Per che cosa combattiamo - quinta parte
l'antiamericanismo dopo l'11 settembre
Testata:
Data: 03/09/2004
Pagina: 2
Autore: Norman Podhoretz
Titolo: La quarta guerra mondiale. Dal "siamo tutti americani" all'odio per gli yankee
Nella quinta parte del suo saggio, pubblicata oggi, 03-09-04, dal Foglio, Norman Podhoretz affronta il tema dell'antiamericanismo scatenatosi dopo l'11 settembre, nel mondo arabo-islamico e, dopo l'iniziale solidarietà, in Europa.
E non estraneo all'élite intellettuale degli stessi Stati Uniti.
Ecco il pezzo:

Le Twin Tower non avevano ancora quasi fatto in tempo a cadere che cominciò un’accesissima gara per la medaglia d’oro
alle olimpiadi dell’antiamericanismo. La televisione (…) ha subito cominciato a propinarci programmi che presentavano l’islam
in termini molto elogiativi. Sostanzialmente, questi programmi s’ispiravano alle parole dello stesso presidente Bush e
di altri leader politici. Con le migliori intenzioni, e anche per motivi di prudenza, i funzionari del governo si sforzavano di negare
il fatto che la guerra contro il terrorismo fosse una guerra contro l’islam. Di conseguenza, non hanno mai smesso
di elogiare gli elementi positivi di quella religione, della quale ben pochi di loro in realtà sapevano qualcosa. Comunque, è
dalle università, e non dai politici, che il materiale sostanziale di queste trasmissioni è stato tratto, attraverso interviste ai professori
– molti dei quali musulmani – che presentavano una versione dell’islam all’acqua di rose. Talvolta erano persino completamente
insinceri, soprattutto quando presentavano un’immagine ripulita del jihad (o guerra santa) o quando non ammettevano
che moltissime personalità religiose in tutto il mondo musulmano continuavano a celebrare gli attentatori suicidi
(compresi quelli che avevano compiuto gli attacchi contro le torri gemelle e il Pentagono) come martiri ed eroi.
Non è mia intenzione entrare in una disputa teologica. Il mio scopo, al contrario, è quello di offrire un altro esempio di quell’effetto
di ricaduta di cui ho già parlato prima. Così, immediatamente dopo l’11 settembre, le università hanno cominciato ad
aggiungere innumerevoli corsi sull’islam nei loro programmi di studi. Nei campus, il corso intitolato "Comprendere l’islam" ha
inevitabilmente cominciato a trasformarsi in una difesa dell’islam, e la maggior parte dei media ha fatto la stessa cosa. Questi ultimi
hanno anche adottato la posizione di neutralità tra noi stessi e i terroristi prevalente nel mondo accademico moderato, in
particolare quando le principali reti televisive hanno imposto ai loro giornalisti di non mostrare alcuna forma di partigianeria.
La sola grande eccezione è stata Fox News channel. Il New York Times, in un articolo in cui si deplorava che la Fox parlasse
della guerra da un punto di vista apertamente proamericano, esprimeva il proprio sollievo per il fatto che nessun’altra rete televisiva
avesse gettato allegramente al vento le sacre regole che impongono ai giornalisti, per dirlo con le parole del presidente
di Abc News, "di mantenere la loro neutralità in tempo di guerra". Sebbene la vasta maggioranza di coloro
che incolpavano l’America per gli attentati che essa stessa aveva subito appartenessero alla sinistra, alcune voci della destra si
sono unite a questo coro perverso. Ospite della trasmissione di Pat Robertson, il reverendo Jerry Falwell proclamò la tesi che
Dio stava punendo gli Stati Uniti per la loro decadenza morale, perfettamente incarnata in un folto numero di gruppi liberal.
Sia Robertson sia Falwell si sono poi scusati per avere puntato il dito contro questi gruppi, ma hanno continuato a sostenere
che Dio aveva ritratto la sua mano protettiva dall’America perché tutti noi eravamo diventati dei grandi peccatori. Per di più,
nel coro di amen che si è formato attorno alla destra laica, commentatori come Robert Novak e Pat Buchanan hanno aggiunto
che ci eravamo tirati addosso la punizione non tanto per la nostra consapevole disobbedienza alla legge divina quanto per la nostra manovrata obbedienza a Israele.

