Per che cosa combattiamo - quarta parte
La recreduscenza della "sindrome del Vietnam" dopo l'11 settembre
Testata:
Data: 02/09/2004
Pagina: 2
Autore: Norman Podhoretz
Titolo: La quarta guerra mondiale. Quel che resta della "sindrome del Vietnam"
A pagina 2 Il Foglio di oggi, 02-09-04, pubblica la quarta parte del saggio di Norman Podhoretz "La quarta guerra mondiale", dedicata al perdurante effetto, nel mondo intellettuale "liberal" americano, della "sindrome del Vietnam".
Ritratto di una élite intellettuale che attribuisce all'America la colpa dell' 11 settembre e del terrorismo.
Ecco il pezzo:

La nuova dottrina Bush, sia come costruzione teorica che come pratico orientamento politico, non potrebbe essere più distante dalla cosiddetta "sindrome del Vietnam", ossia quella perdita di fiducia, accompagnata dalla diffusione delle tendenze neoisolazioniste e pacifiste in tutto il corpo politico americano (e soprattutto nelle istituzioni d’élite della cultura americana), che cominciò negli ultimi anni della guerra in Vietnam. Ho già fatto accenno alla somiglianza tra la dichiarazione della dottrina Truman sul fatto che era cominciata la terza guerra mondiale e la altrettanto importante dichiarazione della dottrina Bush sul fatto che l’11 settembre ha scatenato la quarta guerra mondiale. Ma per misurare fino in fondo la portata della dottrina Bush, intendo ora analizzare ancora un’altra dottrina presidenziale, quella elaborata da Richard Nixon alla fine degli anni sessanta con lo scopo specifico di affrontare la sindrome del Vietnam. A differenza di quanto si crede comunemente, il nostro intervento militare in Vietnam durante la presidenza Kennedy all’inizio degli anni Sessanta era stato sostenuto da ogni settore dell’opinione pubblica americana, con il coro guidato dai media d’élite e dal mondo accademico. All’inizio, in effetti, le sole critiche da parte dell’opinione pubblica riguardavano questioni tattiche. Dopo qualche tempo, però, quando alla Casa Bianca Lyndon B. Johnson aveva già sostituito Kennedy, cominciarono a essere sollevati dubbi sull’opportunità politica dell’intervento; e quando alla Casa Bianca era ormai salito Richard Nixon, veniva già accusato e diffamato il carattere morale degli Stati Uniti. Un grande numero di americani, che includeva anche molti di quelli che avevano sostenuto l’intervento durante gli anni di Kennedy, si aggiungeva ora alla piccola minoranza della sinistra che, a quel tempo, l’aveva denunciato di stupidità e immoralità, e sosteneva che la guerra in Vietnam si era trasformata da una follia in un crimine. Per questa nuova realtà politica la dottrina Nixon era un riluttante accomodamento. Poiché l’intervento in Vietnam durante le presidenze di Kennedy e Johnson aveva contribuito a minare il sostegno per la vecchia strategia di contenimento, Nixon (con il suo principale consigliere di politica estera, Henry Kissinger) pensò che andarcene dal Vietnam avrebbe viceversa potuto contribuire a creare la nuova strategia che era diventata necessaria. Per prima cosa, le forze americane sarebbero state ritirate dal Vietnam solo gradualmente, in modo da permettere ai sudvietnamiti di costruire un potere sufficiente per assumere la responsabilità della difesa del proprio paese. Il ruolo degli americani si sarebbe limitato al rifornimento di armi ed equipaggiamento. La stessa politica, opportunamente modificata a secondo delle circostanze locali, sarebbe stata applicata anche in tutte le altre regioni del mondo. In ogni principale regione, gli Stati Uniti si sarebbero d’ora in poi affidati a forze locali, anziché al proprio esercito, per contenere ogni aggressione di marca sovietica, o qualsiasi altro evento potenzialmente destabilizzante. Gli Stati Uniti avrebbero