Sharon erede del laburismo israeliano, il rapimento di Baldoni e gli interessi iraniani nell'instabilità irachena
notizie e analisi dal Medio Oriente
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Data: 25/08/2004
Pagina: 2
Autore: Emanuele Ottolenghi - un giornalista
Titolo: Il riposizionamento di Sharon, erede della migliore tradizione laburista - Le tracce del sequestro portano alla zona della "seconda Falluja" - Moqtada petroliere iraniano
Il Foglio di oggi, 25-08-04, pubblica a pagina 2 dell'inserto un analisi di Emanuele Ottolenghi sul disegno strategico del governo Sharon: "Il riposizionamento di Sharon, erede della migliore tradizione laburista"
Ecco il pezzo:

Sharon, da più di tre anni al potere, ha a parole contraddetto le aspettative degli osservatori internazionali. Ha utilizzato la forza in maniera misurata, mantenendo canali aperti con Arafat per il primo anno, decidendosi a lanciare un’offensiva militare solo dopo l’ennesima ondata di attentati a fine
marzo 2002. Tutte le operazioni militari sono state coordinate con l’Amministrazione americana, evitando scontri tra Israele e Stati Uniti. Ha fatto di tutto per creare e mantenere un governo di unità nazionale, che fallì
per colpa dei laburisti nell’ottobre 2002, e ora cerca, contro il volere del suo partito, di ricostituirlo. Ha perseguito una politica centrista su pace e sicurezza, demolendo i miti dell’ideologia revisionista della destra sionista cui il suo partito in parte si rifà. Ha accettato – lui che aveva sempre detto che la Giordania era l’unico Stato palestinese – la creazione di uno Stato palestinese, ha chiamato la presenza israeliana nei Territori "occupazione", ha sostenuto la necessità di "dolorose concessioni", il cui significato – la rinuncia a territori e insediamenti – è compreso da tutti in Israele, e ha adottato la politica dei laburisti, sostenendo il ritiro unilaterale da Gaza e lo smantellamento – ed è solo un inizio – di molti insediamenti. Detto questo, e sono parole pesanti, poco sul terreno è avvenuto. Sharon ha sì accettato la costruzione della barriera difensiva, ma, a differenza di chi a sinistra la voleva sulla linea verde, l’ha spinta a est, seguendo sia i consigli dell’establishment militare sia alcune considerazioni ideologico-strategiche. Se la battaglia con i gruppi più estremisti tra i coloni che creano abusivamente insediamenti in Giudea e Samaria, sperando che il governo non li rimuova, per il momento prosegue, ma il governo ha spesso chiuso un occhio,
a volte due, sugli insediamenti cresciuti come funghi, e questo nonostante gli obblighi della road map, che chiede di smantellare innanzitutto gli sparuti conglomerati di caravan e torri dell’acqua. Quanto agli altri insediamenti, il ministero dell’Edilizia, guidato da Tzipi Livni, vicina a Sharon e su posizioni pragmatiche, ha aperto una gara di appalti per nuovi appartamenti in quattro insediamenti in Cisgiordania, rafforzando i sospetti che Sharon voglia rimuovere coloni da Gaza per rimpinguarne la presenza in Cisgiordania. Il momento è propizio, visto che la virata dell’Amministrazione Bush in medio oriente ha sottoscritto anche questo passo ulteriore, confermando gli impegni presi da Bush il 14 aprile, allorché il presidente americano, nell’accogliere il piano di disimpegno da Gaza, riconobbe per il futuro la permanenza, sotto sovranità israeliana, di alcuni insediamenti in Cisgiordania. Ma il passo getta ombre sull’apparente politica centrista del premier. Molti commentatori e diplomatici, colti di sorpresa dal ritiro annunciato, sottolineano come occorra sostenere la svolta pragmatica del premier e come essa non contraddica la road map (il che è vero), affinché il disimpegno da Gaza riapra l’orizzonte politico tra palestinesi e israeliani. Di fronte all’annuncio israeliano di nuove costruzioni nei territori gli stessi commentatori e diplomatici hanno condannato il gesto, visto come o una concessione alla destra del Likud per tenerne a bada l’opposizione al ritiro o come una ricaduta del premier in pericolose abitudini, indice del fatto che il piano sia un bluff. Bluff difficile da dimostrare, visto che Sharon ha sfidato ripetutamente le ire del suo partito, perdendo pure la maggioranza