Il grande rifiuto dominante

Abbastanza stranamente, tuttavia, all’interno dello stesso mondo arabo, si dava molto meno peso a Israele come causa essenziale
degli attacchi rispetto a quello che gli davano praticamente tutti i paleoconservatori della destra seguaci di Pat
Buchanan. Persino per Osama bin Laden, il sostegno dato a Israele stava soltanto al terzo posto nella sua lista dei nostri "crimini"
contro l’islam. Non che, naturalmente, tutti gli arabi (insieme con la maggior parte dei musulmani non arabi del medio
oriente, come gli iraniani) avessero abbandonato il sogno di cancellare Israele dalla carta geografica.
Per chiunque la pensasse altrimenti, ecco che cosa ha detto Fouad Ajami, della John Hopkins University, un americano
cresciuto come musulmano in Libano, a proposito del "grande rifiuto" da parte del mondo arabo di accettare la stessa esistenza
di Israele: "Il grande rifiuto continua ancora a dominare nelle strade, tra gli intellettuali e gli scrittori, così come nei sindacati.
La forza di questo rifiuto può essere osservata nella stampa governativa e in quella d’opposizione, tanto tra i laici quanto
tra i religiosi, sia nei paesi che hanno concluso accordi diplomatici con Israele sia in quelli che non lo hanno fatto". Ajami ha sottolineato che il grande rifiuto rimane "fortissimo in Egitto" nonostante il trattato di pace firmato con Israele nel 1978. Ci si sarebbe aspettati, quindi, che gli
egiziani avessero immediatamente attribuito il diffuso risentimento contro gli Stati Uniti alla politica americana nei confronti
d’Israele, soprattutto perché l’Egitto (secondo soltanto a Israele come destinatario di aiuti americani) aveva un potente stimolo a spiegare in questo modo l’ingrata risposta degli egiziani al nostro generoso trattamento. Ma non è stato così. Soltanto due settimane prima dell’11 settembre, Abd al Munim Murad, un editorialista di al Akbar – quotidiano sponsorizzato dal governo egiziano – scrisse: "Il conflitto che definiamo arabo-israeliano è in realtà un conflitto degli arabi contro il colonialismo occidentale e in particolare americano. Gli Stati Uniti trattano gli arabi esattamente
come hanno trattato gli schiavi trasportati sul loro continente. A questo fine, gli Stati Uniti sono aiutati
da un nemico più piccolo, che è, naturalmente, Israele". In un altro articolo, lo stesso giornalista ha ribadito e ulteriormente
ampliato questo suo inconsueto e sincero riconoscimento: "La questione non riguarda più il conflitto arabo-israeliano. La vera
questione è il conflitto arabo-americano: gli arabi devono capire che gli Stati Uniti non sono ‘l’amico americano’; il loro obiettivo
(passato, presente e futuro) è quello di imporre il proprio dominio sul mondo, e innanzitutto sul medio oriente e il mondo
arabo". Poi, in un terzo articolo, pubblicato alla fine di agosto, Murad ci ha dato qualche indizio per capire quale sia invece il
suo obiettivo nei confronti dell’America: "La statua della libertà, nella baia di New York, deve essere distrutta, per colpire la folle politica americana che passa da un disastro all’altro, conficcata nel fango dei pregiudizi e del più cieco fanatismo: l’era del collasso americano è cominciata". Se questo era il genere di giudizio che ricevevamo da un paese arabo da tutti considerato come "moderato", in Stati radicali come l’Iraq e l’Iran bisognava come minimo
identificare l’America come il "Grande Satana". Quanto ai palestinesi, il loro disprezzo per l’America non era sorpassato nemmeno dal loro odio per Israele. Per esempio, il mufti nominato da Yasser Arafat aveva pregato affinché Dio "distruggesse l’America", mentre il direttore di un importante giornale palestinese aveva proclamato: "La storia non ricorda gli Stati Uniti, ma ricorda l’Iraq, la culla della civiltà.
La storia ricorda ogni centimetro della terra araba, perché è la madre della civiltà umana. Invece gli americani, gli assassini
dell’umanità, i creatori di una cultura barbarica e i succhiasangue delle nazioni, sono destinati alla morte e a rimpicciolirsi
fino a dimensioni microscopiche, come la Micronesia". Qui, l’assenza persino di un accenno a Israele dimostra che, se anche lo Stato
ebraico non fosse mai stato realizzato, gli Stati Uniti sarebbero stati comunque visti come l’incarnazione di tutto ciò che quasi tutti questi arabi considerano l’essenza stessa del male. In verità, l’odio per Israele è in buona parte un surrogato dell’antiamericanismo,
e non il contrario. Israele è considerato semplicemente l’avanguardia della volontà americana di domino sul medio oriente. Come tale, lo Stato
ebraico era soltanto un riflesso dell’America: il "piccolo nemico" o "piccolo Satana". Cancellare Israele dalla carta geografica significava quindi purificare una regione appartenente all’islam (dar al islam) dalle blasfeme influenze politiche, sociali e culturali che provenivano da una forza barbarica e assassina. Questa forza era l’America, mentre Israele ne era semplicemente lo strumento.

