Il terrorismo vuole dividere l'occidente, chi sono i "rabbini dello scandalo"
un'intervista ad Angelo Panebianco e un commento di Emanuele Ottolenghi
Testata:
Data: 13/09/2004
Pagina: 1
Autore: un giornalista - Emanuele Ottolenghi
Titolo: Panebianco - Vicini ai coloni ma non necessariamente oltranzisti, ecco chi sono i 14 dello scandalo
Il Foglio dell'11-09-04, pubblica in prima pagina un'intervista al politologo ed editorialista del Corriere della Sera Angelo Panebianco, che mette in guardia dalla strategia della divisione dell'Occidente, messa in atto dal terrorismo fondamentalista.
Roma. "L’11 settembre 2001 è scoppiata
la quarta guerra mondiale – dice Angelo
Panebianco al Foglio – condotta da gruppi
integralisti islamici con un doppio obiettivo:
trascinare dietro di sé tutto il mondo
musulmano e colpire l’occidente, il nemico
da distruggere". Spiega Panebianco che nasce
qui il più profondo punto di dissenso
verificatosi tra una parte dell’Europa e gli
Stati Uniti, e all’interno dell’Italia: nasce
sulla parola guerra. "Se c’è disaccordo tra
chi nell’11 settembre riconosce l’inizio di
una guerra e chi dice invece che non di
questo si tratta, si adottano lenti totalmente
diverse per leggere la situazione storica
in cui siamo immersi, e di tutti gli avvenimenti
successivi si daranno interpretazioni
del tutto divergenti. Il dissenso porta poi
inevitabilmente allo scontro politico e a differenze
radicali sull’atteggiamento da assumere
nei confronti del mondo islamico,
del terrorismo, della guerra in Iraq". E’ vero
che il conflitto è anche interno all’islam,
ma "non c’è dubbio che si nutre di ostilità
per l’occidente, e non si può dire ‘restiamone
fuori, non ci riguarda’, perché la guerra
è stata dichiarata alla civiltà occidentale:
se vincerà, l’integralismo islamico potrà
espandersi dentro il mondo musulmano". E
per vincere bisogna colpire gli anelli deboli:
"Il rapimento delle due ragazze pacifiste
si inserisce in questa strategia: hanno eliminato
dal gioco la Spagna, adesso si tratta
di colpire l’Italia, indebolirla perché si sa
che è divisa sulla questione irachena. Anche
la solidarietà di Hezbollah è un tentativo
abile dell’integralismo di giocare ancora
una volta sulle lacerazioni italiane, bisogna
fare attenzione a non abboccare. Sarebbe
molto più difficile indebolire l’Inghilterra,
che reagisce agli attacchi con un
sicuro aumento della coesione nazionale".
Anche per questo Panebianco giudica "incomprensibili"
le divisioni italiane sul conflitto
in Iraq: "Oggi non si capisce che cosa
si possa fare se non appoggiare il governo
provvisorio iracheno per arrivare a elezioni
democratiche. Il fatto che una parte della
classe politica italiana chieda il ritiro
delle truppe, invece, da un lato significa accettare
che il terrorismo vinca la partita,
dall’altro non capire che una sconfitta in
Iraq potrà avere effetti catastrofici sul futuro
del conflitto tra l’integralismo islamico
e l’occidente". Ancora una
volta perché non si vuole accettare
quel che è successo
l’11 settembre. "C’è una
parte della sinistra, che,
pur condannando sinceramente
e senza ipocrisie
il terrorismo, non
riesce a credere che sia
scoppiata una guerra
senza quartiere e
pensa che con la diplomazia
sia possibile
contenere gli attacchi: si muove in sintonia
con gli orientamenti della Germania e
della Francia". La Francia credeva di essere
immune da attacchi in virtù della non
belligeranza, e ora si trova ad accettare solidarietà
spaventose per liberare i due
ostaggi. "La Francia ha sfidato gli Stati Uniti,
preoccupata di presentarsi come il paese
europeo capace di fronteggiare l’egemonia
americana, e preoccupata di difendere
la propria posizione di influenza nel medio
oriente: al momento del rapimento dei giornalisti
ha capitalizzato la propria posizione,
e non è così sorprendente la solidarietà di
Hamas, visto che la Francia ha resistito a
lungo in sede di Unione europea di fronte
alla richiesta americana di inserire Hamas
nella lista delle organizzazioni terroristiche:
questo fa pensare che abbia sempre
mantenuto contatti con gli estremisti della
Fratellanza musulmana. Ma il dialogo con
l’islam non è certo questo, e parlare di dialogo
non ha nemmeno senso: bisogna invece
stimolare con chiarezza il mondo islamico
a prendere una posizione dura e definitiva,
non contro i rapitori dei francesi o delle
due italiane pacifiste, ma contro qualunque
forma di terrorismo".