del suo governo pur di portare avanti il piano, e sta anche creando la struttura amministrativa per rendere operativo il piano. Il premier segue con coerenza una linea. Negli ultimi tre anni ha riconosciuto l’impossibilità di evitare la nascita di uno Stato palestinese e l’indifendibilità di una presenza israeliana in tutti i territori. Così ha puntato non ad abbracciare la linea della sinistra, ancora convinta, nonostante il fallimento di Oslo e l’Intifada, che coi palestinesi si possa giungere a un accordo, ma a cercare una via di mezzo. Dei palestinesi non si fida, ma sa che la comunità internazionale è dalla loro. Non crede nell’abilità dei palestinesi
di creare una leadership più pragmatica di quella attuale, compromessa dal terrorismo e dal massimalismo incapace di accettare Israele. Sa di non poter difendere a oltranza tutti gli insediamenti. Sceglie quindi una strategia di riposizionamento, lungo confini che permettano a Israele di porre fine all’occupazione dei centri palestinesi e di sottrarre al dominio israeliano la bomba palestinesi e israeliani. Di fronte all’annuncio israeliano di nuove costruzioni nei territori gli stessi commentatori e diplomatici hanno condannato il gesto, visto come o una concessione alla destra del Likud per tenerne a bada l’opposizione al ritiro o come una ricaduta del premier in pericolose abitudini, indice del fatto che il piano sia un bluff. Bluff difficile da dimostrare, visto che Sharon ha sfidato ripetutamente le ire del suo partito, perdendo pure la maggioranza del suo governo pur di portare avanti il piano, e sta anche creando la struttura amministrativa per rendere operativo il piano. Il premier segue con coerenza una linea. Negli ultimi tre anni ha riconosciuto l’impossibilità di evitare la nascita di uno Stato palestinese e l’indifendibilità di una presenza israeliana in tutti i territori. Così ha puntato non ad abbracciare la linea della sinistra, ancora convinta, nonostante il fallimento di Oslo e l’Intifada, che coi palestinesi si possa giungere a un accordo, ma a cercare una via di mezzo. Dei palestinesi non si fida, ma sa che la comunità internazionale è dalla loro. Non crede nell’abilità dei palestinesi di creare una leadership più pragmatica di quella attuale, compromessa dal terrorismo e dal massimalismo incapace di accettare Israele. Sa di non poter difendere a oltranza tutti gli insediamenti. Sceglie quindi una strategia di riposizionamento, lungo confini che permettano a Israele di porre fine all’occupazione dei centri palestinesi e di sottrarre al dominio israeliano la bomba demografica palestinese. Il riposizionamento esclude gli insediamenti isolati in Cisgiordania e Gaza, per la densità demografica, ma include i maggiori insediamenti attorno a Gerusalemme e lungo la linea verde. Sharon non ha mai creduto nella possibilità di una vera pace. La strategia palestinese
degli ultimi quattro anni ha confermato l’incapacità della leadership dell’Anp di abbandonare la violenza e assumere un ruolo costruttivo. Sharon, nel consolidare i confini d’Israele lungo linee difensive ottimali, è riuscito a portare al tracollo la leadership palestinese, favorendo un intervento di Giordania ed Egitto. Sembra prospettarsi un ritorno alla realtà pre 1967, dove a governare Gaza ci sarà l’Egitto e su parte della Cisgiordania il regno hashemita, con due differenze: Israele avrà migliorato i suoi confini, mentre esistono trattati di pace con Egitto e Giordania che favoriranno la cooperazione
trilaterale, e ai palestinesi, incapaci di cogliere l’attimo offerto loro a Camp David, non rimarrà che accettare di tornare a vivere sotto il dominio dei vicini arabi. Se la manovra funzionerà, Sharon sarà riuscito a impedire la nascita di uno Stato palestinese, a porre fine all’occupazione dei territori, a smantellare insediamenti inutili, consolidandone, insieme a confini e cruciali risorse idriche, altri. Né ideologo né revisionista pentito, né bluff né furbizie: Sharon rimane un falco pragmatico e realista, nel solco della miglior
tradizione laburista israeliana.
In prima pagina l’articolo « Le tracce del sequestro portano alla zona della "seconda Falluja"», sul sequestro, ormai certo, del giornalista italiano Enzo Badaloni.