Le interpretazioni dell’11 settembre

Sebbene Buchanan e Novak fossero stati i primi e i più schietti nell’attribuire la colpa dell’11 settembre all’amicizia dell’America per Israele, quest’idea non era confinata alla destra o alle zone marginali del paleoconservatorismo. Al contrario: se appariva qua e là nella destra, pervadeva
completamente la sinistra radicale e buona parte della sinistra moderata, ed era condivisa persino da un certo numero di liberal di centro come Mickey Kaus. Per il momento, anzi, i sostenitori della tesi "incolpare innanzitutto Israele" erano concentrati soprattutto nella sinistra.
Ed era sempre a sinistra, in particolare all’interno delle università, che erano collocati i loro fratelli gemelli, ossia i sostenitori della tesi "incolpare innanzitutto l’America". Tuttavia, Eric Fomer, professore di storia alla Columbia Unversity, dichiarava, in modo davvero ridicolo, che il rapporto
dell’Acta era inaccurato perché i sondaggi dimostravano che c’era un "forte sostegno" alla guerra tra gli studenti universitari. "Se il nostro scopo è indottrinare gli studenti con convinzioni non patriottiche", sottolineò con sarcasmo Foner, "stiamo davvero ottenendo pessimi risultati". Vero. Ma ciò che Foner, come storico, doveva per forza sapere, e che ha invece evitato di menzionare, è che persino nel momento di massima eccitazione radicale dei
campus negli anni Sessanta soltanto una minoranza degli studenti si schierò con i radicali pacifisti. Tuttavia, benché rappresentassero la maggioranza, gli studenti nonradicali, non poterono far sentire la propria voce sopra al fracasso pacifista, e tutte le volte che ci provarono vennero zittiti. La situazione è stata grosso modo la stessa subito dopo l’11 settembre. All’interno dei campus c’erano alcuni coraggiosi ribelli contro l’ortodossia accademica. Per lo più, tuttavia, la maggioranza silenziosa è rimasta silenziosa, per timore di incorrere nella disapprovazione dei suoi professori, o addirittura di essere puniti per il crimine di "insensibilità". E’ stato dunque di tal fatta l’attacco sferrato, immediatamente dopo l’11 settembre, dai guerriglieri con cattedra delle università,
insieme ai loro discepoli spirituali e politici disseminati in altri angoli della nostra cultura. Questo "sparuto gruppo di anziani Rip van Winkles", come furono allegramente bollati e scaricati da un commentatore, sarebbe riuscito a diventare un forza altrettanto potente di quella rappresentata dai "Jackal bins" di un tempo? L’ondata di fiducia nell’America e nelle virtù americane che si era spontaneamente creata all’indomani dell’11 settembre era
abbastanza potente da riuscire a resistergli? Alcuni di quelli che condividevano le mie preoccupazioni ritenevano che, se la situazione al fronte fosse stata positiva, sarebbe andato tutto bene anche in patria. Ed è esattamente questo che sembrava dimostrare l’effetto provocato dallo spettacolare successo della campagna afghana, che fece e interrompere la propaganda pacifista in un certo numero di campus. Ciononostante, le operazioni di rastrellamento condotte in Afghanistan crearono un’opportunità per più sofisticate forme di opposizione. Furono sollevate proteste sul fatto che i terroristi catturati in Afghanistan
e trasferiti nella prigione di Guantanamo non fossero trattati come regolari prigionieri di guerra. Furono anche espresse accuse sulla minaccia che rappresentavano per le libertà civili in America provvedimenti come il Patriot Act, emanato per impedire ulteriori attacchi terroristici in patria. Sebbene questi timori nascessero in gran parte da un fraintendimento della Convenzione di Ginevra e dello stesso Patriot Act, molte persone erano senza dubbio sinceramente preoccupate. Ma non c’è nemmeno nessun dubbio sul fatto che tali questioni potevano essere usate (e lo sono state) come una rispettabile copertura per un assoluto rifiuto della guerra. Un’altra rispettabile copertura era l’accusa secondo cui Bush stava seguendo una politica di "unilateralismo". L’allarme per questo affronto a quanto pare senza precedenti fu suonato innanzitutto dalle cancellerie e dai logorroici intellettuali dell’Europa
occidentale dopo che Bush aveva dichiarato che, nella lotta contro il terrorismo e i paesi che lo appoggiavano, gli Stati Uniti avrebbero preferito combattere insieme ai loro alleati e con l’avallo delle Nazioni Unite, ma che, se necessario, lo avrebbero fatto anche da soli e senza avere l’imprimatur dell’Onu.

