Il terrorismo che uccide i bambini, l'islam civiltà estranea, le ong che incoraggiano le guerre
la realtà dello "scontro di civiltà" al di là della vulgata pacifista e multiculturalista
Testata:
Data: 04/10/2004
Pagina: 1
Autore: un giornalista - Alain Besancon - Giulio Meotti - Edward N. Luttwak
Titolo: Il terrore dei bambini - Perché è sbagliato parlare di "tre religioni del libro", l'islam è altro - L'occidente e l'islam per Caillois e Levi-Strauss - Ong contro la pace
In prima pagina sul Foglio di Sabato 02-10-04, l'articolo "Il terrore dei bambini", che di seguito riproduciamo.
Roma. "Trasforma al plurale: un martire è onorato da Allah; due martiri… da Allah": questo esercizio di grammatica è stampato a pagina 37 del manuale "La nostra lingua araba", libro di testo adottato (con finanziamento dell’Unione europea) dall’Autorità nazionale palestinese, che molti considerano non soltanto preclaro esempio di "islam moderato", ma addirittura di "islam laico". Sempre sotto la supervisione del "moderato" presidente Yasser Arafat, la televisione dell’Anp trasmette talk show in cui si può vedere un cinico
conduttore chiedere a una quattordicenne: "Wala, cosa è meglio, il martirio o la pace e i pieni diritti del popolo palestinese?". Wala risponde con foga convinta: "Il martirio! Otterrò i miei diritti dopo essere diventata martire! Noi vogliamo restare ragazzi per sempre!". Bisogna guardare a questi e a mille altri episodi della cultura che gli islamici "moderati" diffondono nel mondo arabo, per comprendere a fondo la strage dei bimbi di Baghdad, attuata da quei "resistenti" iracheni che piacciono tanto alle due Simone. La meccanica dell’attentato, infatti, ha due momenti: prima "i martiri" agiscono, deflagrano le bombe, dopo avere visto le faccine dei bimbi che tendono le mani ai soldati
americani per prendere le caramelle e che saranno loro vittime; poi, conosciuto il bilancio, il gruppo di Abu Mussab al Zarqawi rivendica la strage d’innocenti,
senza problemi, anche se i soldati americani sono soltanto feriti e 34 bambini sono stati sterminati. Come è possibile che l’orrore del risultato non abbia spinto, almeno, a non rivendicare? La risposta è racchiusa nella nuova ideologia del martirio che si è imposta nell’islam, anche moderato. E’
la parte emergente di un vero e proprio scisma che ha contaminato – grazie al Fatah di Yasser Arafat e alle sue Brigate dei martiri di al Aqsa – tutto il mondo islamico, modificando la tradizione millenaria che celebrava il "martire" soltanto quale "testimone", appunto, vittima del nemico e trasformandolo in un’arma di distruzione di massa. Questa novità si consuma nell’islam di oggi proprio sulla pelle dei bambini; è su loro infatti che viene applicata la trasformazione di un martire in un assassinio; è la loro vita che viene deprezzata sino a farne un cinico strumento di lotta politica. Tutto inizia con la rivoluzione iraniana del 1979, che terremota il mondo islamico molto più di quanto non abbia sconvolto l’occidente quella russa del 1917. Questa Rivoluzione viene vinta, schiantando l’esercito dello shah, con la pratica del martirio – quello vero, quello soltanto patito – di migliaia d’iraniani. Nel 1982 c’è stato il passo successivo, determinante, che ha messo fine al valore sacro della vita dei minori: l’ayatollah Khomeini emana infatti una legge che stabilisce che tutti i bambini sopra i dodici anni d’età possono arruolarsi senza il permesso del padre. Khomeini vìola la stessa prescrizione coranica sull’età della responsabilità e la anticipa all’infanzia per una ragione semplice: vuole che i bambini vadano a fare da carne da cannone. Al tramonto, per anni, sui campi minati lungo la frontiera dell’Iraq, mentre un attore
