Una caduta di stile
ci aspettiamo analisi serie e non superficiali
Testata:
Data: 11/06/2004
Pagina: 2
Autore: due giornalisti
Titolo: Ariel Sharon a un bivio fare come Begin o come Charlie Brown - Minority Report: falsa l'intelligence su Arafat
Sul Riformista di oggi vengono pubblicati due articoli su Israele che spiazzano chi, da questo giornale, si aspetta analisi serie e approfondite.
Questo non è il caso del commento scherzoso su Ariel Sharon a pagina due dove la figura del premier viene accostata da un lato a quella di Charlie Brown, per via dei momenti di indecisione che li accomunano, dall'altra a quella dell'altro grande leader del Likud Menachem Begin. Il secondo articolo che fa sorgere alcuni dubbi è quello in cui vengono commentate le affermazioni di Amos Malka , ex direttore dell'intelligence militare, il quale sostiene che non vi fossero prove evidenti che Yasser Arafat, all'indomani del rifiuto di Camp David, non fosse più un partner affidabile per la pace. Si tratta di affermazioni ben poco plausibili, dal momento che i successivi avvenimenti ( le braccia alzate in segno di vittoria al ritorno da Camp David e la nuova intifada) hanno dimostrato il contrario. Non si capisce perchè il quotidiano diretto da Antonio Polito abbia voluto dar spazio a queste pseudo rivelazioni. In tutta franchezza ci aspettiamo di meglio da questo giornale.
Incominciamo dalle divagazioni su Charlie Brown, a pagina 2: "Ariel Sharon a un bivio fare come Begin o come Charlie Brown"

Per alcuni è l’uomo d’acciaio, il premier che non si ferma davanti a niente e nessuno.Per altri è una tragica reincarnazione di Charlie Brown, indeciso a tutto e incapace di seguire un percorso coerente.Gli uni e gli altri hanno le
loro buone ragioni.Ariel Sharon è un burbero, ha piglio e curriculum
da guerriero, è implacabile coi nemici e specie in campo militare non sente ragioni o proteste che dir si voglia (fino all’eccesso: dalle operazioni spericolate durante la guerra del Kippur al trucco con cui nell’82 trascinò l’allora premier Begin nel pantano libanese, la sua biografia è piena di atti d’insubordinazione). Ma Ariel Sharon è anche il padre della formula «non c’è
pace senza sicurezza», che a lui è valsa la carica di premier e a Israele
un triennio senza pace né sicurezza; ed è il il leader capace di annunciare
al paese un periodo di «rinunce dolorose» che non solo non ha mai messo in atto,ma nemmeno enunciato pienamente.

Dopo di lui, il diluvio.

Ariel Sharon, però, è anche il solo israeliano di cui in questo momento la
maggioranza degli israeliani riesca a fidarsi. Sfiancati da 56 anni di guerra praticamente ininterrotta, colpiti a ondate dal terrorismo, lo considerano un vecchio padre, pieno di difetti ma pur sempre rassicurante. In fondo, agli occhi dell’opinione pubblica Sharon è un po’ come la barriera di separazione che
sta costruendo fra Israele e la Cisgiordania: tortuosa ma rigida, utile anche se non infallibile,dannosa alla causa della pace (almeno nel suo percorso attuale,che taglia in mezzo ai territori palestinesi) ma irrinunciabile.
Una delle peggiori prove di sé il premier israeliano l’ha data di recente nella gestione di un’idea peraltro egregia: l’evacuazione della Striscia di Gaza.Partito con un progetto chiaro e intelleggibile,lo ha via via annacquato man mano che montava la protesta dei ministri più oltranzisti del suo governo, dell’ala dura dei coloni e (colpa sua, che ha fatto ricorso a uno strumento così
poco ortodosso) financo degli iscritti al suo partito chiamati in massa a un referendum sul piano di ritiro.

La volta di Yamit.