fornito le armi e altre forme di assistenza, ma la responsabilità della deterrenza e dei combattimenti sarebbe stata di altri. Su tutti questi punti, la nuova dottrina Bush contrasta nettamente con la vecchia dottrina Nixon. Invece di una ritirata, Bush ha proposto una ambiziosa strategia di intervento. Invece di contare su forze locali, Bush ha proposto un concreto impiego della nostra potenza militare. Invece di deterrenza e contenimento, Bush ha proposto la prevenzione e la necessità "di portare la lotta sul territorio nemico". E invece di preoccuparsi per la stabilità regionale, Bush ha proposto di destabilizzarla con un "cambio di regime". La dottrina Nixon doveva ovviamente accordarsi con la sindrome del Vietnam. Che dire invece della dottrina Bush? La nuova strategia politica e militare si accorda con l’atmosfera post 11 settembre? Senza dubbio, era questa l’impressione subito dopo gli attentati: anzi, l’impressione era così forte che un gruppo di giovani osservatori annunciarono quasi immediatamente la nascita di una nuova era nella storia americana. Ciò che il 7 dicembre 1941 aveva significato per il vecchio isolazionismo, proclamarono, l’11 settembre lo ha significato per la sindrome del Vietnam. Politicamente, la sindrome era finita e le ricadute culturali di quella guerra (tutti i danni causati dagli anni Sessanta e Settanta) sarebbero presto finite nella tomba. Il segno più evidente della nuova era lo si poteva vedere nel fatto che, ancora una volta, aveva ripreso ad onorare la nostra bandiera, ora sventolata da tutte le parti. Questa era la bandiera che, non molto tempo prima, i radicali della sinistra avevano tirato fuori soltanto per bruciarla. Ma, persino all’interno della sinistra più ostinata, alcune autorevoli personalità cominciarono a sforzarsi di fare qualcosa di simile a un saluto d’onore davanti alla bandiera americana. Era una scena che ricordava la risposta di alcuni comunisti alla soppressione da parte del nuovo regime sovietico della rivolta dei marinai, scoppiata a Kronstadt all’inizio degli anni Venti. Orrori molto più spaventosi sarebbero stati causati dai perversi recessi del regime stalinista; ma, essendo la prima di una lunga serie di atrocità che hanno frantumato l’illusione dell’Unione Sovietica, l’episodio di Kronstadt ne è diventato il simbolo per eccellenza. A suo modo, l’11 settembre ha avuto l’effetto di una Kronstadt all’incontrario per un certo numero di odierni radicali sollevare domande e dubbi su quella che uno di loro ha avuto l’onestà di definire la loro "inveterata sfiducia nella malvagia America". L’11 settembre ha riportato alla mente una poesia di W. H. Auden, scritta subito dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale e intitolata "1 settembre 1939". Per quanto esprimesse alcuni sentimenti ostili contro l’America (resti della fase comunista di Auden), i versi iniziali sono sembrati così evocativi dell’11 settembre che sono stati citati spesso nei primi giorni di questa nuova guerra: "Sono seduto in una bettola della cinquantaduesima strada, incerto e impaurito, mentre spirano le luminose speranze di un infimo e disonesto decennio" Il decennio al quale Auden si riferiva erano gli anni Trenta, e le luminose speranze riguardavano l’edificazione di un paradiso degli operai in Unione Sovietica. Il nostro "infimo decennio" sono stati gli anni Sessanta, e le sue ben meno luminose speranze riguardavano non un’edificazione (per quanto illusoria) ma una distruzione: la distruzione delle istituzioni che costituivano l’essenza dell’"American Way of Life". Infatti, in quegli anni, l’America era considerata il grande ostacolo che si frapponeva al progresso di tutti poveri della terra, compresi quelli che vivevano dentro i suoi confini.