su un cavallo bianco li incita da lontano con una spada, una chiave del paradiso di cartapesta dorata al collo, decine di migliaia di bimbi vanno a farsi sterminare sui campi minati e contro le mitragliere degli iracheni. Sui loro corpi, poi, avanzano i regolari. La fine del tabù dell’infanzia innocente contagia subito anche i sunniti, anche i wahabiti, come al Zarqawi, che pure odiano gli sciiti. S’impone la regola che la vita dei bimbi non è loro, ma è a disposizione della comunità, della umma, che sono soltanto armenti da usare in olocausto, in una bestemmia del rito di Abramo. Dall’Iran, si passa all’Algeria, dove migliaia di bimbi vengono sgozzati, infilzati con spiedi alle porte dei villaggi da "resistenti islamici" che, come Khomeini, non vedono più in loro l’innocenza. Nei Territori, in Israele, la tattica palestinese assume subito la tattica khomeinista: i bimbi vengono mandati avanti a tirare pietre per coprire l’azione dei cecchini che sparano sui soldati israeliani. Non basta: nelle scuole dell’Anp si organizzano corsi per bambini martiri. Ayyat al Akras è la prima ragazzina palestinese a farsi saltare per aria: uccide una ragazzina ebrea di 17 anni come lei, Rachel Lewy. Migliaia di bimbi, incitati da una televisione, da giornali, libri di scuola, videoclip che esaltano il "martirio", si allenano a fare stragi. Ancora pochi giorni fa il colonnello israeliano Pinas Zuaaretz ha accusato i miliziani palestinesi di Gaza di usare ragazzini anche per deporre bombe sui percorsi seguiti dalle pattuglie israeliane, a rischio della vita. E’ in questo contesto che al Zaqawi si può vantare di avere dilaniato 34 bambini iracheni: sa che la sua platea, il suo referente politico, considera anche questa una buona mossa della "resistenza". E’ l’islam di Beslan.
A pagina 2 la sesta "lezione di teologia" di Alain Besancon, "Perché è sbagliato parlare di "tre religioni del libro", l'islam è altro", pubblicata insieme al riassunto dei precedenti articoli.
Ecco i due pezzi:

Torniamo alla situazione storica contemporanea. L’islam, che è in crescita, oggi non sembra più attratto dal cristianesimo che in passato. Mentre i cristiani, dal canto loro subiscono l’attrazione dell’islam e possono
persino esserne tentati. E’ un’attrazione che si avverte in maniera assai sensibile in un uomo di cultura come Louis Massignon, che ha contribuito non poco a influenzare la visione cristiana dell’islam nel XX secolo. In alcuni ambienti teologici è stato lui infatti a radicare due opinioni che ancora oggi continuano a vivere, e cioè, in primo luogo, che il Corano sia una specie di rivelazione sui generis, accorciata certo, primitiva, ma in ogni caso di natura sostanzialmente biblica. In secodo luogo, Poi che l’islam sia autenticamente, come esso stesso rivendica di essere, di filiazione abramitica. Quando guardiamo alla letteratura favorevole all’islam, opera il più delle volte di
preti cristiani di derivazione massignoniana, scopriamo che l’attrazione per l’islam nasce da sentimenti diversi. Una certa critica della nostra modernità liberale, capitalistica, individualistica, competitiva, trova nella civiltà musulmana tradizionale alla quale essa attribuisce aspetti contrari, bei tratti come la stabilità delle tradizioni, lo spirito comunitario, il calore dei rapporti umani. Preoccupati dal raffreddarsi della fede e della pratica religiosi nei paesi cristiani, specialmente in Europa, questi ecclesiastici ammirano la devozione musulana. Si meravigliano di quegli uomini che, nel deserto o in un capannone industriale di Francia o Germania, si prosternano cinque volte al giorno per la preghiera rituale. Pensano che sia meglio credere in qualcosa che non credere del tutto, e s’immaginano che dal momento che quelli credono, credono pressoché la stessa cosa che credono loro. Così facendo confondono però fede e religione. E alla fine, sono lieti di constatare il posto di riguardo che Gesù e Maria assumono nel Corano, senza badare al fatto che quel Gesù e quella Maria del Corano sono solo degli omonimi che a parte
