Mettere gli insediamenti fuorilegge, non leggere Fiamma Nirenstein
sfogliando i giornali della domenica
Testata:
Data: 24/08/2004
Pagina: 2
Autore: Michele Giorgio - Pietro Ignazi - Mario Sznajder
Titolo: Bush benedice le colonie israeliane - Vedi alla voce antisemitismo
Michele Giorgio sul Manifesto di ieri, 22-08-04, firma l'articolo "Bush benedice le colonie israeliane. L'appello ad accettare le "realtà demografiche", rivolto ad aprile dal presidente americano ai palestinesi e le garanzie date a Sharon sul diritto di Israele ad annettere gli insediamenti più più popolosi, secondo Giorgio
fecero scandalo almeno tra coloro che credono ancora alla legalità internazionale
In realtà il diritto internazionale è quanto meno controverso sulla questione degli insediamenti: la Convenzione di Ginevra ammette l'insediamento di civili in territori occupati, in ragione di necessità strategiche, e le risoluzioni Onu considerano i territori "contesi", non occupati.
L'idea che le colonie siano illegali risponde al rifiuto di una soluzione negoziale del conflitto israelo-palestinese: Israele dovrebbe lasciare i territori, conquistati in una guerra difensiva, senza contropartite, come un criminale cui si ingiunge di di non violare la legge.

La Domenica del Sole 24 Ore, supplemento culturale settimanale del quotidiano economico, nel numero datato 22-08-04 pubblica una velenosa recensione del libro di Fiamma Nirenstein "Gli antisemiti progressisti", a firma di Piero Ignazi e Mario Sznajder. Se la spocchia fosse un argomento Ignazi e Sznajder, che iniziano la loro recensione lamentando la "prosa fallaciana" e il "furore sacro" della giornalista e consigliandole, in sostanza, di limitarsi a fare la cronista lasciando le analisi a menti più lucide e capaci di prose più raffinate (o presunte tali), avrebbero ragione senza alcuna difficoltà di qualsiasi interlocutore. Poichè invece non lo è, conducono un attacco ad armi spuntate, la cui unica posibile efficacia potrebbe essere di convincere qualcuno, prono alle intimidazioni dei conformismi culturali, a non leggere "Gli antisemiti progressisti".
Secondo i due docenti universitari il libro, che allinea una sterminata quantità di fatti a sostegno delle sue tesi, è carente proprio nel riferimento ai fatti. Per dimostrare questo assunto, cui nessuno che abbia abbia letto il saggio potrebbe credere, Ignazi e Sznajder si producono in argomentazioni di questo tenore:

Ricordare i Mig e i Mirage che combattono nel cielo sopra il suo kibbutz nella guerra del 1967 è una bellissima immagine, nutrita però di un po' di immaginazione perchè ci voleva una grande competenza per distinguere a quelle altezze e a quelle velocità i due tipi di aerei...
Ma bastava sapere che Israele schierava i Mirage e la Siria i Mig per capire che quella battaglia avveniva fra i due velivoli...
Oppure:

Anche un controllo sulle risoluzioni Onu avrebbe evitato alcune confusioni visto che invece della 242 si cita la 282 che in realtà riguarda l'Angola
Una volta, mentre in varie altre occasioni si cita la 242: è dunque evidente che quell'unico errore è un refuso.
Le tesi del libro sono poi liquidate con argomenti di autorità: Arafat non preparava l'Intifada prima di Oslo perchè lo dicono Yezyd Saygh in un suo libro e Amos Malka. Ma se come autorità prendiamo invece il generale Amod Gilad, anch'egli dirigente dell'intelligence, che sostiene l'opposto, e il ministro delle comunicazioni dell'Anp all'inizio dell'intifada,che ne ha pubblicamente rivendicato l'organizzazione (il che assomiglia abbastanza a un dato empirico, anche se non smentisce la tesi della Nirenstein ; come secondo Ignazi e Sznajder, che non ne citano per altro nessuno, dovrebbero fare i dati empirici) , le conclusioni saranno ben diverse. La