Una nuova ondata di patriottismo

Quale "padre fondatore" del neoconservatorismo, che aveva rotto con la sinistra proprio perché indignato dalla sua "sfiducia nella malvagia America", ho naturalmente accolto a braccia aperte questa nuova ondata di patriottismo. Negli anni intercorsi dal giorno di quella rottura, sono rimasto sempre più colpito dalle virtù della società americana. Ora cominciavo a rendermi conto che l’America era un paese nel quale esistevano una libertà e una prosperità ben maggiori di quelle esistite in qualsiasi altro paese e in qualsiasi momento della storia. Mi accorsi che queste benedizioni avevano una diffusione ben maggiore di quanto persino gli utopisti più sognatori avevano mai osato immaginare. Capii che questo era un risultato straordinario, che dava agli Stati Uniti d’America un posto d’onore nell’albo delle grandi civiltà della storia mondiale. La nuova atmosfera di patriottismo mi sembrava quindi un segno di grande sanità intellettuale e di salute morale, e ho ardentemente sperato che durasse a lungo. Ma non riuscivo a condividere pienamente l’ottimismo di alcuni miei più giovani colleghi i quali pensavano che il mutamento avesse carattere permanente: che, come loro proclamavano esultando, nella politica e nella cultura americane nulla sarebbe più stato come prima. Come veterano delle battaglie politiche e culturali degli anni Sessanta, sapevo dalle mie stesse cicatrici quanto effimera poteva rivelarsi questa svolta, e quanto fosse vulnerabile alla minaccia di forze apparentemente insignificanti. A questo proposito, ero perseguitato in particolare da un ricordo. Quello di una sera del 1960, quando partecipai ad un incontro di radicali della sinistra su un tema che proprio allora stava cominciando ad emergere in superficie: la possibilità di un intervento militare americano in un lontanissimo posto chiamato Vietnam. Quella sera insieme a me c’era Marion Magid, un membro del mio staff di Commentary, di cui ero recentemente diventato direttore. Entrando nella vecchia sala conferenze di Union Square a Manhattan, Marion osservò le circa cinquanta persone che formavano il pubblico e mi sussurrò all’orecchio: "Ti rendi conto che ogni giovane in questa sala è una tragedia per la sua famiglia o per qualcun altro?" Il ricordo di questa battuta ha riportato in vita la sensazione di quanto poco promettente apparisse allora il futuro per quel trasandato pubblico. Nessuno si sarebbe mai immaginato che questi giovani ragazzi (e la generazione che da essi discende politicamente e culturalmente) sarebbero stati poi salutati come "i più informati, i più intelligenti e i più idealisti che questo paese abbia mai avuto". Queste parole, cosa ancora più incredibile, sarebbero state pronunciate da colui che il nuovo movimento considerava il vero e proprio cuore del mostro: vale a dire Archibald Cox, un professore della Harvard Law School e successivamente vice procuratore generale degli Stati Uniti. Analoghi elogi uscivano dalla bocca di genitori, insegnanti, uomini del clero, artisti e giornalisti. Ma ancora più incredibile è che le idee e gli atteggiamenti del nuovo movimento, ripuliti ma sostanzialmente immutati, nel giro di soli dieci anni sarebbero riusciti a sconvolgere completamente uno dei due maggiori partiti americani. Nel 1961, il presidente John F. Kennedy aveva enfaticamente proclamato che gli americani "erano pronti a pagare qualsiasi prezzo e a sopportare qualsiasi peso (…) per garantire la sopravvivenza e la vittoria della libertà". Nel 1972, George McGovern, candidato alla presidenza dal partito di Kennedy, ha impostato la sua campagna elettorale su questo slogan: "Come Home, America". Uno slogan che, in modo misterioso e inquietante, rifletteva l’etica di quel movimento ancora in gestazione al quale mi ero rivolto circa una decina d’anni prima.