L’ostentata superiorità dell’Europa

Questo era davvero troppo per gli europei. Dopo averci fatto le loro condoglianze per l’11 settembre, non sono riusciti a resistere nemmeno per un minimo periodo prima di ricadere nella loro antica abitudine di dimostrare quanto sono superiori per raffinatezza e saggezza agli americani, il cui carattere primitivo si rivelava ancora una volta nelle "semplicistiche" idee e nel rozzo moralismo del presidente Bush. Così, cominciarono a sostenere che dovevamo porre fine alle operazioni in Afghanistan e lasciare il resto in mano alla diplomazia, con deferente obbedienza ai grandi maestri di questa misteriosa arte che vivono a Parigi e Bruxelles. Prendendo ispirazione da questi maestri, il New York Times, insieme a molti altri giornali appartenenti a un arco che andava dal centro fino all’estrema sinistra (e presto seguito da tutti i candidati democratici nelle primarie presidenziali, fatta eccezione per il senatore Joseph Lieberman), cominciò ad accusare Bush di sconsideratezza e arroganza. Insomma, si è assistito al formarsi di una coalizione molto più ampia
di quella riunita dal movimento pacifista in occasione della guerra in Vietnam, specialmente nei primi anni. Allora, il movimento pacifista era stato
composto quasi interamente da liberal ed esponenenti della sinistra, mentre questo nuovo movimento stava raggruppando insieme tutta l’estrema sinistra, alcuni elementi della sinistra moderata e vari settori della destra americana. Seguendo il percorso già tracciato dal suo collega Mickey Kaus sulla questione di Israele, Michael Kinsley, esponente della sinistra moderata, si mise al fianco di Pat Buchanan come smascheratore di un’altra rispettabile copertura.
L’idea fu quella di imputare il presidente Bush di avere violato la Costituzione proponendo di combattere guerre non dichiarate. Nel frattempo, questa stessa accusa si diffondeva nelle cerchie politiche per mezzo di senatori come Robert Byrd, Edward M. Kennedy e Tom Daschle, i quali continuavano
anche a parlare di pantani, di strade pericolose e di "unilateralismo". Quanto a me, ero certo che, con l’ampliarsi del teatro militare della quarta guerra mondiale (e con l’Iraq come ovvio prossimo fronte di battaglia), l’opposizione sarebbe non soltanto accresciuta ma avrebbe anche acquistato sufficente sicurezza e fiducia in se stessa per fare a meno di ogni rispettabile copertura. Ciò significava che sarebbe stata sostenuta soltanto dagli
estremisti e dai radicali. Su questo ho avuto ragione, mentre chi aveva deriso i "Jackal bins" e i "Rip van Winkles", considerandoli politicamente insignificanti, ha avuto torto. Ma non mi sarei mai immaginato che il nuovo movimento pacifista avrebbe raggiunto così rapidamente quello stato di virulenza per raggiungere il quale il suo predecessore al tempo del Vietnam aveva invece impiegato anni.