sorprendente affermazione che "la dimensione territoriale non è quella decisiva del conflitto"
è falsa semplicemente perchè
la rivendicazione di uno Stato autonomo palestinese, come in tutti i processi di nation-building, è alla base di tutta la tormentata vicenda.
Ma la Nirenstein dedica pagine e pagine del suo libro a spiegare perchè e come il rifiuto di Israele e la volontà di distruggerlo siano diventate più importanti per i palestinesi delle loro rivendicazioni nazionali. A questo si deve, secondo il suo motivato giudizio, il fallimento del processo di pace.
Ignazi e Sznajder non hanno però bisogno di fornire motivazioni a sostegno della loro tesi. Siccome l'affermazione della Nirenstein è "sorprendente" e contrasta con quello che avviene in "tutti processi di nation-building", ritengono di non avere l'onere di tentarne una confutazione.
Analogamente, per contrastare le accuse di antisemitismo alla comunità internazionale e alla sinistra europea, documentate con decine di esempi, i due distratti recensori pretenderebbero di cavarsala scrivendo:

In realtà, solo se si confonde la critica a un governo con l'ostilità a un popolo si può arrivare a formulare una tale accusa
Ma questo non è che un modo di evitare di entrare nel merito: la Nirenstein sostiene appunto che si è ampiamente superato il livello delle legittime critiche a un governo e documenta la sua affermazione (Sharon rappresentato in una vignetta come il Ciclope di Goya che divora uomini, domanda ad esempio, è una legittima critica o dimostra un sovrappiù di odio patologico?). Per risponderle si sarebbe dovuto contestare analiticamente questa affermazione, non una che non ha mai fatto (critiche a Sharon = antisemitismo)
Proprio l'esempio principe del supposto antisemitismo della sinistra italiana - una lettera aperta di critica di universitari bolognesi - dimostra l'assurdità dell'equazione in quanto quelle critiche sono condivise da tanta parte dell'opinione pubblica israeliana.
Il che, anche se fosse vero, non dimostrerebbe nulla: il punto è se quelle critiche sono equilibrate e legittime o palesemente malevole e abnormi e il numero, non elevatissimo, degli israeliani che le condividono non dice niente su questo.
Non si vede poi perchè, tra i vari citati dalla Nirenstein, Ignazi e Sznajder scelgano proprio questo come "esempio principe".
E' vero che uno è docente a Bologna e l'altro Visiting Scholar alla stessa Uiversità, ma tale circostanza non autorizzerebbe di per sè a credere che l'universo ruoti intorno a quel pur prestigioso ateneo.
Alcune affermazioni di Ignazi e Sznajder, poi, semplicemente non sono vere. Non è vero, ad esempio, che l'autrice del libro riconosca la propria "eccessiva identificazione con uno dei due attori in campo"
E non è vero che il libro presenti Israele come un "blocco monolitico e coeso, tutto in favore della politica di Sharon", anzi, in più punti mostra il pluralismo e l'articolata vita democratica del paese. Quello che non sfugge a Fiamma Nirenstein, ed è al contrario ignorato da Ignazi e Sznajder, è come sia proprio l'"invidiabile grado di libertà e democrazia " di cui gode a rendere Israele così odiato: dalle dittature laiche e teocratiche del Medio Oriente, dai movimenti islamisti, e anche da una sinistra europea ancora infettta, al di là di ogni revisione superficiale, e nonostante la rassicurazione di Ignazi e sznajder che "nel 1967 non tutta - o quasi - la gioventù italiana era comunista" dal virus totalitario del comunismo.
Nelle convinzioni o nei comportamenti, tra i quali bisognerebbe annoverare la prassi di tentare il discredito degli avversari attraverso la manipolazione dei fatti, invece di prenderne seriamente in considerazine le tesi e le ragioni.