Eppure, ora Sharon ha l’occasione della vita per dimostrare di essere lo statista deciso adorato dalla sua base e non il Charlie Brown dipinto dai suoi detrattori. Tra un rinvio e un altro, il governo sta infatti stilando il calendario e le modalità del ritiro.Che,salvo ulteriori modifiche, dovrebbe avvenire in due fasi:a partire dal prossimo mese di agosto,e per un anno,i coloni che popolano la Striscia avranno facoltà di andarsene volontariamente,e una volta trasferiti avranno accesso ai risarcimenti statali; nel settembre del
2005 scatterà invece il rientro forzato, che naturalmente non darà diritto
a compensazione alcuna. Benché non sia il risultato di un trattato di pace (ma ben che vada solo un primo passo in quella direzione),l’evacuazione delle colonie di Gaza ricorda quella di Yamit, nel Sinai, più di vent’anni fa.La pace con l’Egitto, accolta da quasi tutti in Israele come una liberazione, fu vissuta da una minoranza come un tradimento:nel paese nacque un movimento in difesa di quel solitario insediamento, furono stampate migliaia di magliette
con la scritta «Yamit nel mio cuore». Ma Menachem Begin non volle sentir ragioni, e alla data pattuita mandò i militari con un messaggio secco: «Sgomberate ora, o vi lasciamo gli egiziani». Poche ore e qualche scazzottata più tardi Yamit era deserta. Prima o dopo, a Netzarim toccherà la stessa sorte. Ma ora Sharon deve scegliere quale modello seguire: Charlie Brown o Menachem Begin.
Di seguito l'articolo a pagina 5: "Minority Report: falsa l'intelligence su Arafat"
Gerusalemme. Paese che vai, intelligence opinabile che trovi. E’ opinione assai diffusa, in Israele e in buona parte dell’Occidente, che Yasser Arafat - persa la grande chance di firmare la pace con Barak a Camp David - abbia definitivamente rinunciato a qualsiasi ipotesi di mediazione e sia tornato sulle posizioni più oltranziste che caratterizzarono il suo passato. Il corollario di questa convinzione è che, non essendoci alcuno in grado di esautorare Arafat, non ci sia all’interno del gruppo dirigente palestinese alcun
partner affidabile di pace. A quasi quattro anni dal giorno in cui questa opinione ha cominciato a farsi strada, ora emerge anche un minority report, una tesi altrettanto autorevole che smentisce la tesi precedente e, soprattutto, accusa l’intelligence israeliana di aver sostanzialmente manipolato
i fatti. A dar voce al dissenso è il generale Amos Malka, che nell’ottobre del 2000 - allo scoppio della seconda Intifada - era il direttore dell’intelligence
militare israeliana. Sostiene Malka che «per tutto il periodo in cui ho guidato l’intelligence militare, la nostra divisione ricerche non ha prodotto un singolo
documento» che andasse in questa direzione. A mettere in giro l’idea che Arafat fosse definitivamente perso alla causa, e a persuadere il governo, sostiene Malka, fu Amos Gilad, che all’epoca era il capo della divisione ricerche e oggi dirige l’unità per la sicurezza diplomatica della Difesa. La tesi di Gilad era che Arafat non avesse mai rinunciato al diritto al ritorno dei palestinesi in Israele, e che la sua strategia fosse - in virtù degli elevati tassi di riproduzione degli arabi - di provocare l’implosione demografica dello stato ebraico. La stessa tesi è condivisa anche dall’attuale capo dell’intelligence militare, Aharon Ze’evi, e dall’ex capo del Mossad Ephraim Halevy. Il problema, sostiene oggi Malka, è che Gilad non aveva basi a sostegno delle sue preoccupazioni, perché nessuna agenzia d’intelligence israeliana aveva maidenunciato nulla di simile. A convincere il governo di Gerusalemme
della bontà delle tesi di Gilad fu quella che Malka definisce la «supremazia
delle esposizioni orali (che fu proprio Gilad a tenere) rispetto ai testi scritti». Una superiorità dovuta al fatto che - nota con estrema malizia -
«i nostri leaders non leggono». Malka non è il solo ad essere convinto
che l’intera politica israeliana sia stata basata su una lettura errata del
lavoro delle agenzie d’intelligence.Come lui la pensa il colonnello Ephraim
Lavie - nel 2000 responsabile della ricerca per l’area palestinese, alle dirette
dipendenze di Malka - che le sue critiche alla lettura politica dell’
dell’Intifada e al conseguente isolamento di Arafat le ha espresse pubblicamente al momento del suo congedo dalle forze armate. E ancora, sulla stessa lunghezza d’onda sono l’allora comandante dello Shin Bet (il controspionaggio israeliano) Ami Ayalon, e l’orientalista Mati Steinberg, che fino ad alcuni mesi fa è stato consigliere speciale dello Shin Bet per gli affari palestinesi. Fondate o meno che fossero le conclusioni a cui giunse tre anni fa il generale Gilad (e dunque l’establishment politico del paese), la realtà è che oggi quelle tesi non sono soltanto condivise dal governo, ma anche da ampi settori dell’opinione pubblica israeliana. E’ assai difficile, dunque,
che le rivelazioni di Malka provochino uno scandalo come quello suscitato negli Stati Uniti dai flop della Cia sulle armi di distruzione di massa dell’Iraq.
Nondimeno, Malka non si scompone: «A pensarla diversamente da me possono anche esserci 1.000 persone. Ma questo non significa che abbiano ragione».
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