"Pera meritava più considerazione"
Panebianco non crede che ci sia adesso
in Italia "nessuna unità nazionale". "Perché
i punti di divisione rimangono tutti, e forti:
la reazione dei Ds al discorso di Pera sulla
solidarietà tra i paesi occidentali, che
avrebbe meritato almeno una discussione
rispettosa, dimostra che c’è una visione totalmente
diversa di quel che è accaduto e
che sta accadendo, e di per sé elimina qualunque
possibilità di accordo bipolare sulle
questioni della sicurezza e della guerra.
Resta in piedi quello che fanno, doverosamente,
le forze politiche per ottenere la salvezza
di due connazionali, ma nient’altro".
Il fatto è che, dice Panebianco, "siamo di
fronte a una guerra fondamentalista di difficile
lettura, perché viene dall’esterno, ma
sul piano pratico porta la stessa minaccia
totalitaria del nazismo e del comunismo, anche
se equipararle sarebbe grossolano: comunismo
e nazismo li avevamo prodotti noi,
ora invece, per la prima volta, lo scontro è
lanciato da correnti esterne alla cultura occidentale.
Dobbiamo studiare seriamente
quel mondo, per capire come sconfiggere il
nemico: è in atto una sfida di civiltà, coinvolge
una parte del mondo islamico che in
questo momento è all’attacco dell’occidente,
chi non l’ha capito dovrebbe ripensarci".
A pagina 1 dell'inserto Emanuele Ottolenghi commenta la lettera dei 14 rabbini pubblicata dal Foglio del 10-09-04 ("Le nostre vite prima di tutto!" Informazione Corretta, 10-09-04). Ecco il pezzo.
Gerusalemme. Commentando la lettera
aperta firmata da quattordici rabbini che il
Foglio pubblicava ieri, David Jaeger, noto
giurista francescano, ebreo israeliano convertito
al cattolicesimo, ha dichiarato al Foglio:
"Non saprei di quale religione questi
rabbini sarebbero ministri. Le loro dichiarazioni,
così riportate, non corrispondono a
nulla della formazione religiosa ebraica impartitami
nella mia giovinezza". Jaeger è ormai
distante da quella formazione religiosa
e da quel mondo. Ma su una cosa non ha torto.
L’ebraismo non ha una fonte di autorità
unica, i suoi testi normativi sono oggetto di
interpretazione, e la loro lettura varia da
rabbino a rabbino, a volte in maniera significativa.
Pur essendoci limiti al pluralismo
in materia di interpretazione religiosa, esistono
svariate tradizioni in seno all’ebraismo,
e soluzioni diverse se non addirittura
divergenti su simili problemi. Il peso quindi
di un responso rabbinico a una problematica
qualsiasi, sia essa politica o alimentare,
si misura nell’autorevolezza della fonte non
meno che nei suoi contenuti, che possono
variare. Quando si tratta poi di contese che
trascendono la pratica religiosa dell’individuo
e riguardano invece la collettività e le
sue scelte politiche, i giudizi sono vari e svariati.
In tema di territori le opinioni divergono,
e l’ebraismo annovera tra i responsi
rabbinici proclami favorevoli e contrari al
compromesso territoriale, con infinite sfumature.
