Sharon e Arafat: "vite parallele"... di un dittatore terrorista e di un leader democratico
l'impossibile equivalenza del quotidiano della Margherita
Testata:
Data: 20/08/2004
Pagina: 3
Autore: Filippo Cicognani - Carlo Maria Miele
Titolo: Sharon e Arafat, vite parallele al tramonto - Dopo lo schiaffo del Likud Sharon rischia elezioni anticipate
Su EUROPA di oggi, 20-08-04, Filippo Cicognani firma a pagina 3 l'articolo "Sharon e Arafat, vite parallele al tramonto", che stabilisce un'impropria analogia tra la crisi del regime di Arafat e le difficoltà di un leader democratico come Sharon. La frase conclusiva, poi, ripropone lo stereotipo dei "duellanti" incapaci di portare la pace. In realtà la tesi dell'equivalenza tra Arafat e Sharon è smentita dalla stessa materia trattata dall'aerticolo: Sharon è in conflitto con il suo partito per via del piano di disimpegno da Gaza; Arafat sconta gli effetti della corruzione su cui fonda il proprio potere e l'insostenibilità per la popolazione palestinese della situazione creata dalla sua scelta terrorista e violenta, da cui per altro non intende recedere.
E' dunque il raìs, non Sharon, bisogna riconoscere, favorevoli o meno che si sia alle sue politiche, l'ostacolo alla pace in Medio Oriente.
Ecco il pezzo:

Una scacchiera logorata dal tempo, due uomini: uno di fronte all’altro. Due avversari, due combattenti che non possono fare più a meno l’uno dell’altro per concludere la partita.
Sono due vecchi: gli anni sono trascorsi, ora lenti ora veloci, cadenzati da violenze, orrori, sofferenze. Tra loro la guerra è una sfida continua, che li ha portati, lungo percorsi diversi, inesorabilmente a confronto. La loro è una partita mortale: in gioco c’è la sopravvivenza di un popolo. Sfidandosi sono diventati vecchi: grosso, possente e incanutito il generale, minuto, ispido e calvo, sotto l’inseparabile e anacronistica kef- fiah, il rais. Uno inarrestabile come un fiume in piena, l’altro ambiguo e bizzoso. Il primo dispone di una perfetta macchina da guerra, il secondo di un’armata cenciosa, che della guerriglia e del terrore – una miscela chiamata intifadah – ha fatto la sua arma più efficace. Entrambi sono al capolinea – non lo sanno o fanno finta non saperlo – tuttavia la sfida continua, perché entrambi inseguono un sogno: la pace, ma ciascuno a modo suo. E la scacchiera è sempre la stessa.