Varie forme di apologia

Una possibile spiegazione di questo fenomeno era che, come nel caso delle rispettabili critiche che lo avevano preceduto, l’opposizione radicale seguiva le orme dell’opinione pubblica europea. In questo caso, incoraggiamenti e stimoli sono stati offerti dal quasi incredibile scoppio di ostilità nei confronti dell’America esploso, all’indomani dell’11 settembre, in tutto il continente europeo, e soprattutto in Francia e in Germania, e che ha acquisito ancora maggiore forza nella fase di preparazione della guerra in Iraq. Se si deve prestare fede alle dimostrazioni e ai sondaggi dell’opinione pubblica, un enorme numero di persone detestava gli Stati Uniti così profondamente da non essere disposto a schierarsi al nostro fianco nemmeno contro uno dei più violenti tiranni del mondo. Che questi fossero i sentimenti dominanti nel mondo musulmano non era certo una sorpresa. Diversamente che in Europa, dove gli attacchi dell’11 settembre avevano provocato una temporanea solidarietà per gli Stati Uniti ("Siamo tutti americani", aveva proclamato il titolo di prima pagina di un giornale della sinistra francese il giorno dopo gli attentati), nel mondo islamico la notizia dell’11 settembre fu accolta con danze nelle strade e grida di gioia. Nei loro sermoni, praticamente tutte le autorità religiose assicurarono i loro fedeli che, colpendo il "Grande Satana", Osama bin Laden si era comportato come un guerriero del jihad, in perfetta conformità con la volontà di Dio. Queste parole furono per così dire preannunciate in un dibattito sul tema "Bin Laden: la disperazione degli arabi e lo spettro degli americani", trasmesso da al Jazeera circa due settimane prima dell’11 settembre. L’espressione "lo spettro degli americani" era leggermente prematura (si trattava ancora di un periodo in cui pochi americani erano preoccupati dal terrorismo islamico), per la semplice ragione che praticamente nessuno aveva mai sentito il nome di bin Laden o di al Qaida. A ogni modo, alla fine del programma, il presentatore disse all’unico e isolato ospite che aveva denunciato bin Laden come terrorista: "Cerco tra le reazioni degli spettatori qualcuna che appoggi le vostre posizioni, ma… non ne trovo nessuna". Poi citò "un sondaggio d’opinione di un giornale kuwaitiano che dimostrava che il 69 per
cento dei kuwaitiani, degli egiziani, dei siriani, dei libanesi e dei palestinesi pensava che bin Laden fosse un eroe arabo e un guerriero del jihad islamico". Inoltre, sulla base dei sondaggi effettuati dalla sua rete televisiva, sostenne che tra tutti gli arabi, "dal Golfo Persico fino all’oceano atlantico", la proporzione di quelli che condividevano questa opinione era "probabilmente addirittura del 99 per cento"
Senza dubbio, quindi, il presidente dell’Associazione degli scrittori arabi siriani parlava in nome di milioni di suoi "fratellli" quando, poco dopo l’11 settembre, dichiarò che "quando sono crollate le Torri Gemelle (…) mi sono sentito come qualcuno che fosse appena resuscitato da una
tomba; mi sono sentito trasportato nell’aria sopra il cadavere del simbolo mitologico dell’arrogante potenza imperialista americana (…) I miei polmoni si sono riempiti d’aria, e ho respirato dolcemente come non avevo mai fatto prima". Se questa era stata la reazione generale del mondo arabo-musulmano all’11 settembre, che cosa ci si sarebbe dovuti aspettare quando gli Stati Uniti si sarebbero rimessi in piedi (poggiandoli su Ground Zero, per essere precisi) e avrebbero contrattaccato? Ciò che ci si poteva aspettare è stato esattamente quello che è avvenuto: un altro furioso scoppio di antiamericanismo. Soltanto che questa volta predominava non la gioia ma la disperata speranza che gli Stati Uniti subissero una qualche umiliazione. Speranza che fu presto cancellata
dalla rapida sconfitta del regime talebano in Afghanistan, ma poi immediatamente riaccesa da come Saddam Hussein sapeva resistere all’America. Saddam aveva ucciso centinaia di migliaia di musulmani in Iran, e innumerevoli arabi in Kuwait e nel suo stesso paese. Ovviamente, però, tutto questo era completamente trascurato dai suoi "fratelli" arabi e musulmani, orgogliosi della sua sfida contro gli Stati Uniti. Si poteva forse rintracciare un elemento di
questo stesso perverso atteggiamento nella facilità con cui milioni e milioni di europei davano di fatto aiuto e sostegno a questo mostro? Naturalmente si sosteneva che la maggior parte di questa gente non era né pro Saddam né antiamericana: tutto ciò che chiedevano era "give peace a chance".
Ma questa pretesa era smentita dagli slogan, dai discorsi e dai manifesti del partito della "pace". Per quanto l’odio nei confronti dell’America possa anche non avere permeato tutti gli oppositori dell’intervento militare americano, era certamente molto diffuso e profondo. E sebbene entrassero in gioco anche altre considerazioni (il sentimento pacifista la preoccupazione per le perdite civili, il disprezzo per Bush, la fiducia nelle Nazioni Unite), queste ultime
non avevano difficoltà ad accordarsi con un’estrema ostilità nei confronti degli Stati Uniti. Così, soltanto due mesi dopo l’11 settembre, un sondaggio su importanti personalità di ventitre paesi diversi ha fornito interessanti risultati, che un giornale inglese ha così riassunto: "L’America ha in qualche
modo attirato su di sé gli attentati terroristici di New York e Washington? (…) La maggior parte degli intervistati in tutti questi paesi stranieri (…) ritiene che, per certi versi, sia proprio così (…) Dai paesi suoi più stretti alleati in Europa, fino in medio cento ritiene positivo che, dopo l’11 settembre, gli americani si siano resi conto di esser vulnerabili". Sembrerebbe quindi che il commediografo italiano Dario Fo, vincitore nel 1997 del premio Nobel per la letteratura, incarnasse l’opinione europea in modo molto più ampio e profondo di quanto si fosse inizialmente creduto con questo suo proclama:
"I grandi speculatori sguazzano in un’econmia che ogni anno uccide decine di milioni di persone in condizioni di assoluta povertà; dunque, cosa significano 20.000 (sic!) morti a New York? Indipendentemente da chi ha compiuto il massacro, questa violenza è la legittima figlia della cultura
della violenza, della fame e dello sfruttamento dell’uomo". In Francia, un autorevole filosofo, Jean Baudrillard, ha elaborato un tipo leggermente diverso di apologia per i terroristi dell’11 settembre. Un’apologia così pesantemente contorta e intrisa di linguaggio postmoderno da sconfinare nella parodia ("Il crollo delle torri del World Trade Center è una cosa inimmaginabile, ma questo non è sufficiente per farne un evento reale"). Ma l’articolo di Baudrillard conteneva almeno una confessione rivelatrice: "Che noi stessi abbiamo sognato questo evento, che ognuno di noi lo abbia fatto, (…) è una cosa inaccettabile per la coscienza morale occidentale; ma è comunque un fatto (…) Ora al Qaida l’ha fatto, ma noi l’abbiamo voluto".