I nuovi "Jackal Bins"

Ho richiamato questi ricordi per sottolineare due punti. Il primo è che il movimento radical degli anni 50 e dei primi 60 combatteva contro un avversario (o più precisamente contro il cosiddetto "establishment") che sembrava inattaccabile. Ciononostante (e questo è il secondo punto), con enorme stupore di quasi tutti, compresi gli stessi radical, il movimento ha continuato a soffiare fino a quando è riuscito a buttare giù la casa. Ecco un importante sviluppo ignorato praticamente da quasi tutti gli esperti e gli osservatori. Come ricorda bene John Roche, un politologo che allora lavorava alla Casa Bianca per l’amministrazione Johnson, citato in un articolo dell’editorialista Jimmy Breslin perché aveva derisivamente definito i radical come i "jackal bins" dell’Upper West Side. Come si è poi venuto a sapere, Roche aveva detto in realtà "jacobins": una parola talmente sconosciuta al suo intervistatore che non seppe fare di meglio che trascriverla come "jackal bins". E’ stato impiegato moltissimo inchiostro (io stesso ne ho usati litri e litri) nel tentativo di spiegare come e perché un grande "establishment" che godeva di un amplissimo consenso nazionale potesse essere stato rovesciato così facilmente e rapidamente da un gruppo alquanto piccolo e marginale come quello dei "jackal bins". Nel campo degli affari esteri, ovviamente, la risposta più consueta è il Vietnam. Secondo questo punto di vista, la decisione di combattere una guerra impopolare ha reso vulnerabile l’establishment. L’evidente difetto di questa spiegazione, per ribadirlo ancora una volta, è che, almeno fino al 1965, la guerra in Vietnam godeva dell’appoggio popolare. Tutti i più autorevoli media (dal New York Times al Washington Post, da Time e Newsweek, dalla Cbs alla Abc) sostenevano il nostro intervento. Lo stesso vale per il mondo accademico. E anche per l’opinione pubblica. Persino quando quasi tutti coloro che ci avevano spinto nel Vietnam, o che avevano applaudito l’intervento, cominciarono a ricredersi passare nello schieramento pacifista, l’opinione pubblica continuò a sostenere la guerra. Ma non importava. L’opinione pubblica non contava più nulla. Anzi, come ha dimostrato l’offensiva di Tet nel 1968, la stessa realtà aveva cessato di contare. Come alcuni cercarono già allora, ma invano, di dimostrare (e come tutti avrebbero in seguito ammesso), Tet non fu una schiacciante sconfitta per noi bensì per i nordvietnamiti. Ma bastava che Walter Cronkite la definisse una sconfitta per noi dalle telecamere della Cbs per farla diventare tale. Apparentemente, nella politica elettorale, dove i numeri sono decisivi, l’opinione pubblica continuava ad avere importanza. Di conseguenza, nessuna delle colombe che si candidarono alla presidenza nel 1968 e nel 1972 avrebbe potuto battere Richard Nixon. Tuttavia, persino Nixon ritenne necessario impostare la campagna elettorale sulla pretesa di avere un "piano" non per vincere la guerra ma per andarsene dal Vietnam. Tutto questo per dire che, sul Vietnam l’opinione dell’élite calpestava quella popolare. E gli effetti non si limitavano alla politica estera, ma si ampliavano nel nuovo atteggiamento ostile verso tutto ciò che l’America era e rappresentava. Non c’è bisogno di sottolineare che questo atteggiamento era di casa nel mondo degli artisti, in quello delle università, nonché in quello dell’informazione e dello spettacolo, dove dominavano gli intellettuali forgiatisi negli anni 60 insieme ai loro accoliti insediati nelle case editrici di New York e negli studios di Hollywood. Ma sarebbe un grave errore supporre che l’infiltrazione dell’atteggiamento accademic fosse confinato alla letteratura, al giornalismo e allo show business.

I nuovi "Jackal Bins"

Ho richiamato questi ricordi per sottolineare due punti. Il primo è che il movimento radical degli anni 50 e dei primi 60 combatteva contro un avversario (o più precisamente contro il cosiddetto "establishment") che sembrava inattaccabile. Ciononostante (e questo è il secondo punto), con enorme stupore di quasi tutti, compresi gli stessi radical, il movimento ha continuato a soffiare fino a quando è riuscito a buttare giù la casa. Ecco un importante sviluppo ignorato praticamente da quasi tutti gli esperti e gli osservatori. Come ricorda bene John Roche, un politologo che allora lavorava alla Casa Bianca per l’amministrazione Johnson, citato in un articolo dell’editorialista Jimmy Breslin perché aveva derisivamente definito i radical come i "jackal bins" dell’Upper West Side. Come si è poi venuto a sapere, Roche aveva detto in realtà "jacobins": una parola talmente sconosciuta