Baghdad. Enzo Baldoni, il free lance italiano scomparso giovedì scorso, è stato rapito e ora appare in un video girato dai suoi sequestratori, mandato in onda ieri dalla televisione araba al Jazeera. Nelle immagini sembra in buone condizioni fisiche e con lo sguardo tranquillo. Legge un comunicato preparato dai rapitori in inglese: "Sono Enzo Baldoni vengo dall’Italia, ho 56
anni e lavoro come scrittore e giornalista, occupandomi di cose che riguardano il sociale. Collaboro con la Croce rossa per aiutare i bisognosi, sono venuto in Iraq per scrivere un libro sulla resistenza irachena". In sovrimpressione sono state montate altre immagini con scritte in arabo e il simbolo del gruppo terrorista: la mappa dell’Iraq sovrastata da un kalashnikov. Il filmato
continua con le riprese dei document del rapito, come il passaporto e la tessera dell’Ordine dei giornalisti. Il sequestro è stato rivendicato dall’Esercito islamico dell’Iraq, che ha inviato ad al Jazeera anche un comunicato in cui pone un ultimatum al governo Berlusconi, chiedendo il ritiro delle truppe dal paese. "Non garantiamo la sicurezza dell’italiano – si legge nel comunicato – e non salveremo la sua vita se l’Italia non risponderà entro 48 ore, annunciando il ritiro delle sue truppe dall’Iraq". Palazzo Chigi ha già fatto sapere che si sta impegnando per salvare Baldoni, ma non intende accettare il ricatto, ritirando il contingente da Nassiriyah. "Siamo impegnati
per ottenere il risultato di far tornare in libertà il signor Baldoni – si legge nella nota governativa – che si trova in Iraq per la sua attività privata di giornalista e quindi assolutamente non collegato al nostro governo. Lo faremo mantenendo gli impegni assunti con il governo provvisorio iracheno legittimato da una risoluzione del Consiglio di sicurezza adottata all’unanimità nello scorso giugno. Continueremo, quindi, la nostra presenza militare e civile nell’ambito del quadro stabilito da tale decisione dalle Nazioni Unite, per contribuire al ristabilimento della sicurezza e dell’ordine pubblico, condizioni indispensabili per l’azione di assistenza umanitaria che vede l’Italia in prima linea, e al processo politico, delineato dalle Nazioni Unite al fine di consentire lo sviluppo di un Iraq sovrano e libero". Il rapimento del free lance non è il primo compiuto dal gruppo terroristico. L’Esercito, o Gruppo islamico dell’Iraq, aveva già rivendicato, l’8 agosto, il sequestro del diplomatico iraniano, Fereydoun Jahani, sparito il 4 agosto sulla strada da Baghdad a Kerbala, dove l’Iran aveva appena aperto un consolato.Ancora prima aveva rapito un lavoratore filippino, riuscendo a ottenere il ritiro del piccolo contingente di Manila dall’Iraq. I sequestratori hanno anche brutalmente giustiziato due ostaggi pachistani accusati di lavorare per le truppe americane. Non si sa molto di questa nuova formazione terrorista, ma nel 2001 un Gruppo islamico dell’Iraq si era formato in Kurdistan e faceva parte della costellazione fondamentalista alla quale aveva aderito Abu Musab al Zarqawi, il terrorista legato ad al Qaida, ricercato numero uno. Il gruppo fece anche da mediatore fra le milizie curde, che combattevano contro il Jund al Islam, la formazione infiltrata da Zarqawi e da numerosi combattenti arabi addestrati in Afghanistan. Gli americani cancellarono le loro basi con bombardamenti a tappeto, ma i sopravvissuti confluirono nelle nuove cellule del terrore messe in piedi da Zarqawi per continuare la lotta anti americana, dopo il crollo del regime di Baghdad. Il ruolo di Ghareeb, la guida uccisa il 3 agosto, poco prima di entrare in Iraq, Baldoni ha scritto nel suo diario su Internet: "L’amico che mi aveva assicurato un posto sull’aeroplanino delle Ong per Baghdad mi dice che le cose sono cambiate e non può più farlo. Mi suggerisce una traversata in auto. Non ci penso neanche di striscio: in
auto si passa per Fallujah. Lì c’è al Zarqawi: non aspetta altro che un ostaggio prezioso per alzare il livello del ricatto. E’ a Fallujah che hanno preso i quattro ostaggi italiani. Ed è un po’ che riescono a beccare soltanto
degli sfigati camionisti pachistani, egiziani o filippini". In realtà, tutto lascia pensare che il rapimento sia avvenuto giovedì o venerdì scorso a sud di Baghdad, non molto distante dalla capitale, mentre Baldoni stava rientrando verso la città dopo l’ennesimo e pericoloso blitz a Najaf, teatro di duri scontri fra americani e guerriglieri sciiti. Il cadavere carbonizzato della sua guida, Ghareeb, sarebbe stato trovato a una cinquantina di chilometri da Baghdad. L’interprete e Gli italiani in Iraq autista di Baldoni era un palestinese con ottime entrature fra i guerriglieri, soprattutto sunniti. In aprile, organizzava miniconvogli che da Baghdad riuscivano a rompere l’assedio di Fallujah, trasportando viveri e medicinali. Ghareeb parteggiava apertamente per la causa della "resistenza" irachena e spesso imbarcava nei suoi pericolosi viaggi sia pacifisti sia giornalisti pronti a tutto. Nonostante ciò, come scrive sul suo blog il reporter rapito, Ghareeb aveva ben presente che la guerriglia è divisa fra moderati, pronti a negoziare, e radicali, che puntano
soltanto a uccidere o a rapire qualsiasi infedele straniero. Il cadavere di Ghareeb si trova ora presso l’obitorio dell’ospedale al Iskandaria, nella cittadina di al Latifiyah. Da tre-quattro mesi, quest’area che si estende fino ad al Mahmudiyah è diventato un altro triangolo del terrore, soprannominato "la seconda Fallujah". Agli inizi di maggio due giornalisti polacchi erano stati giustiziati a bordo di un veicolo, che aveva la scritta "Press" (stampa) in evidenza. Uno dei due era il famoso reporter di guerra di Varsavia, Waldemar Milewicz. Poche settimane dopo, una sorte ancora peggiore era toccata a due giornalisti giapponesi, bruciati vivi nel loro fuoristrada finito in un agguato.
