Quattro anni di Intifada: un bilancio squilibrato
sul quotidiano cattolico
Testata: Avvenire
Data: 04/09/2004
Pagina: 1
Autore: Luigi Geninazzi - Francesca Fraccaroli
Titolo: Testarda cecità negare quel punto nero - «La rivolta armata è la risposta peggiore alla politica espansionistica di Israele» - «La via del dialogo è fallimentare La nostra risposta si chiama Jihad»
A pagina 2 dell'Avvenire di oggi, 28-09-04, Luigi Geninazzi firma l'editoriale "Testarda cecità negare quel buco nero", sui quattro anni di Intifada.
E' dal conflitto israelo-palestinese, secondo Geninazzi, che trae origine il terrorismo islamista, nonostante questo dichiari apertamente di odiare l'Occidente per motivi che nulla hanno a che fare con quel conflitto.
Inoltre a suo avviso l'Intifada è incominciata dopo la "passeggiata di Sharon alla Spianata delle Moschee".
Ma, facciamo notare noi, il 4 marzo 2001, Imad Faluji, il ministro per le comunicazioni dell’Autorità nazionale palestinese ha dichiarato al Jerusalem Post che nel luglio 2000 l’insurrezione palestinese era in preparazione. La dichiarazione non è mai stata smentita.
I vantaggi apportati dalla barriera di separazione, continua comunque Geninazzi, sono solo apparenti in quanto questo "garantisce più sicurezza ad alcuni ma peggiora le condizioni di vita di molti altri che si vedono negati i diritti fonamentali, come ha sentenziato la corte internazionale dell'Aja".
Ovvero: gli israeliani non muoiono più, ma i palestinesi vengono limitati nella loro possibilità di spostamento e le loro proprietà vengono espropriate (con risarcimenti) e se qualcuno volesse vedere in questo, tutto considerato, un miglioramento, si sbaglierebbe. Perchè la libertà di movimento e i diritti di proprietà dei palestinesi sono sullo stesso piano, per il quotidiano cattolico, del diritto degli israeliani a non essere uccisi.

Hanno "festeggiato" l'anniversario a loro modo. Il solito da quando, esattamente quattro anni fa, scoppiò la seconda Intifada. Israele l'ha celebrato con due massicce incursioni nei campi profughi di Jenin e nella striscia di Gaza, all'indomani dell'assassinio mirato di un esponente di Hamas, fatto esplodere nella sua auto a Damasco, fuori dai Territori. Sul fronte opposto doveva esserci l'ennesimo attentato terroristico, dopo che cinque giorni fa una donna kamikaze si era fatta esplodere a Gerusalemme. L'attacco è stato sventato all'ultimo momento con l'arresto del giovane shahid, un adolescente di 15 anni imbottito di tritolo dai capi della Jihad islamica.
È la tragica routine che nessuno sembra più in grado di fermare dal 28 settembre del 2000, quando l'attuale premier Sharon si concesse una provocatoria passeggiata sulla Spianata delle Moschee che diede il via alla rivolta. In quattro anni ci sono stati 4221 morti, quasi tutti civili: 3232 palestinesi e 989 israeliani.
Uno stillicidio quotidiano di barbarie che è sembrato rallentare un po' nel corso di quest'ultimo anno. Il governo Sharon non si stanca di ricordare che, grazie al muro, la "barriera di separazione" che Israele sta costruendo in Cisgiordania, il numero degli attentati si è drasticamente ridotto (due negli ultimi sette mesi). Ma la vera svolta, secondo Sharon, si avrà con lo smantellamento delle colonie ebraiche nella Striscia di Gaza. Un ritiro strategico che il vecchio generale intende portare a termine, nonostante la durissima opposizione dell'ultra-destra israeliana che si prepara a dare battaglia.