al suo intervistatore che non seppe fare di meglio che trascriverla come "jackal bins". E’ stato impiegato moltissimo inchiostro (io stesso ne ho usati litri e litri) nel tentativo di spiegare come e perché un grande "establishment" che godeva di un amplissimo consenso nazionale potesse essere stato rovesciato così facilmente e rapidamente da un gruppo alquanto piccolo e marginale come quello dei "jackal bins". Nel campo degli affari esteri, ovviamente, la risposta più consueta è il Vietnam. Secondo questo punto di vista, la decisione di combattere una guerra impopolare ha reso vulnerabile l’establishment. L’evidente difetto di questa spiegazione, per ribadirlo ancora una volta, è che, almeno fino al 1965, la guerra in Vietnam godeva dell’appoggio popolare. Tutti i più autorevoli media (dal New York Times al Washington Post, da Time e Newsweek, dalla Cbs alla Abc) sostenevano il nostro intervento. Lo stesso vale per il mondo accademico. E anche per l’opinione pubblica. Persino quando quasi tutti coloro che ci avevano spinto nel Vietnam, o che avevano applaudito l’intervento, cominciarono a ricredersi e a passare nello schieramento pacifista, l’opinione pubblica continuò a sostenere la guerra. Ma non importava. L’opinione pubblica non contava più nulla. Anzi, come ha dimostrato l’offensiva di Tet nel 1968, la stessa realtà aveva cessato di contare. Come alcuni cercarono già allora, ma invano, di dimostrare (e come tutti avrebbero in seguito ammesso), Tet non fu una schiacciante sconfitta per noi bensì per i nordvietnamiti. Ma bastava che Walter Cronkite la definisse una sconfitta per noi dalle telecamere della Cbs per farla diventare tale. Apparentemente, nella politica elettorale, dove i numeri sono decisivi, l’opinione pubblica continuava ad avere importanza. Di conseguenza, nessuna delle colombe che si candidarono alla presidenza nel 1968 e nel 1972 avrebbe potuto battere Richard Nixon. Tuttavia, persino Nixon ritenne necessario impostare la campagna elettorale sulla pretesa di avere un "piano" non per vincere la guerra ma per andarsene dal Vietnam. Tutto questo per dire che, sul Vieta l’opinione dell’élite calpestava quella popolare. E gli effetti non si limitavano alla politica estera, ma siampliavano nel nuovo atteggiamento ostile verso tutto ciò che l’America era e rappresentava. Non c’è bisogno di sottolineare che questo atteggiamento era di casa nel mondo degli artisti, in quello delle università, nonché in quello dell’informazione e dello spettacolo, dove dominavano gli intellettuali forgiatisi negli anni 60 insieme ai loro accoliti insediati nelle case editrici di New York e negli studios di Hollywood. Ma sarebbe un grave errore supporre che l’infiltrazione dell’atteggiamento accademico fosse confinato alla letteratura, al giornalismo e allo show business. John Maynard Keynes disse una volta che "le persone pratiche convinte di non subire influenze intellettuali sono normalmente le schiave di qualche defunto economista". Keynes si riferiva in particolare agli uomini d’affari. Ma anche burocrati e amministratori sono soggetti alla stessa legge, sebbene tendano ad essere gli schiavi non di economisti ma di storici, sociologi, filosofi e romanzieri ancora vivi e vegeti pur se le loro idee sono già (o dovrebbero essere) morte e sepolte. Non è nemmeno necessario che le "persone pratiche" abbiano studiato le opere dei loro padroni, o addirittura che abbiano sentito parlare di loro. E’ sufficiente cheleggano il New York Times, che accendano il loro televisore, che vadano al cinema: a poco a poco, una forma più facilmente assimilabile dell’originale viene assorbita dalla loro testa e dal loro sistema nervoso. Questi, nel complesso, erano alcuni degli elementi che mi hanno fatto domandare se gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 sarebbero davvero stati capaci di rappresentare un autentico punto di svolta paragonabile a quello segnato dal bombardamento di Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941. Ero perfettamente consapevole del fatto che, prima di Pearl Harbor, c’erano radicali della destra che consideravano la guerra come una lotta tra due sistemi imperialistici ugualmente malvagi, con cui l’America non aveva nulla a che fare. Sotto l’influenza di questi gruppi, una grande maggioranza di americani si era opposta alla nostra entrata in guerra fino al giorno stesso dell’attacco giapponese su Pearl Harbor. Ma da quel momento in poi, l’opposizione scomparve. I gruppi contrari alla guerra persero quasi tutti i loro seguaci e si rinchiusero in un imbronciato silenzio, e l’opinione pubblica fece una svolta di 180 gradi.