il nome nulla hanno in comune col Gesù e con la Maria che conoscono loro. E’ un fatto grave, questo, che perturba il rapporto tra cristiani ed ebrei. Da questo punto di vista, i musulmani sembrano "migliori" degli ebrei, perché onorano Gesù e Maria, cosa che gli ebrei non fanno. In questo modo giudaismo e islam vengono posti in simmetria, a vantaggio dell’islam. Gli ebrei a loro volta mettono in simmetria cristianesimo e islam, con un altro vantaggio per l’islam, religione dal monoteismo meno problematico. Ma i cristiani non possono prendere sul serio questa simmetria, e la Chiesa cattolica d’altra parte l’ha espressamente condannata. Accettarla vorrebbe dire rinunciare alla sua filiazione dalla profezia di Israele a partire da Abramo, rinunciare alla filiazione davidica del Messia, trasformare il cristianesimo in un messaggio atemporale, separato dalla sua fonte, dalla sua storia. A quel punto il Vangelo diventerebbe un altro Corano, e verrebbe a fondarsi sull’universalismo di quest’ultimo. E’ per questo che sarebbe bene fare attenzione a depurare il discorso cristiano contemporaneo da espressioni tanto pericolose come "le tre religioni abramitiche", "le tre religioni rivelate", e persino "le tre religioni monoteistiche" (visto che ce ne sono anche altre). L’espressione più falsa di tutte è "le tre religioni del Libro: infatti significa non che l’islam fa riferimento alla Bibbia, ma che l’islam per i cristiani, gli ebrei, i sabei, e gli zoroastriani ha previsto una categoria giuridica tale – "la gente del Libro" – che essi possono sollecitare lo statuto di d’himmi, e cioè conservare attraverso discriminazione la propria vita e i propri beni invece di andare incontro alla schiavitù e alla morte alla quale sono promessi i kafir, o pagani.
Che tali espressioni vengano usate con tanta facilità è segno che il mondo cristiano non è più capace di stabilire con chiarezza la differenza tra la propria religione e l’islam. Siamo forse tornati ai tempi di san Giovanni Damasceno quando ci si domandava se l’islam non fosse una forma come un’altra di cristianesimo? Non è escluso. Lo storico conosce la situazione. Quando una Chiesa non sa più cosa crede, né perché lo crede, scivola verso l’islam, senza rendersene conto. E’ quello che è accaduto in massa e in poco tempo ai monofisiti di Egitto, ai nestoriani di Siria, ai donatisti dell’Africa del nord, agli ariani di Spagna. I cristiani fanno un grave errore a considerare
l’islam una religione semplicistica, elementare, una "religione da cammelliere". Al contrario, l’islam è una religione estremamente forte, una particolare cristallizzazione del rapporto tra uomo e Dio perfettamente opposta al rapporto ebraico e cristiano, ma altrettanto coerente. I cristiani fanno pure un grande errore a pensare che l’adorazione del Dio unico di Israele da parte dell’islam renda i musulmani più vicini a loro di quanto non fossero i pagani. In effetti, come dimostra la storia dei loro rapporti, ne sono ancora più radicalmente lontani, per il modo stesso di adorare questo stesso Dio. Sono due religioni separate dallo stesso Dio. Di conseguenza, se i cristiani vogliono capire i musulmani e come si dice oggi "dialogare" con loro, devono fondarsi su quel che resta in seno all’islam della religione naturale, della virtù naturale. E per prima cosa devono fondarsi sulla comune natura umana che condividono con loro. Con la differenza che il Corano, diversamente da Omero, Platone o Virgilio, non può essere considerato come una praeparatio
evangelica. Jacques Ellul non affronta il problema esattamente negli stessi termini in cui io l’ho appena posto. Sappiamo, e lui qui lo ripete, che nel solco di Karl Barth rifiuta al cristianesimo, lo statuto di una "religione". Desidero segnalare questo punto di teologia, anche se non è necessario approfondirlo qui: non cambia nulla nel nostro modo di guardare all’islam. Come sarei contento se oggi Jacques Ellul potesse riprendere la discussione. Ma questo è il suo ultimo scritto. Aveva sentito che prima di lasciare questo mondo, nel 1994, era urgente dargli un solenne avvertimento. Va dunque letto come un testamento. Oggi, dieci anni dopo, ne comprendiamo meglio la gravità.

RIASSUNTO DELLE PRECEDENTI LEZIONI.