Le richieste e le accuse

Questa stessa idea, in termini ancora più diretti, fu espressa in Inghilterra da Mary Beard, professoressa di storia del mondo classico alla Cambridge University, la quale scrisse: "Per quanto si cerchi di presentarlo con tatto, il fatto rimane che gli Stati Uniti se la sono voluta (…) I presuntosi alla
fine la pagano". Su questo anche il famoso romanziere Martin Amis era d’accordo; ma poiché l’antica concisione inglese era evidentemente per lui fin troppo concisa, Amis è ricorso a qualche raffinato ritocco europeo per formulare il suo epitaffio sulle colpe dell’America: "Il terrorismo è comunicazione politica con altri mezzi. Il messaggio dell’11 settembre è questo: America, è giunto il momento che impari quanto profondamente sei odiata (…) Alcune delle tue più profonde caratteristiche nazionali (il senso di autonomia, un patriottismo molto più tenace che in qualsiasi paese europeo, una totale mancanza di curiosità per il mondo) hanno provocato un quasi completo disinteresse per le sofferenze degli altri popoli". Che diavolo stava succedendo? Dopo l’11 settembre, la maggior parte degli americani si era progressivamente resa conto che eravamo odiati dai terroristi che ci avevano attaccato e da tutti i musulmani che li sostenevano non per i nostri difetti ma per le nostre virtù in quanto paese libero e prospero. Ma perché ci odiavano anche milioni di persone che vivevano invece in paesi altrettanto liberi e prosperi? In quest’ultimo caso, probabilmente, doveva essere per colpa dei nostri peccati. E tuttavia, la maggior parte di noi sapeva con certezza che, quali che fossero i nostri peccati, non erano quelli di cui ci accusavano gli europei. Per dirlo in altre parole: ben lungi dall’essere una nazione di arroganti spacconi, chiedevamo umilmente il sostegno di piccoli paesi che avremmo potuto facilmente spingere via. Ben lungi dall’essere "unilateralisti", chiedevamo il permesso e la benedizione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu prima di intervenire militarmente contro Saddam Hussein. Ben lungi dal "correre verso la guerra", passavamo mese dopo mese a ballare un valzer diplomatico nella vana speranza di ottenere l’aiuto della Francia, della Germania e della Russia. E si potrebbe continuare ancora a lungo con questa lista.
Che cosa stava succedendo, allora? Una risposta a questa difficile domanda, poi ampiamente condivisa, fu data da Robert Kagan. Con una formula accattivante divenuta presto famosa, Kagan dichiarò che gli americani venivano da Marte e gli europei da Venere. Elaborando questa formula, Kagan
ha scritto: "Sulla questione cruciale della potenza – l’efficacia della potenza, la moralità della potenza, la desiderabilità della potenza – gli americani e gli europei hanno punti di vista differenti. L’Europa sta prendendo le distanze dalla potenza, o, per dirla in un’altra maniera, l’Europa sta andando oltre la potenza per entrare in un mondo autosufficiente, fatto di leggi e di regolamenti, di negoziati internazionali e di cooperazione. L’Europa sta entrando in un
paradiso post storico di pace e relativa prosperità, la realizzazione della kantiana ‘pace perpetua’. Gli Stati Uniti rimangono invece impantanati nella storia, continuando a esercitare la potenza in un anarchico mondo hobbesiano, in cui le leggi e le regole internazionali sono inaffidabili e dove la vera sicurezza, la difesa e lo sviluppo di un ordine liberale dipendono ancora dal possesso e dall’uso della forza militare". Con questa sua tesi, Kagan ha visto giusto in molte cose e ha gettato la giusta luce che abbia fatto calzare le scarpe della sua tesi nei piedi sbagliati. Per quanto accetti fino in fondo la presentazione di Kagan dei diversi atteggiamenti nei confronti della potenza militare, non sono d’accordo sul fatto che gli europei stiano già vivendo nel futuro e che gli americani siano ancora "impantanati" nel passato. A mio giudizio, è vero esattamente il contrario. Il "paradiso post storico" nel quale sarebbero a quanto pare entrati gli europei a me non sembra nient’altro che la rete delle istituzioni internazionali che sono state create alla fine della seconda guerra mondiale sotto la leadership degli Stati Uniti nella speranza che avrebbero promosso la pace e la prosperità. Tra queste istituzioni c’erano le Nazioni Unite, la Banca Mondiale, la Corte internazionale e molte altre ancora. Poi, dopo il 1947, e ancora sotto la guida degli Stati Uniti, si riorganizzarono alcune delle istituzioni già esistenti e se ne crearono di nuove (come la Nato) per adattarsi alle esigenza della terza guerra mondiale. Con la vittoriosa conclusione di questa guerra nel 1989-1990, il vecchio ordine internazionale divenne una cosa sorpassata, tanto che si comprese immediatamente che sarebbero stati necessari nuovi adattamenti per affrontare la nuova fase storica. Ma passò più di un decina d’anni prima che l’11 settembre delineasse infine i contorni della "era post guerra fredda" in modo sufficientemente chiaro per determinare quali adattamenti fossero necessari. Considerata da questo punto di vista, la dottrina Bush si presentava come un tentativo estremamente coraggioso per scardinare la struttura istituzionale e la strategia elaborata per combattere la terza guerra
mondiale. Ma era anche qualcosa di più: definiva anche un progetto per una nuova struttura e una nuova strategia adatta a combattere un diverso tipo di nemico in una guerra che era appena cominciata e che dava tutta l’apparenza di dovere continuare ancora a lungo. Di fronte a questa nuova realtà, Bush era giunto alla conclusione che ben pochi (e probabilmente nessuno) dei vecchi strumenti istituzionali erano capaci di sconfiggere questo nuovo nemico,