Uno dei corpi era stato trovato a una decina di chilometri di distanza. Negli ultimi mesi, infine, sono sorti in questa zona gruppi di fuoco che attaccano
le stazioni di polizia e seminano il terrore, rapinando anche gli iracheni di passaggio. Un mese fa, ad al Mahmudiyah, uomini armati hanno distribuito un volantino, che ordinava alla popolazione di non collaborare con il governo e di non avvicinarsi alle stazioni di polizia. Non soltanto: le donne che uscivano di casa dovevano portare rigorosamente il velo e le parabole satellitari, che permettono di collegarsi alle televisioni occidentali, dovevano essere smantellate. Proclami simili, in stile talebano, erano stati emessi dai fondamentalisti del Kurdistan, prima del crollo del rais Saddam Hussein.
Oltre a ex membri del Baath, il partito al potere con Saddam e uomini dei servizi del dittatore, nella zona operano cellule terroristiche di Ansar al sunna, uno dei gruppi che farebbe riferimento ad al Zarqawi. Oltre che da gruppi politicizzati, l’area è infestata da bande di criminali, che potrebbero sequestrare un occidentale per puntare un lauto riscatto, oppure venderlo a un’altra banda o ai terroristi.
A pagina 3 il breve articolo "Moqtada petroliere iraniano" sottolinea i consistenti vantaggi economici che derivano al regime di Teheran dall'instabilità irachena.
L’Iran degli ayatollah sembra trarre qualche beneficio dall’instabilità del vicino Iraq. La situazione a Baghdad è una delle cause, anche se non la sola e sicuramente non la più incidente, del vertiginoso aumento del prezzo del greggio, giunto in questi giorni a sfiorare la soglia dei 50 dollari al barile per poi ridiscendere. Il ministro iraniano del Petrolio, Bijan Namdar Zanganeh,
ha infatti dichiarato la scorsa settimana che l’alto prezzo del greggio, tenendo
conto dell’aumento delle entrate derivanti dalle esportazioni, è un beneficio per l’Iran. Secondo il quotidiano libanese Daily Star, le autorità iraniane hanno spiegato che i proventi del petrolio hanno toccato gli otto miliardi di dollari, un miliardo in più rispetto alle stime, proprio mentre i mercati
erano in allarme per la difficile situazione irachena, creata dall’oscillante sorte di Moqtada al Sadr, sapientemente mosso da Teheran, e delle sue milizie nei luoghi sacri di Najaf. L’Iran, il secondo maggior produttore di petrolio all’interno dell’Opec, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio,
ha una capacità che supera oggi i 3,9 milioni di barili al giorno e punta a raggiungere una produttività di 4,3 milioni di barili. Le entrate di cui beneficerebbe momentaneamente l’Iran andrebbero a curare la forte inflazione e il tasso di disoccupazione che si trova ora al 13 per cento. L’inviato iraniano all’Opec, Hossein Kazempour Ardebili, ha previsto che il prezzo del greggio continuerà a crescere e per questo, dice, non esiste nessun motivo per il quale il paese debba aumentare la sua produzione giornaliera. "L’Opec non può fare
nulla per la situazione attuale, perché la situazione non ha nulla a che vedere con l’Opec e più i membri producono, più aumenterà la riserva globale".
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