Besançon chiarisce subito la faccenda. L’islam nasce nel 622 della nostra era, a Medina, nella penisola arabica, come "religione direttamente opposta ai tre fondamentali dogmi cristiani: la Trinità, l’Incarnazione e la Redenzione". I seguaci di questa religione sono sul punto di diventare più numerosi dei cristiani, oggi afflitti da un irenismo che l’islam non conosce. Già Giovanni Damasceno e Tommaso d’Aquino avevano fissato l’incompatibilità teologica tra islam e cristianesimo. Ma il pensiero cristiano moderno compie uno sforzo di accoglienza e integrazione che sottovaluta i motivi effettivi di opposizione. Il Dio unico, eterno e onnipotente dell’islam non si presenta come il liberatore di un popolo, non ha storia né rapporto personale e reciproco con gli uomini. Per ebrei e cristiani la Bibbia è un testo "ispirato" da Dio, per l’islam il Corano è la Parola increata di Dio. Definire Dio "Padre" è un antropomorfismo sacrilego per l’islam, Dio ha fatto scendere fra gli uomini solo una legge sacra e chiede sottomissione non imitazione. L’osservanza della legge e dei suoi "cinque pilastri" non implica necessariamente l’interiorità, come per i cristiani: l’ascetismo è estraneo allo spirito dell’islam. Siamo di fronte a una religione che nega l’idea di ordine naturale e non concepisce reciprocità sul piano dei diritti religiosi.
A pagina 9 dell'inserto "L'occidente e l'islam per Caillois e Levi-Strauss", di Giulio Meotti.
Il botta e risposta tra il sociologo Roger Caillois (scomparso nel 1978), e il padre dell’antropologia del Novecento, il novantaseienne Claude Lévi-Strauss, oggi riproposto dalle Edizioni Medusa ("Diogene coricato. Una polemica su civiltà e barbarie", 165 pagine, 16,80 euro), anticipa con precisione cartomante
la più vitale delle questioni dopo il crollo delle Twin Towers: il confronto tra occidente e islam. Lo spunto polemico fu, cinquant’anni fa, l’uscita di "Razza e storia", un saggio di Lévi–Strauss commissionato dall’Unesco, in cui lo studioso sosteneva l’impossibilità di una gerarchia tra razze e culture. Nei suoi saggi degli anni Cinquanta, apparsi su Nouvelle Revue Francaise e Les Temps Modernes, Caillois denunciava gli intellettuali occidentali fobici rispetto all’idea di rivendicare ogni conquista, i "disastrosi profeti", come scriveva Marcel Mauss nel 1927, giunti a una "fanatica rivendicazione della
barbarie", che vedono il lascito della civilizzazione come "escremento" conradiano. Il maggior distacco fra i due è la visione di Caillois dell’etnografia, secondo lui testimonianza e cifra, di per sé, della superiorità dell’occidente, di una sua curiosità intrinseca. In "Illusioni a ritroso" Caillois replica alle tesi di Lévi- Strauss, lamentando la caducità dell’occidente sospirata con gioia canora da catastrofisti che "si accaniscono a rinnegare i diversi ideali della loro cultura", nemici di "ogni valore che possa apparire come un elemento di civiltà" e che "restavano dipendenti da una
civiltà che detestavano". Per Caillois l’occidente è superiore perchè "ha unificato la storia e il pianeta, reso tutte le civiltà solidali grazie al progresso delle sue tecniche, al suo commercio, alle sue conquiste e alle sue guerre". Lévi-Strauss, annoverando patate e gomma, tabacco e coca tra i pilastri della società americana, pensa invece il progresso come una comodità accessoria. Anche se "per disperazione o per nichilismo si arriva a giudicare assurda, rivoltante o disastrosa" la cultura occidentale, per Caillois lo si fa sempre a partire "dall’idea della ragione, della giustizia e della felicità che ne è uscita, che ne fa parte, allo stesso titolo di ogni sorta di valori che non sono caduti dal cielo, che uno sforzo secolare ha tratto dal niente e di cui ciascuno deve stimarsi responsabile davanti all’intera specie". Dopo Ibsen e Leopardi sappiamo anche che l’uomo vive grazie a questa "menzogna vitale", alla "scommessa insensata" di Caillois. Il gesto suicida di Jan Palach o di un