Il logoramento e il tramonto di due leadership
Ormai si muovono in sincrono: quasi contemporaneamente, infatti, l’israeliano ha sfidato il comitato centrale del proprio partito, il palestinese il proprio parlamento, procedendo comunque spediti ciascuno per la propria strada, ciscuno all’inseguimento del proprio sogno, ciascuno, più realisticamente, verso una rivolta, verso una clamorosa sconfitta.
Un inedito confronto che ha sottolineato le difficoltà interne in cui entrambi affondano, sottolineando l’usura e il tramonto delle rispettive ledership.
Ariel Sharon, è uscito sconfitto dall’assemblea dei tremila delegati del Likud, il suo partito conservatore, che, a scrutinio segreto, e con uno scarto peraltro non clamoroso, ha bocciato la sua proposta di far entrare nel governo i laburisti di Shimon Peres. L’obiettivo del premier era quello di rafforzare le posizioni moderate del governo in modo da far digerire all’esecutivo il suo piano di disimpegno dalla striscia di Gaza, piano che nel giugno scorso gli aveva fatto perdere la maggioranza alla Knesset. I partiti dell’estrema destra, nel parlamento monocamerale israeliano, si erano infatti rifiutati di sostenere un progetto da loro definito come un mero «trasferimento forzoso» dei coloni ebrei. E stavolta le cose non sono certo andate meglio: in sostanza l’assemblea ha decretato la vittoria della fronda guidata dal ministro Uzi Landau, esponente dell’estrema destra, di cui fanno parte grossi calibri come Silvan Shalom e Natan Sharanskij e ovviamente Benjamin Bibi Netanyahu, rivale di Sharon.
Il "vecchio leone", comunque, aveva già messo in preventivo la sconfitta e, a stretto giro di posta,ha fatto diramare un comunicato: «Il primo ministro proseguirà con l’applicazione del suo piano, secondo la stessa tabella di marcia prevista per il ritiro da Gaza». L’aveva già anticipato qualche giorno fa al presidente egiziano Hosni Mubarak, preoccupato per l’evolversi della situazione, precisando che il voto del Comitato centrale sottilinea sì l’umore del partito, ma non è vincolante. Cosa rischia? Una vera e propria rivolta all’interno del Likud, con esiti imprevedibili, come elezioni anticipate a breve termine.
Un punto a suo favore, comunque Sharon l’ha segnato: l’Alta Corte di Giustizia ha confermato il suo proscioglimento dall’accusa di corruzione nella vicenda del l’amico costruttore David Appel.
Se sul fronte israeliano il barometro segna burrasca, su quello palestinese preannuncia tempesta. E per lo stesso motivo: i duellanti sono convinti di essere i depositari di una missione tanto simile, tanto diversa.
Arafat, l’altro ieri a Ramallah, dopo tanto tempo,ha riunito il parlamento e, come di consueto, ha accusato Sharon di allargare gli insediamenti nei territori, di rubare terra con il muro e di boicottare il processo di pace. Poi si è lanciato in un inedito "mea culpa", parlando di «errori commessi dalle istituzioni» sotto la sua autorità.
È la prima volta che fa una simile ammissione da quando il mese scorso è esploso violento il malcontento palestinese con una gravissima messa in discussione della sua autorità dal tempo del suo ritorno dall’esilio, dieci anni fa.

«Anche i Profeti sbagliano»
Ma pur auspicando sforzi per correggere tutti gli errori commessi – «anche i Profeti ne fanno» – Arafat non si è sbilanciato con promesse specifiche per soddisfare l’invocazione di riforme che viene dalla sua gente, frustrata dai continui fallimenti per ottenere uno stato indipendente, per superare la crisi economica e per assicurare legge e ordine in un territorio caotico.
Più tardi il rais ha di nuovo mischiato le carte , quando tutti speravano in una svolta, ha rifiutato di firmare i decreti presidenziali, che lui stesso aveva chiesto di firnmare, sostenendo che il suo discorso in parlamento fosse sufficiente e non ci fosse bisogno d’altro. Così i 14 palamentari che in nottata avevano sottoposto al vecchio leader il pacchetto di riforme, messo apunto per frenare il crescente stato di caos, se ne sono tornati a casa. E Arafat ha guadagnato tempo nella sua disperata lotta di potere, accecato dal timore che ogni progresso equivalga ad una pardita della propria autorità.
Dunque, i duellanti continuano imperterriti lungo un cammino segnato, ignorando o quasi le gravi crisi politiche e sociali interne, sordi ai deboli richiami di un mondo troppo distratto, ciascuno convinto della propria missione.
Ma la partita decisiva, molto probabilmente, non saranno loro a giocarla.
Sul MANIFESTO a pagina 2 Carlo Maria Miele firma l'articolo "Dopo lo schiaffo del Likud, Sharon rischia elezioni anticipate". Miele accoglie nel suo articolo la tesi della propaganda palestinese, per cui il disimpegno da Gaza sarebbe soltanto funzionale a una più estesa "colonizzazione" della Cisgiordania. In realtà il piano prevede lo smantellamento di insediamenti anche in Cisgiordania. Le proposte di pace di Camp David e Taba, e persino il piano di Ginevra prevedevano scambi territoriali tra Israele e Anp che lasciassero al primo gli insediamenti più popolosi. Che su di essi debba essere trovato un compromesso risponde a semplici considerazioni di realismo e di equità (lo smantellamento degli insediamenti comporta un traferimento di popolazione, la perdità di proprietà, danni materiali e morali)
Infine, bisogna ricordare che il piano di Sharon risponde anche a una sfida demografica all'esistenza di Israele, del quale vuole determinare confini compatibili con il permanere di una maggioranza ebraica. Conservare la sovranità sull'intera Cisgiordania sarebbe in contraddizione con questa finalità.
Di seguito il pezzo:

Sharon tira dritto sul ritiro unilaterale da Gaza, nonostante l'opposizione interna al suo partito. Ma la possibilità di arrivare a elezioni anticipate appare sempre più concreta. Ieri è stato il capo dell'opposizione laburista israeliana Shimon Peres a chiedere di andare alle urne «il più presto possibile», escludendo di fatto l'ipotesi di un governo di unità nazionale con il Likud. Dopo aver perso la maggioranza all'interno della Knesset (il parlamento israeliano) proprio sulla questione del ritiro da Gaza, Sharon aveva condotto delle trattative per allargare la coalizione di governo ai laburisti di Shimon Peres. Mercoledì la destra del Likud ha bocciato definitivamente la proposta di un governo di unità nazionale aperto alla sinistra, con il 58 per cento dei voti contrari. Uno schiaffo pesante che sta già facendo sentire i suoi effetti. La sola strada rimasta adesso a Sharon sembrerebbe quella di affrontare nuove elezioni. Dopo le dichiarazioni di Peres, anche la possibilità di ignorare la forte opposizione interna, creando una spaccatura senza precedenti nel Likud, appare impraticabile. Ancora ieri, però, il premier israeliano ha annunciando di voler proseguire sulla strada tracciata insieme all'alleato statunitense «con l'applicazione del progetto di ritiro da Gaza secondo la stessa tabella di marcia prevista».

Il piano di Sharon prevede lo smantellamento delle colonie ebraiche create all'interno della striscia di Gaza e il ritiro dell'esercito, a partire dal prossimo anno. Ai palestinesi rimarrebbe una sovranità di facciata sul proprio territorio, visto che Tel Aviv manterrebbe il controllo dei confini, e dello spazio aereo e marittimo. Una soluzione finale osteggiata fortemente dalle formazioni religiose e di destra, ma che, secondo i sondaggi, piace alla maggioranza degli israeliani. L'idea è quella di accettare un ridimensionamento della presenza ebraica a Gaza, dove si trovano oggi 7mila coloni, per rafforzare ed espandere invece gli insediamenti della Cisgiordania. All'interno del West Bank, infatti, vive la stragrande maggioranza dei 240mila coloni israeliani. La strategia di Sharon su questo punto, che lo ha portato anche a ignorare anche l'esito contrario di un referendum esplorativo nel Likud tenuto a maggio, viene confermata dai provvedimenti recenti del governo. L'ultimo il 17 agosto, quando Sharon ha annunciato il via libera per la costruzione di mille nuove abitazioni nelle colonie dei territori occupati.

Lo scontro politico è acceso anche sul fronte palestinese. Ieri Arafat, dopo l'ennesimo appello al cambiamento, è tornato di fatto sui suoi passi, rifiutandosi di firmare un decreto per lanciare un nuovo pacchetto di riforme. Nel suo discorso di mercoledì il presidente dell'Autorità nazionale palestinese aveva ammesso di aver compiuto «alcuni errori» nel passato, annunciando dei provvedimenti per combattere la corruzione interna senza poi darci corso. Ieri la marcia indietro: la promessa di riforme «è abbastanza - ha dichiarato - e non c'è bisogno di alcuna firma». Alcuni membri del parlamento palestinese avevano denunciato l'immobilismo di Arafat, chiedendo ufficialmente di sospendere le attività dell'assemblea fino a quando il presidente non avesse compiuto passi concreti verso le riforme promesse. La mozione, presentata da tredici parlamentari, è stata respinta di stretta misura, con 23 voti favorevoli e 24 contrari.

Intanto, nella striscia di Gaza, le forze di sicurezza israeliane continuano a fare vittime. Un sedicenne palestinese è stato ucciso ieri durante una delle frequenti incursione dell'esercito a Rafah, nel sud della striscia.
compiute per impedire il traffico e la produzione di armi e e il lancio dei missili Qassam su Sderot
Ahmed al Hams è stato colpito mentre assisteva un suo amico tredicenne, a sua ferito dalle pallottole sparate dagli israeliani. Un portavoce militare israeliano ha spiegato che i soldati hanno aperto il fuoco su due palestinesi che erano stati avvistati troppo vicino ad una postazione militare, perché presumevano che intendessero innescare una bomba. Sul posto, tuttavia, non è stata trovata alcuna traccia di ordigni esplosivi.
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