Il parlamento palestinese attacca Arafat. L'Europa ambigua nella crisi iraniana.
due analisi sul Medio Oriente
Testata:
Data: 11/08/2004
Pagina: 1
Autore: un giornalista
Titolo: Mollato anche dai deputati: Arafat guida solo il caos - La diplomazia del taqiyah ha incantato gli europei
Il Riformista di oggi, 11-08-04 pubblica in prima pagina due articoli sul Medio Oriente. Il primo che pubblichiamo riguarda le accuse rivolte ad Arafat dal parlamento palestinese:
"Mollato anche dai deputati. Arafat guida solo il caos"

Assediato fisicamente dall'esercito israeliano e politicamente (ma ormai anche quasi fisicamente) dai riformatori e dalle bande armate che li sostengono, il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Yasser Arafat ieri ha subito un altro, durissimo colpo alla sua vacillante autorità: il rapporto conclusivo della commissione parlamentare (si parla del parlamento palestinese) incaricata di far luce sui disordini del mese scorso a Gaza, che lo indica senza mezzi termini come il responsabile primario del caos che domina i territori dell'Anp.
Il fatto che a formulare le accuse non siano le giovani teste calde dell'Intifada né i capibastone che contendono ad Arafat il potere, ma quegli stessi legislatori che per anni sono stati fedelmente al fianco del presidente, dà l'idea di quanto grave sia la crisi di legittimazione del vecchio Abu Ammar. Che ogni giorno di più sembra attaccato al suo ruolo di padre fondatore del nazionalismo palestinese ma incapace di qualsiasi direzione politica. La commissione parlamentare, del resto, proprio questo gli imputa: «La ragione principale del fallimento delle forze di sicurezza palestinesi e della loro mancanza di azione nel ristabilire la legge e l'ordine - si legge tra l'altro nel rapporto - è la totale mancanza di decisioni politiche chiare e la scarsa definizione del loro ruolo, sia nel lungo che nel breve periodo». Parole dure, che riecheggiano gli scontri dell'anno scorso tra Arafat e l'allora primo ministro Abu Mazen, che si fece da parte dopo aver perso la battaglia proprio per il controllo degli apparati di sicurezza. Abu Mazen si era impuntato sul nome del ministro degli Interni, Mohammed Dahlan, e Arafat si mise di traverso fino a costringere entrambi alle dimissioni.
Oggi Abu Mazen è ai margini della politica palestinese, sostituito dall'assai più remissivo Abu Ala. Dahlan (che nelle prossime ore dovrebbe avere il primo faccia a faccia con il presidente) dopo essere tornato nella sua roccaforte a Gaza, si è messo invece alla testa del primo, vero movimento di protesta contro la monocrazia arafattiana: movimento nato per contestare la cronica corruzione dell'Anp, ma che sta velocemente crescendo in una vera e propria rivolta contro la dirigenza palestinese. E che, evidentemente, comincia a fare proseliti anche tra i parlamentari.
Oltre a dare indicazioni precise sui passi da intraprendere per potenziare l'operato delle forze di sicurezza, infatti, il rapporto della commissione sconfina apertamente sul terreno della rilegittimazione delle istituzioni politiche dell'Anp, suggerendo le dimissioni del governo di Abu Ala e chiedendo che siano indette al più presto nuove elezioni (dalle quali, a questo punto, non è più detto che Arafat esca nuovamente in trionfo). E ancor più in generale, detta le linee politiche strategiche della lotta contro l'occupante israeliano: lotta che deve abbandonare immediatamente ogni azione violenta, per non compromettere gli interessi generali del popolo palestinese.
Che Arafat sia il mandante diretto della guerriglia, come sostengono molti in Israele, o che semplicemente faccia poco o nulla per contrastarla, l'avvertimento della commissione parlamentare non poteva essere più chiaro. Il fondatore dell'Olp, ora, è davvero isolato.