monaco di Saigon è "superiore" a quello di un esploso di Hamas. E’ complesso Lévi- Strauss: in una scrosciante intervista a Die Zeit invitò le donne a sudare e a non depilarsi per non soccombere come "specchi atroci dell’umanoide futuro", e nel 1989 scrisse pure che non era giusto condannare sbrigativamente pratiche ataviche come la clitoridectomia. In "Tristi tropici" ebbe però parole gigantesche sull’Islam, che fatichiamo a rintracciare oggi che la miccia dello scontro è stata accesa. E allora Maometto è quel "villano che impedisce un girotondo in cui le mani, predestinate ad allacciarsi, dell’oriente e dell’occidente, sono state da lui disunite", che "ha tagliato in due un mondo civile" e "interponendosi fra buddismo e cristianesimo ci ha islamizzati". Il cristianesimo ha perso l’occasione di un’osmosi con il buddismo che "ci avrebbe cristianizzati di più e in un senso più cristiano perché saremmo risaliti al di là dello stesso cristianesimo. Fu allora che l’occidente ha perduto la sua opportunità di restare femmina". Claude Lévi-Strauss pensa al Maometto che scacciò il femminile dal pantheon del suo "Tawhid" (Monoteismo) afasico, relegandolo nel purgatorio di un chador claustrofobico. Il polimorfo non trova spazio in quello che Hegel, sull’islam, chiamava "entusiasmo per un’astrazione, fanatismo", il Dio puro Nulla previsto da Buchner. Come scrisse De Vigny nel 1823, "solo Maometto ha compreso le donne, ammassandole come animali", donne solo per l’anagrafe, catafratte e bare ambulanti. A Lévi-Strauss il merito di far parte di quei grandi preveggenti della sfida fondamentalista, come Franz Kafka, che nei taccuini del 1912 annotava, esalando ferito: "Vogliamo un’aria respirabile; non vogliamo più sentire i gemiti dei vitelli sgozzati in Arabia; che tutti gli animali possano morire in pace". Non a caso un giovane arabo disse
ad André Gide: "Voi occidentali ci siete superiori in molte cose, ma avete troppa paura di morire".
A pagina 4 Edward N. Luttwak firma l'articolo: "Ong contro la pace".
Un fenomeno dei nostri giorni, le organizzazioni non governative, le Ong. Sono
un fenomeno esclusivamente occidentale le Ong dedite ad aiutare gli altri, i non-occidentali. Esistono Ong arabe, che aiutano arabi, Ong indiane che aiutano indiani, Ong musulmane che aiutano musulmani, o perlomeno, che li aiutano ad andare in paradiso più velocemente con il jihad. Ma le Ong occidentali sono totalmente differenti perché vanno all’estero per aiutare tutti tranne gli occidentali, se non quelli -- disastrati dalle conseguenze del comunismo – che non sono proprio occidentali. Le Ong occidentali sono quelli che una volta erano i soldati, i commercianti, i missionari dell’era coloniale. Anche loro erano totalmente sicuri di avere il diritto di andare ovunque per portare il loro insindacabile avanzamento ai popoli non-occidentali della Terra, nella forma che sceglievano loro, dalle cannonate alle prediche, dagli insegnamenti di igiene, ai lavori pubblici, agli investimenti in mine e piantagioni. Oggi le
Ong fanno di tutto in tutto il mondo ma con una fortissima predilezione per le zone di conflitto, proprio come i colonialisti di una volta, e per la stessa identica ragione: il desiderio impellente di conquistare l’ignoto, il pericoloso, per dare significato alla propria vita, per avere un ruolo importante, per sconfiggere la propria paura. L’altruismo è la migliore maschera dell’egotismo – e molti non si chiedono mai perché non aiutano gli anziani abbandonati di casa loro invece di andare lontano – ma il motivo vero è
sempre lo stesso: è lo spirito di avventura, scoperta e creazione che sprigiona dal petto della civiltà europea. Questa è la ragione per la mancanza di Ong in zone bisognose ma sicure, senza guerre o bande armate, come la mia poverissima e meritevolissima Bolivia. E le Ong che ci sono, trovano molto difficile attrarre volontari o contributi. Tutte le Ong italiane potrebbero validamente