e che le strategie del passato erano altrettanto inutili contro il nuovo modo di combattere del nemico. Per entrare nel futuro, bisognava sostituire la deterrenza con la prevenzione, e contare più sulla potenza militare americana che sul "soft power" delle Nazioni Unite e di altri relitti della terza guerra
mondiale, o tantomeno sull’hard power della Nato (il cui raggio d’azione era stato specificamente ristretto al teatro europeo e il cui impiego in altri luoghi sarebbe stato ostacolato dai francesi). Considerate da questo stesso punto di vista, le giustificazioni date dagli europei per la loro opposizione alla dottrina Bush (le proteste sul suo "unilateralismo", ecc.) si rivelavano mere elucubrazioni sofistiche. Sotto questo aspetto, mi trovavo d’accordo con Kagan nel rintracciare la loro origine in un declino della potenza degli europei. Kagan lo aveva scritto in modo perfettamente chiaro: "La seconda guerra mondiale aveva completamente distrutto le nazioni europee come potenze globali (…) Rimpicciolita dalle due superpotenze che la circondavano, un’Europa indebolita rimase tuttavia il cruciale teatro strategico della lotta mondiale fra il comunismo e il capitalismo democratico (…) Per quanto priva di tutti i più tradizionali strumenti di una grande potenza, l’Europa continuava a essere il cardine della geopolitica mondiale, cosa che, insieme alla sua antica abitudine
alla leadership internazionale, le permetteva di mantenere un’influenza ben più profonda di quanto la sua potenza militare
le avrebbe in realtà consentito. Dopo la fine della guerra fredda, l’Europa ha perso la sua centralità strategica, ma ci sono voluti alcuni anni prima che la resistente immagine della potenza globale europea cominciasse a svanire) Fin qui tutto bene. Ma non ero d’accordo con Kagan circa la sua convinzione che gli europei avessero effettivamente compiuto il salto nel "paradiso kantiano" del futuro, postnazionale e postmoderno. A me sembrava evidente
che erano gli europei, e non noi americani, a essere rimasti "impantanati" nel passato. Gli europei combattevano accanitamente per impedire all’America il salto nel futuro proprio perché rimanere ancorati alle idee, alle strategie e alle istituzioni internazionali della guerra fredda gli avrebbe permesso di continuare ad esercitare "un’influenza ben più profonda di quanto la sua potenza militare gli avrebbe in realtà consentito". E’ stato George W. Bush, quel moralista "sempliciotto", quel cowboy dal grilletto facile, quell’affondatore del diritto internazionale e ostinato unilateralista, colui che ha avuto la capacità di vedere il futuro e che ha raccolto tutto il suo coraggio per entrarci dentro. Ma Bush è anche un politico, e come tale ha ritenuto necessario fare
alcune concessioni di fronte alle pressioni che venivano esercitate su di lui in patria e all’estero. Per far questo bisognava
fare ogni tanto qualche ritorno al passato. In queste occasioni, come quando ha cercato di ottenere l’approvazione del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Bush ha mostrato una buona dose di gentilezza e deferenza nei confronti di coloro che, in patria e all’estero, continuavano ad interpretare la dottrina Bush non come un progetto per il futuro ma come un arrogante ripudio dell’approccio sostenuto dagli apparentemente più raffinati europei
e dalle loro controfigure americane. "Gli europei insistono che il loro approccio ai problemi è più sofisticato e ricco di sfumature, perché cercano di influenzaregli altri in modo sottile e indiretto… Preferiscono di regola affrontare i problemi pacificamente, optando per il negoziato, la diplomazia e la persuasione piuttosto che per la coercizione. Per dirimere le controversie, sono più propensi a fare appello al diritto internazionale, agli accordi internazionali e all’opinione pubblica mondiale cercando di utilizzare i legami commerciali ed economici per tenere insieme le nazioni, spesso dando più risalto al processo che ai risultati, convinti che alla fine il processo possa diventare sostanza". Non che in tutto questo ci fosse qualcosa di nuovo: gli europei avevano espresso esattamente la stessa pretesa di superiore raffinatezza durante gli anni della presidenza
Reagan. A quel tempo, nel 1983, questa pretesa aveva provocato un perfetto commento di Owen Harris (l’ex capo della sezione per la strategia politica del
ministero degli Esteri australiano e membro della scuola realista): "Quando si sente questa pretesa di superiore realismo e raffinatezza, il primo impulso è quello di chiedere quali sono esattamente le prove. Se si considerano alcuni degli eventi critici della storia europea del Ventesimo secolo
(gli eventi che hanno portato allo scoppio della Prima guerra mondiale, la conferenza di pace di Versailles, il congresso di Monaco nel 1938, l’impegno che l’Europa era disposta a dare per garantire la propria difesa a partire dal 1948, e l’attuale atteggiamento circa la difesa dei suoi più vitali interessi nel golfo persico), non si è tanto facilmente portati a concederle questa superiorità". Vent’anni dopo, il realista Harris avrebbe certamente avuto profonde riserve sulla dottrina Bush. Ma non avrebbe esitato ad aggiungere la "raffinata" opposizione europea alla lunga lista dei giudizi disastrosamente sbagliati da lui stesso descritti nel 1983.