L'altro articolo "La diplomazia del taqiyah ha incantato gli europei" analizza la "nova crisi" mediorientale che coinvolge l'Iran e il suo progetto di armamento nucleare. Crisi nella quale gli europei giocano, ancora una volta, un ruolo ambiguo, ben sintetizzato dalle parole di Madelein Albright citate dal Riformista: "dicono di capire la minaccia, ma poi agiscono come se il problema non fosse l'Iran, bensì gli Stati Uniti"
Di seguito il pezzo:

All'improvviso si sono tutti accorti dell'Iran e ne parlano come causa di una «nuova crisi» mediorientale, come scrive Fareed Zakaria sul Washington Post. La teocrazia iraniana non ha intenzione di lasciar perdere i suoi progetti nucleari (la bomba ci sarà fra due o tre anni, dicono gli esperti) né di starsene seduta ad aspettare il proprio isolamento. Afghanistan (dove il persiano è la lingua ufficiale) e Iraq (sede dell'ultimo imperatore persiano prima dell'invasione arabo-islamica, e centro spirituale della religione di stato dell'Iran dal Cinquecento in poi) fanno da secoli parte della storia iraniana. Perciò è oggi inconcepibile che i mullah di Teheran accettino di lasciar decidere al loro nemico numero uno - gli americani - il destino dei loro vicini. Non essendo abbastanza potenti per intervenire in modo diretto, hanno scelto l'alternativa più sensata: guadagnare tempo, celando le loro vere intenzioni secondo la dottrina di taqiyah. Per capire fino a che punto la sofisticata diplomazia iraniana abbia applicato il taqiyah basta leggere una qualsiasi definizione della stessa. Seyyed Saeed Akhtar Rizvi, per esempio, la spiega così: «Immaginiamo che tu, musulmano, sia stato catturato da miscredenti che ti intimano di rinunciare all'Islam oppure morire. Se nel tuo cuore arde la fiamma della vera fede, le parole non potranno mai estinguerla. Allora (la bugia che racconterai) non sarà altro che un modo per celare la luce della fede ai miscredenti». Così, il regime di Teheran prima dichiara guerra al terrorismo, poi una volta all'anno organizza una conferenza internazionale durante la quale le principali organizzazioni terroristiche del mondo - islamiste o non - si incontrano nella capitale iraniana. Un giorno si assicura che non ci sono infiltrati di Al Qaeda nel paese, un altro si dice che forse c'erano, ma ora non ci sono più. Un giorno si dichiara che «se la casa del vicino brucia bisogna portare l'acqua per spegnere le fiamme» e il giorno dopo si scopre che anziché inviare acqua sono stato mandati centinaia di Pasdaran per addestrare le milizie di al Sadr.
Il taqiyah ha dato ottimi risultati sul nucleare. La teocrazia ha utilizzato la carta europea di negoziati a tempo indeterminato per guadagnare tempo e avvicinarsi ancora di più all'obiettivo di costruire la bomba. Sin dall'inizio, gli iraniani avevano giurato di avere buone intenzioni. Poi hanno fatto capire che avrebbero accettato gli ispettori solo se questi non portavano a una condanna. Siccome così non è stato, ora dicono che continueranno i progetti che fino a ieri negavano di avere. Gli europei hanno finora chiuso gli occhi di fronte all'evidenza, sottoscrivendo perfino il progetto di Khatami, ritenuto dalla maggioranza degli iraniani come uno dei protagonisti chiave di questo gioco di specchi. Ora gli americani invitano a prendere atto del fallimento di questa strategia e chiedono di trovarne una più incisiva. In un dibattito alla Brookings Institution, Madeleine Albright ha espresso lo stato d'animo americano (quindi non solo quello dell'amministrazione Bush): «Gli europei dicono di capire la minaccia, ma poi agiscono come se il problema non fosse l'Iran, bensì gli Stati Uniti». La diplomazia Usa non è senza colpe, perché rifiuta persino di considerare la possibilità di parlare con gli iraniani. Ma gli europei - dicono a Washington persino i democratici - dovrebbero essere in grado di giocare un ruolo più attivo e più assertivo per ridurre i pericoli della proliferazione nucleare.
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