Due buone notizie, a prima vista: i cittadini israeliani godono finalmente di un po' più di tranquillità ed i palestinesi di Gaza vedranno ben presto la fine del lungo regime di occupazione. In Medio Oriente però ogni cosa ha sempre un amaro risvolto. Il "muro di separazione" garantisce più sicurezza ad alcuni ma peggiora le condizioni di vita di molti altri, che si vedono negati i diritti fon damentali, come ha sentenziato a luglio la Corte internazionale dell'Aja. Ed il ritiro da Gaza, deciso unilateralmente da Sharon, rischia d'alimentare la guerra tra i diversi gruppi, favorendo paradossalmente quelli più integralisti. Il bilancio di questi quattro anni d'Intifada è semplicemente disastroso per la società palestinese: l'economia è in rovina, le restrizioni alla libertà di movimento sono soffocanti e quel che dovrebbe essere l'organo d'autogoverno dei Territori, l'Anp di Arafat, è ridotto ad un sistema di potere arcaico e corrotto, dilaniato da lotte interne e assediato dai movimenti estremisti. La strada verso la pace, disegnata dall'ambiziosa Road map lo scorso anno, è rimasta senza segnaletica. Tra israeliani e palestinesi è aumentata la sfiducia, è cresciuto il risentimento. La guerra in Iraq avrebbe dovuto innescare, secondo il presidente americano Bush, un «circolo virtuoso» in Medio Oriente, allargando gli spazi di democrazia in tutta l'area resa finalmente più stabile. È successo il contrario. Invece che iniziare una nuova guerra del Golfo era meglio impegnarsi a bloccare la guerra strisciante tra Israele e palestinesi. È qui, «è nella Terra Santa, innanzitutto, che va fermata l'inutile spirale di cieca violenza», come ammoniva Giovanni Paolo II alla vigilia della sciagurata guerra in Iraq. Un monito che risulta drammaticamente attuale. La pacificazione del Medio Oriente passa innanzitutto da Gerusalemme, poi da Baghdad. Verità semplice e scandalosa, soprattutto per chi l'ha ignorata.
A pagina 7 Francesca Fraccaroli intervista Raij Sorani, "noto attivista dei diritti umani ed esponente di primo piano della società civile in Cisgiordania e Gaza". Sostanzialmente acritica, anche quando il suo interlocutore addossa a Israele persino la responsabilità della mancanza di democrazia nell'Anp, incline agli eufemismi benevoli per definire il terrorrismo (rivolta), l'intervistatrice giunge nella seconda domanda, a definire la violenza palestinese "reazione" a precedenti sopprusi israeliani, accogliendo la ricostruzione di Sorani, del tutto falsa: il terrorismo suicida ha infatti incominciato a colpire Israele subito dopo Oslo, non è dunque una conseguenza, ma una causa del fallimento del processo negoziale.
Ecco il pezzo, "La rivolta armata è la risposta peggiore alla politica espansionistica di Israele" :

Quarto anniversario dell'Intifada. Per i palestinesi è un momento di riflessione: sugli attentati suicidi, sull'attuale impasse politico, sulle scarse prospettive di una ripresa del negoziato unite alla costruzione del muro. Ne abbiamo discusso con l'avvocato palestinese Raji Sorani, noto attivista dei diritti umani ed esponente di primo piano della società civile in Cisgiordania e Gaza.
Qual è il suo giudizio sulla rivolta del popolo palestinese?
Prima di analizzare gli effetti di questa seconda Intifada è essenziale ricordarne le cause. Sono passati undici anni dagli accordi di Oslo che dovevano, nell'ottimismo generale, portare alla nascita di due Stati. Nei mesi successivi, invece, il governo israeliano ha messo in atto una sistematica espansione delle colonie esistenti, ha accelerato la creazione di nuovi insediamenti sulle terre palestinesi, ha costruito le bypass road, che passano sui terreni cisgiordani, percorribili solo dai coloni. Azioni illegittime denunciate da governi e da organizzazioni internazionali. L'aggravarsi dell'occupazione israeliana ha quindi reso esplosiva la situazione e di fatto ha posto le condizioni per l'inizio della rivolta palestinese.
La reazione palestinese però è stata armata e violenta. Non vanno dimenticati gli attacchi contro i civili israeliani che hanno fortemente turbato l'opinione pubblica mondiale.
Condanno senza mezzi termini tutti gli attacchi contro civili. Mi batto per la protezione della popolazione civile in tempo di guerra, di ogni popolazione, anche quella palestinese. Solo in questi giorni sono state demolite decine di case a Rafah e Khan Yunis e tutto ciò è avvenuto nell'indifferenza generale. Indubbiamente la lotta armata palestinese ha anche la responsabilità di aver alienato le simpatie dell'opinione pubblica internazionale verso la nostra causa.
La leadership palestinese non ha delle responsabilità per le attuali condizioni del suo popolo?
Di certo non tutte le scelte dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) sono condivisibili e io per primo in passato ho criticato la politica del presidente Arafat e chiesto una maggior trasparenza nella gestione del potere. Parole che mi sono costate l'arresto da parte della polizia palestinese, dopo esser stato incarcerato più volte in Israele. È altrettanto vero però che agli attivisti dei diritti civili non vengono dati gli strumenti per sviluppare la democrazia. Continuiamo a subire abusi da parte di Israele: i leader politici arrestati, i seggi pre-eletttorali a Gerusalemme chiusi, qualsiasi attività della società civile ostacolata, persino le visite di delegazioni diplomatiche. Con i miei colleghi sono costretto a parlare in video-conferenza. Come arrivare a nuove elezioni quando le minime libertà ci vengono negate?
