso tipo e della stessa forza prima che la nuova cortina di ferro divida irrimediabilmente il mondo in due, realizzando lo scenario catastrofico dello scontro di civiltà ipotizzato da Samuel Huntington.
Finora la risposta dell´Occidente è stata sbagliata e inefficace soprattutto perché non è stata coesa: è stata imposta da alcuni, subita e contestata da altri. La guerra all´Iraq voluta da Bush e da Blair è stata un triplice errore. Primo perché Saddam Hussein non aveva le armi di distruzioni di massa, né i legami con Al Qaeda che sono stati il pretesto per l´attacco.
Il rapporto della commissione d´inchiesta del Congresso Usa, redatto da Charles Duelfer e diffuso mercoledì scorso, lo dice con assoluta chiarezza. Ha scritto il New York Times nel suo editoriale non firmato: «È fastidioso sentire Bush e il vice presidente Cheney continuare a giustificare l´invasione ancora questa settimana sulla base del fatto che dopo l´11/9 l´Iraq era chiaramente il posto migliore per i terroristi per procurarsi armi vietate. Anche se Saddam avesse voluto armarli - il che è discutibile - non avrebbe avuto nulla da dargli».
Il secondo errore consiste nel fatto che la guerra a Saddam ha distratto fondi, uomini, energie mentali e fisiche da quella, invece necessaria, a Osama bin Laden, ad Al Qaeda e a tutto quel terrorismo internazionale di stampo fondamentalista che per comodità ormai viene indicato con quel nome e quella sigla. E quella distrazione è stata così fatale che il terrorismo, anzi, ha proliferato e ha trovato l´acqua e i pesci proprio in Iraq, oltre che in Afghanistan (altra opera incompiuta) e nel resto del Medio Oriente dove già nuotava.
Terzo errore: il controllo dell´Iraq doveva, nelle intenzioni dei promotori della guerra, essere il prodromo del controllo del Medio Oriente e, dunque, della soluzione del conflitto israelo-palestinese. Scriveva ieri Eugenio Scalfari: «Per sconfiggere il terrorismo bisogna sfogliarlo foglia per foglia. La prima foglia da togliere è la Palestina, per evitare che vi attecchisca la malapianta del terrorismo globale e islamista». Invece la famosa "Road Map", il tracciato verso la pace mediorientale, è stato smarrito e poi del tutto abbandonato.
Bush non se ne è più curato, preso come era dalla tragedia del dopoguerra in Iraq, e ha finito per appiattirsi completamente su Sharon perdendo ogni credibilità di mediatore con i palestinesi. Cito ancora il presidente pachistano Musharraf, che nel suo discorso davanti all´assemblea delle Nazioni Unite, ha ammonito: «Possiamo anche vincere delle battaglie contro il terrorismo, ma rischiamo di perdere la guerra se il mondo non si impegna a risolvere le ingiustizie nel mondo musulmano: la tragedia della Palestina è una ferita aperta nella psiche di ogni musulmano e gli Stati Uniti devono riprendere il ruolo di giusto broker di pace». Bush, invece, è diventato, secondo il sarcastico columnist Nicholas Kristof, «il miglior reclutatore di Al Qaeda». Prima di lui lo aveva detto, in un convegno, l´ambasciatore inglese a Roma.
Ma oggi la critica agli errori diventa sterile se l´Occidente non è in grado di capire che la minaccia indiscriminata del terrorismo, che non risparmia neppure due ragazze come le sorelle Rinaudo, l´orrore senza fine dei suoi gesti, ripetuto ancora con la decapitazone di Kenneth Bigley, richiedono una risposta comune, unitaria e univoca, in cui le differenze di valutazione e di visione politica devono essere soltanto una base di discussione, non un fattore di divisione. Le risposte nazionali al terrorismo internazionale non funzionano, tantomeno per i fondamentalisti islamici esistono delle "eccezioni culturali". Lo ha riconosciuto anche Le Monde a proposito della insoluta odissea di Christian Chesnot e Georges Malbrunot: «Per le metastasi di Al Qaeda, che hanno trovato un terreno fertile nell´Iraq occupato dagli Stati Uniti, i francesi sono degli Occidentali come gli altri, dei discendenti dei crociati, dei nemici». Ha scritto molto bene il politologo francese Dominique Moisi, a proposito di Bigley e dei due giornalisti francesi ancora in ostaggio: «Di fronte alla disumanizzazione imposta a chi è preso in ostaggio la sola risposta è di denazionalizzare il suo caso: deve essere salvato, liberato non perché è francese, ma perché egli incarna un valore universale».
Di fronte all´universalità del terrorismo, che Ciampi ha evocato con le sue parole sulle vittime di Taba, l´Occidente deve essere capace di dare una risposta solidale, anche per impedire ai terroristi di diventare un fattore di influenza nelle scelte di politica interna dei singoli Stati. Non basta più proclamarsi tutti americani, come dopo l´11 settembre, o tutti spagnoli, come dopo l´11 marzo. Bisogna proclamarsi semplicemente tutti Occidentali.
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