Realisti sognatori

Lo spettacolare successo delle campagne militari in Afghanistan e Iraq ha mandato all’aria lo scetticismo dei molti esperti convinti che avevamo inviato troppe poche truppe o che stavamo seguendo un piano di battaglia sbagliato. Invece di essere trascinati in un pantano, come questi esperti avevano previsto,le nostre forze portarono a termine queste due campagne a tempo di record. E invece di decine di migliaia di soldati americani morti, le perdite
si limitarono soltanto a qualche centinaio. Ecco come ha riassunto il significato della guerra in Iraq lo storico militare Victor Davis Hanson: "Nel giro di circa ha sottomesso un paese grande come la California. Ha completamente annientato le infrastrutture militari di Saddam Hussein… e ha distrutto i suoi eserciti. Delle circa 110 vittime americane, circa un quarto sono state causate da incidenti o da fuoco amico. Il numero sorprendentemente basso di perdite americane… non ha praticamente precedenti nella moderna storia militare". Effettivamente, il periodo immediatamente successivo alla fine delle principali operazioni militari, si è rivelato più difficile di quanto il Pentagono si aspettasse. Per colpa di un’insurrezione della guerriglia fomentata da una coalizione di intransigenti fedeli di Saddam, di milizie sciite radicali e di terroristi giunti dall’Iran e dalla Siria, i soldati americani hanno subito altre perdite. Ciononostante, da un punto di vista storico (basta pensare ai 6.500 morti nel solo giorno del D-Day durante la Seconda guerra mondiale) il numero
totale rimane straordinariamente basso. Ma non sono state le questioni militari quelle che hanno suscitato l’acido scetticismo dei realisti. I loro dubbi riguardavano piuttosto la questione se la dottrina Bush fosse politicamente praticabile. Soprattutto, mettevano in discussione la tesi secondo la quale la democratizzazione fosse il migliore e forse il solo modo per sconfiggere l’islam militante e il terrorismo. Bush aveva scommesso sulla fede
nell’universalità del desiderio di libertà e di prosperità. E se si fosse sbagliato a fare questa scommessa? Se il medio orientefosse in realtà incapace di avviare un processo di democratizzazione? E se la religione islamica fosse per sua stessa natura incompatibile con la democrazia? Queste erano domande di difficile risposta, alle quali le persone responsabili non si potevano tuttavia sottrarre. Però i sostenitori della scommessa di Bush avevanoanch’essi i propri dubbi sui dubbi dei realisti. I realisti sembravano essersi dimenticati che il medio oriente di oggi non era stato creato da Allah nel VII secolo,
e che l’ignobile dispotismo che ora vi predominava non era il risultato di qualche inesorabile processo storico mosso esclusivamente da forze culturali interne. Al contrario, praticamente tutti gli Stati di questa regione erano nati meno di cent’anni prima sulle macerie dello sconfitto
impero ottomano alla fine della Prima guerra mondiale. I loro confini erano stati disegnati dalle potenze vincitrici, l’Inghilterra e la Francia, spesso in modo
del tutto arbitrario, e le impotenti popolazioni di queste terre furono a lungo passate da un tiranno all’altro. Consapevoli di questa vicenda storica,
noi sostenitori della dottrina Bush ci domandavamo perché bisognasse considerare assiomatico che questi Stati avrebbero mantenuto costantemente la loro forma e perché la configurazione politica del medio oriente avrebbe dovuto restare eternamente al di fuori delle correnti democratiche che si stavano diffondendo in tutto il resto del pianeta.

La gioia della gente di Kabul

Ci chiedevamo anche se fosse realmente vero che i musulmani erano così diversi da tutti gli altri esseri umani, e che piacesse loro essere oppressi e uccisi da dei violenti tiranni, persino se questi tiranni si vestivano con gli abiti della religione e citavano versetti del Corano. E ci chiedevamo se i musulmani preferissero davvero essere poveri, affamati e senza casa anziché godere di quei comfort e di quelle comodità che in occidente sembrano così scontate che non ne siamo più nemmeno grati. E, infine, ci chiedevamo perché, seera davvero così, c’era stato un così grande scoppio di gioia e felicità tra la gente di
Kabul quando gli americani l’avevano liberata dai suoi oppressori talebani. D’accordo, era la risposta, ma che dire della popolazione irachena? Quasi tutti i
sostenitori dell’invasione, me compreso, avevano previsto che gli americani sarebbero stati accolti con fiori e sorrisi; invece le nostre truppe hanno incontrato odio e bombe. Ciononostante, e contrariamente all’impressione suscitata dai media, tutti i sondaggi dimostravano che la vasta
maggioranza degli iracheni ci dava il benvenuto ed era felice di essere stata liberata dalla violenta tirannia di Saddam Hussein. L’odio e le autobombe arrivano dallo stesso gruppo di combattenti del jihad che ci avevano attaccato l’11 settembre e che, a differenza degli scettici del nostro paese, avevano paura che gli Stati Uniti stessero davvero riuscendo a democratizzare l’Iraq. In effetti, questo era l’autentico segnale d’avvertimento lanciato dal leader terrorista Abu Musab al Zarqawi a resti di al Qaida ancora nascosti nelle grotte dell’Afghanistan: "La democrazia sta arrivando, e dopo non ci
sarà più alcuna giustificazione (per il terrorismo in Iraq)".
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