utilizzare le loro risorse umane e finanziarie nella sola Bolivia – ma lì non c’è la guerra, non c’è il pericolo e, soprattutto, non ci sono le telecamere. Invece, proprio come i colonialisti di una volta le Ong occidentali e forse soprattutto quelle italiane, in riflesso di una trasparente inversione ideologica, vogliono partecipare a ogni conflitto, per assistere il lato che
scelgono loro con aiuti umanitari ma anche contribuendo alla lotta con i loro soldi e con l’appoggio politico della loro propaganda. Così aiutano i singoli e danneggiano i molti. Coloro che intervengono nella guerra armati di buone intenzioni ne confondono i risultanti, diventano ostacolo all’unica virtù della guerra: è la guerra stessa che porta alla pace dove prima c’era il conflitto, perché distrugge le risorse e le speranze che alimentano il conflitto. Quando la capacità bellica è ridotta abbastanza, quando i vinti in conflitti territoriali si disperdono trovandosi nuove vite altrove, arriva la pace che permette di vivere, di costruire, di creare. Oggi invece arrivano le Ong per nutrire i perdenti, dandogli un potente incentivo per rimanere dove sono. Invece di disperdersi nelle vie della Terra, i rifugiati rimangono per perpetuare il conflitto, come i combattenti rifugiati Hutu reduci del genocidio dei Tutsi che, nutriti dalle Ong in Congo al confine del Rwanda, potevano facilmente ritornare per uccidere ancora. Una volta, i capi vinti venivano sconfessati e la nazione poteva riconciliarsi con le realtà della bilancia del potere per arrivare a una pace senza di loro. Oggi invece arrivano le Ong. Dopo il bagno emotivo delle due Simone Condividendo la sicura arroganza dei colonialisti, le Ong di oggi si differenziano spiccatamente in una sola cosa: invece di vedersi come ausiliari della propria nazione e del proprio governo, spesso fanno di tutto per differenziarsi, e certe Ong non fanno altro che polemizzare con il proprio paese. Non riconoscono l’autorità morale di un governo che, bene o male, rappresenta la sovranità del popolo intero espressa in elezioni democratiche. I membri delle Ong che nessuno ha eletto, che nessun voto parlamentare ha approvato, si sentono pieni di legittimità, insistentemente proclamano la loro perfetta indipendenza dal proprio governo, spesso il loro disprezzo, a volte perfino lo estendono ai rappresentanti del governo in loco, diplomatici fannulloni, soldati militaristici, spie tenebrose. Fino a che non si mettono nei guai, quando l’adorato "altro" che vogliono tanto amare si rivela fanatico sanguinoso o semplicemente bandito. Allora le loro Ong di appartenenza, i loro compagni, le loro famiglie, esigono il totale impegno del governo che deve lasciare ogni altra cosa per fare di tutto per salvarli – loro che sono lì contro ogni consiglio, ogni richiesta dello stesso governo. E naturalmente i disprezzati diplomatici, soldati e spie devono lavorare giorno e notte e, se è il caso, devono rischiare la propria vita per salvare chi li disprezza. Non è possibile ricondurre le Ong alla democrazia, non accettano la semplice verità che non rappresentano nessuno se non se stesse. Ma è possibile stabilire una volta per sempre per regola amministrativa che chi volutamente e deliberatamente si introduce in una zona di conflitto, disprezzando ogni avvertimento ufficiale, non ha alcun diritto di esigere le energie dei governanti, i soldi dei contribuenti, e di mettere a rischio le vite di diplomatici, soldati e spie. Dopo il bagno emotivo delle due Simone, ormai stelle internazionali, sarà forse necessario ostentare una fredda indifferenza
per i prossimi catturati. Ma l’alternativa è di ridurre il governo a una squadra di emergenza che deve subordinare ogni altra priorità e interesse nazionale. Sicuramente le due Simone sarebbero costate molto di meno ai pensionati, agli scolari e a ogni cittadino se fossero andate in vacanza a Bora,
in prima classe.
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.
lettere@ilfoglio.it