L’élite intellettuale della sinistra

All’inizio, l’11 settembre sembrò assomigliare a Pearl Harbor per il suo effetto galvanizzante; la stessa prima battaglia della quarta guerra mondiale (quella contro l’Afghanistan) era, secondo tutte le indicazioni, sostenuta da un numero di americani persino maggiore di quello che aveva appoggiato inizialmente la guerra in Vietnam. Cionondimeno, sebbene ancora numericamente insignificante, nel 2001 l’opposizione era comunque molto più forte di quanto lo era stata nei primi tempi della guerra in Vietnam. La ragione stava nel fatto che essa aveva mantenuto uno stretto controllo su quelle istituzioni che, nelle fasi finali del Vietnam, erano state consegnate pezzo per pezzo alla sinistra antiamericana. C’era, innanzitutto, l’élite intellettuale, che poteva essere presa come simbolo del mondo artistico in generale. Le Twin Towers non avevano ancora fatto quasi in tempo a cadere che cominciò un’accesissima gara per la medaglia d’oro delle olimpiadi dell’antiamericanismo. Susan Sontag, una mia vecchia ex amica della sinistra, si piazzò subito in prima posizione con un articolo nel quale asseriva che l’11 settembre era stato un attacco "sferrato come consueguenza di specifiche alleanze e interventi dell’America". Non contenta di avere sostenuto che ci eravamo noi stessi tirati addosso l’aggressione, ha continuato paragonando il sostegno dato dal Congresso al nostro "robotizzato presidente" alle "banalità autocompiacenti e da tutti applaudite di un congresso del partito comunista sovietico". Un altro mio ex amico, Norman Mailer, stranamente lento all’inizio della gara, si portò presto nel gruppo di testa paragonando le Twin Towers a "due enormi zanne" e considerando le macerie di Ground Zero "ancora più meravigliose dei due grattacieli". Interpretando ancora, ormai ottantenne, la parte dell’enfant terrible, Mailer ci denunciò come "oppressori culturali ed estetici" del Terzo Mondo. In che cosa consisteva quest’oppressione? Consisteva, continuava Mailer, nel fatto che costruivamo "enclave del nostro cibo, come McDonald" e "grattaceli altissimi" attorno agli aeroporti delle "capitali più brutte e sporche del mondo". Per questi orrendi crimini l’11 settembre ci era stata somministrata una prima (e ancora piccola) dose di quello che ci meritavamo. Poi c’erano le università. Un rapporto pubblicato poco dopo l’11 settembre dall’American council of trustees and alumni (Acta) citava circa un centinaio di ignobili dichiarazioni uscite dai campus di tutto il paese, che si univano a quelle di Sontag e Mailer nell’addossare la colpa degli attentati non ai terroristi ma all’America. Ecco i tre esempi più significativi. Un professore dell’Universityof New Mexico: "Chiunque sia in grado di far saltare in aria il Pentagono si merita il mio voto". Un professore dell’Università di Rutgers: "Dobbiamo essere consapevoli del fatto che la causa principale dell’11 settembre è il fascismo della politica estera statunitense nel corso di ormai molti decenni". Infine, un professore della University of Massachusetts: "La bandiera americana è un simbolo di terrorismo, di morte, di paura, di distruzione e di oppressione". Quando fu pubblicato il rapporto dell’Acta, si sentirono canti di protesta contro il "maccartismo", soprattutto da parte dei già citati professori. Per non essere da meno di loro anche Sontag affermò che sentiva minacciata la sua libertà di stampa. Secondo questa peculiare interpretazione del Primo Emendamento,fortemente appoggiata da tutta la sinistra, loro erano liberi di dire tutto ciò che gli piaceva, ma il diritto della libertà di parola terminava laddove iniziavano le critiche contro le loro affermazioni. In realtà, tranne rare eccezioni, i tentativi di soffocare il dissenso nei campus erano diretti contro i molti studenti e i pochi professori che avevano appoggiato la guerra scatenata in risposta agli attentati dell’11 settembre. Questi tentativi possono essere riassunti in un’unica immagine: in un certo numero di campus, gli studenti e i professori che innalzavano la bandiera americana o altri simboli patriottici venivano costretti a toglierli. Quanto alla libertà di stampa che Sontag aveva dichiarato in pericolo, l’inchiostro del suo pezzo non aveva ancora fatto in tempo ad asciugarsi che lei era già diventata il soggetto di innumerevoli articoli, e la protagonista di interviste su periodici e televisioni di tutto il mondo.
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