Di seguito riportiamo integralmente l'articolo:

Quando fiamma Nirenstein va nel campo profughi palestinese di Jenin a fare un’inchiesta offre al lettore un avvincente reportage ed esprime al meglio le sue capacità; quando invece passa al taglioa analitico e si inerpica su un sentiero a metà tra l’autobiografia, il pamphlet politico e il saggio storico-politico allora nascono i problemi. Innanzitutto di stile.
Pervasa dal furore sacro della sua missione di smascherare «la forma nuova di un odio antico», come recita il sottotitolo del libro, l’autrice inciampa in una prosa fallaciana dove si alternano slanci lirici e invettive feroci: dal piacere di «uscire nel vento sola e libera» all’ammirazione per Israele e stati Uniti «di cui sono abbaglianti la forza e l’equilibrio», da «quel cretino dell’artista israeliano» al «suicidio morale dell’Occidente». Ma al di là dello stile, i veri problemi in questo libro riguardano l’analisi del conflitto israelo-palestinese e delle reazioni che esso ha suscitato nel mondo. Innanzitutto, una maggiore attenzione ai fatti non avrebbe nuociuto, soprattutto quando ci si avventura sul terreno strategico militare. Ricordare i Mig e i Mirage che combattono nel cielo sopra il suo kibbutz nella guerre del 1967 è una bellissima immagine, nutrita però di un po’ di immaginazione perché ci voleva una grande competenza per distinguere a quelle altezze e quelle velocità i due tipi di aerei… E nemmeno si può sostenere che i siriani « poterono tagliare la Galilea» in quanto vennero fermati subito dall’esercito israeliano (il quale, tra l’altro non possedeva ancora i nagmash, mezzi di trasporto truppe, introdotti solo negli anni successivi).
Anche un controllo sulle risoluzioni Onu avrebbe evitato alcune confusioni, visto che invece della 242 si cita la 282, che in realtà riguarda l’Angola. Entrando poi nel merito del conflitto israelo-palestinese alcune osservazioni lasciano perplessi in quanto dettate da un eccessiva identificazione con uno dei due attori in campo (come la stessa autrice a un certo punto riconosce). Ad esempio, l’accusa ad Arafat di aver rifiutato perché preparava la seconda intifada non regge all’evidenza empirica (si veda il saggio Yezyd Sayigh, Arafat and the anatomy of a revolt « Survival», 2001. Persino Amos Malka, ex capo dei sevizi di sicurezza israeliani, ha dichiarato che non ci sono prove della preparazione militare della rivolta mentre ha sottolineato il diffuso scontento, anche nei confronti della dirigenza dell’autorità palestinese che da tempo montava nella popolazione.
Lo stesso vale per la sorprendente affermazione «la dimensione territoriale non è quella decisiva nel conflitto» israelo-palestinese, laddove invece la rivendicazione di uno Stato autonomo palestinese, come in tutti i processi di nation-building, è alla base di tutat la tormentata vicenda. Eppoi, come si fa adire che il «diritto all’autodeterminazione dei popoli, che è alla base di tutta l’ideologia dell’Onu, non è mai valso per Israele (pagina 85) quando invece, come riconosce in altre parti l’autrice, esso deve la sua nascita proprio all’Onu?». Gli strali più acuminati dell’autrice sono comunque indirizzati verso la comunità internazionale e la sinistra europea, che sarebbero portatrici di un nuovo antisemitismo. In realtà solo se si confonde la critica a un governo con l’ostilità a un popolo si può arrivare formulare una tale accusa. Proprio l’esempio principe del supposto antisemitismo della sinistra italiana – una lettera aperta di critica di universitari bolognesi – dimostra l’assurdità dell’equazione in quanto quelle critiche sono condivise da tanta parte dell’opinione pubblica israeliana. Israele, che l’autrice presenta come un blocco monolitico e coeso, tutto a sostegno della politica di Sharon, è invece percorso da una serie di continue manifestazioni, appelli, ricorsi alla Corte, lettere di protesta di ufficiali dell’aviazione: a dimostrazione del suo invidiabile grado di democrazia e libertà. La passione che anima l’autrice la porta spesso sopra le righe mentre una maggiore ponderatezza e attenzione ai fatti sarebbe stata la benvenuta. E infine, gentile Nirenstein, si tranquillizzi nel 1967 non tutta – o quasi – la gioventù italiana era comunista (pag 55), come lo era lei; a cominciare da chi scrive.
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