L’importanza del proclama pubblicato
ieri su queste pagine dipende dall’autorità
che l’ha emessa. Tra i quattordici firmatari
ci sono alcuni rabbini di Yesha (l’acronimo
per Giudea, Samaria e Gaza), noti
per la loro inclinazione ideologica e la loro
tendenza a giustificare, attraverso una particolare
lettura delle Scritture, il diritto assoluto
di Israele a controllare i territori. Il
Rav Druckman per esempio è identificato
fortemente con l’ala piú radicale della militanza
religiosa per la Grande Israele. Essi
non rappresentano necessariamente l’intera
popolazione di israeliani che vivono negli
insediamenti, essendo invece espressione
della sola componente religiosa messianica
e militante. Le posizioni dei rabbini di Yesha,
uniti in Consiglio, non sono d’altronde
in linea con il pensiero di altri autorevoli
rabbini nei territori come Rav Amital, uno
dei due capi della Yeshiva di Alon Shvut, o
Rav Riskin dell’insediamento di Efrat, entrambe
parte del Blocco Etzion a sud di Gerusalemme.
Né si indentifica con il Consiglio
una figura storica del movimento religioso
degli insediamenti, quale è Yoel Bin
Nun. E’ significativo che tali autorevoli personaggi
manchino tra i firmatari. Tra loro invece
spiccano altre figure riconosciute nel
mondo del diritto ebraico come esperti e autorità.
Il peso quindi di decisioni come questa
sta non tanto nei contenuti, quanto nell’autorevolezza
di coloro che li hanno
espressi. Figure come il Rav Cherlow e il
Rav Shapira rappresentano quanto di più
moderno e universalista ci sia nel mondo ortodosso
askenazita israeliano; essi rappresentano
la rinascita ebraica degli ultimi dieci
anni nel mondo ortodosso, che offre interessanti
sviluppi in direzione femminista,
che combinano ambientalismo e ortodossia,
che coniugano misticismo e modernità. La
loro firma pesa moltissimo dunque, proprio
in virtù delle loro posizioni aperte su altri
temi a sfondo sociale e la loro autorevolezza
significa due cose: o i contenuti di quel testo
riflettono sentimenti condivisi nel mondo religioso
o essi verranno recepiti dal mondo
religioso in assenza di una risposta da fonti
altrettanto riconosciute.
Nessuno contesta naturalmente, nel mondo
religioso come in quello laico, il diritto
sacrosanto d’Israele a difendersi. Ma il significato
dell’ingiunzione di uccidere un nemico
prima che esso ci uccida si presta a
molte interpretazioni: che significa "si leva
a ucciderci"? Quando si leva il nemico? In
quale preciso momento è dato di ricorrere
alla legittima difesa, dacché il nemico si è
"levato"? Legittima difesa sino a che livello
di prevenzione? E’ la vita degli innocenti,
quello che nell’asettico gergo delle guerre
odierne si chiama danno collaterale? Domande
che vanno sollevate, perché non solo
i rabbini e altri uomini di altre fedi si devono
interrogare di fronte alla guerra sui comportamenti
da permettere e quelli da condannare,
ma tutta la società deve continuare
a porsi il problema della guerra e del diritto
alla difesa in termini morali.
I quattordici firmatari hanno espresso un
parere che non è né l’unico né l’ultimo del
mondo religioso israeliano in tema di guerra
e pace. Il suo impatto non va sottovalutato.
Ma va anche contestualizzato. Altri, meno
eclatanti, sono stati espressi in questi giorni,
sul dovere o meno di resistere all’evacuazione
che presto Sharon ordinerà a Gaza. E
anche su questo, proprio Bin-Nun si è recentemente
pronunciato, affermando che solo
se l’intero processo verrà visto negli insediamenti
come attuato senza alcun riguardo
per la democrazia ci si può aspettare una risposta
violenta. Gli fa eco il Partito nazionale
religioso, espressione politica degli insediamenti:
per rimanere al governo con Sharon
chiedono un referendum sul disimpegno.
Alla fine, anche le autorità religiose e i
loro proclami riconoscono una cosa (che la
stessa tradizione ebraica ha da secoli affermato):
la volontà della comunità, alla fine, è
l’opinione che deve avere la meglio.
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