E il muro costruito da Israele in Cisgiordania?
L'inviato speciale dell'Onu, John Doughar, lo ha definito una barriera permanente e definitiva, costruita all'interno dei nostri Territori. Ciò significa che non ha finalità difensive, ma annette allo Stato ebraico ampie porzioni di Cisgiordania. Non è un prodotto dell'Intifada armata, ma una prova che Israele va avanti da solo perseguendo i propri interessi.
In "La via del dialogo è fallimentare. La nostra risposta si chiama Jihad", la Fraccaroli intervista invece Mushir al Masri, portavoce di Hamas, definita dalla giornalista: "gruppo islamico", "organizzazione","organizzazione integralista". Sebbene sia presente nell'articolo l'espressione "azioni terroristiche", rivolgendosi ad al Masri la Fraccaroli preferisce l'espressione "lotta armata".
Interessante che Masri rivendichi come successo del terrorismo il fatto che "le Nazioni Unite e i Paesi occidentali hanno riscoperto il problema palestinese, che avevano dimenticato", cioè che le stragi di civili israeliani hanno spinto l'Onu e parte dell'Europa a condannare Israele.
Difficile dargli torto, su questo punto.
Ecco il pezzo.

Il gruppo islamico Hamas è emerso nel corso della seconda Intifada palestinese più forte e più aggressivo. Le cronache mediorientali di questi ultimi anni sono popolate dalle azioni terroristiche dell'organizzazione, che aspira alla costituzione di uno Stato islamico su tutto il territorio storico della Palestina, cancellando di fatto Israele. Per Hamas non ci sono ripensamenti, nonostante i duri colpi che di recente ha subito da Israele, come l'uccisione dei suoi leader: lo sceicco Ahmed Yassin e Abdel Aziz Rantissi. E nonostante le critiche che si alzano anche da parte palestinese: la rivolta armata contro lo Stato ebraico, dice il movimento islamico, era necessaria e deve continuare.
Ne abbiamo parlato con Mushir al-Masri, portavoce a Gaza dell'organizzazione integralista.
Hamas ha sempre sostenuto l'Intifada in tutte le sue forme. Qual è il vostro bilancio di questi quattro anni?
L'Intifada ha ottenuto risultati eccezionali per la causa palestinese. Il più importante è stato quello di aver unificato il nostro popolo dopo gli anni degli accordi di Oslo (1993-2000) che, al contrario, avevano creato spaccature profonde tra i palestinesi a tutto vantaggio di Israele. Il popolo ha ritrovato unità di intenti riscoprendo l'importanza del Jihad (guerra santa, ndr) e compreso che la via del negoziato scelta dall'Autorità nazionale palestinese (di Yasser Arafat) era fallimentare. A ciò si aggiunge il sostegno espresso dai popoli arabi alla nostra lotta. E non bisogna dimenticare che anche le Nazioni Unite e i Paesi occidentali hanno riscoperto il problema palestinese che avevano dimenticato.
Lei dà un giudizio positivo dell'Intifada. Ma anche tra i palestinesi ci sono molte voci di dissenso, tra cui quella dell'ex premier Abu Mazen, secondo le quali la rivolta ha fornito a Israele l'opportunità di colpire in modo ancora più violento, peggiorando di fatto la condizione palestinese. Basti pensare agli effetti del muro che Israele sta costruendo in Cisgiordania...
Queste voci contrarie appartengono a pochi individui che condannano l'Intifada perché ha scardinato i loro interessi personali. Israele avrebbe attuato tutto ciò che ha fatto sino ad oggi anche se non ci fosse stata la rivolta. Il piano dei sionisti (gli israeliani, ndr) infatti è quello di prenderci tutta la terra e costringerci all'esilio. Chi contesta la rivolta deve capire che il ritiro da Gaza previsto dal piano di Sharon non è stato un regalo ai palestinesi ma la conseguenza della nostra resistenza armata contro l'occupante.
Parliamo allora della lotta armata. Non ritiene che colpire civili innocenti vada contro i valori della religione islamica?
Sia bene inteso: è lo Stato ebraico che ha scelto la via dell'aggressione militare, certamente non l'hanno fatto i palestinesi. La lotta armata, che comprende anche le operazioni di martirio (gli attentati kamikaze, ndr), è l'unica alternativa che rimane alla nostra gente. Israele ci aggredisce e ci attacca nella nostra terra, uccide i nostri figli, distrugge le nostre case e noi palestinesi non possiamo fare altro che difenderci. Loro hanno aerei e carri armati, noi abbiamo gli shaid, i martiri.
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