L'internazionale del terrore ha una sezione italiana
che ha un ruolo nella vicenda dei connazionali rapiti
Testata:
Data: 10/06/2004
Pagina: 1
Autore: Renato Farina - un giornalista
Titolo: I legami italiani dei sequestratori
In prima pagina su LIBERO, Renato Farina firma una documentata inchiesta sui collegamenti italiani dei terroristi iraqeni sequestratori dei nostri connazionali: "Adesso è certo: i sequestratori avevano amici e sponsor in Italia"
Questo è un articolo pieno di nomi arabi. Ma a spremerli danno un succo molto italiano. Vogliamo dircelo? È chiaro come il sole chi sia il capo politico e morale del sequestro dei nostri quattro (e della morte di uno di essi): ha lasciato tracce dovunque, convinto dell'impunità. Ed è proprio il leader della "resistenza irachena" legato mani e piedi alla sinistra radicale, quella che ha marciato a Roma nella pancia del gran corteo, gridando "10-100-1000 Nassiriya", senza che nessuno la espellesse. Dovunque ci si rigiri in questa storiaccia, ci si imbatte in Abd Al-Jabbar Al-Kubaysi. I suoi uomini hanno potuto tenere conferenze in sedi dell'Arci (organizzazione vicina ai ds) e in una sala fornita dalla provincia di Pisa, accolti come compagni di lotta cui fare riferimento. A lui sono stati destinati i fondi raccolti nelle sottoscrizioni pubbliche dei "pacifisti". Tremano le mani a scriverlo. Ma quei denari hanno pagato (...) ( segue a pagina 2) (...) anche i proiettili che hanno ucciso Fabrizio Quattrocchi. Non è un'intuizione investigativa, ci sono pacchi di documenti su questo intreccio ideologico e pratico. Vi sono coinvolti Al Qaeda, la guerriglia irachena, estremisti europei e special- mente italiani. Nei circoli antimperialisti del nostro Paese si sono affinati politicamente gli uomini che si rivolgevano nella nostra lingua agli ostaggi, ed in particolare l"Italiano", probabilmente un algerino. E' lui (sono gli uomini del Gia algerino, gli sgozzatori di duecentomila musulmani moderati) ad avere avuto l'idea di battezzare il gruppo di assassini "Brigate Verdi", rifacendosi a "Green Battalion" (Al-Katib Al-Khadra). Al-Kubaysi, in collegamento costante con l'Italia, ha gestito mediaticamente e politicamente la faccenda. Partiamo dal lieto fine. Gli ostaggi sono stati liberati a Ramadi, 140 chilometri a ovest di Bagdad. C'era anche un imprenditore polacco con gli italiani. (Teniamo a mente la nazionalità di questo signore, non è un incidente del caso). Sottolineiamo questo nome: Ramadi. Aggiungiamone un altro: Falluja. Il 12 aprile i quattro italiani (allora erano quattro 3;) sono presi nei pressi proprio di quella città. Il capo riconosciuto, ed autoproclamatosi tale, della "resistenza" armata a Falluja e Ramadi è proprio Kubaysi. Siamo in grado di trascrivere da una conferenza stampa tenuta a Vienna il 10 luglio del 2003 e citata sul sito antimperialista austriaco il suo proclama. Kubaysi elogia se stesso e «l'attività di resistenza svolta dalla sua organizzazione nelle roccaforti di Falluja e Ramadi». Annuncia l'inizio «di una va- sta campagna di proselitismo, soprattutto in Europa, per reclutare volontari sul fronte della lotta armata e del supporto logistico e operativo in alcuni Paesi europei». Poi qualcuno dubita che ci siano italiani, magari anche per origine, tra i "resistenti" e in particolare tra i rapitori? Non è un caso che il vice di Kubaysi, Al Kalemj, vada e venga in Italia proprio per questo, già che c'è, fa un tour di conferenze. I contatti telefonici di Kubaysi sono frequenti in particolare con i capi del Campo Antimperialista che ha la sua base ad Assisi, ma ha una piattaforma internet frequentatissima da militanti di Rifondazione. Parte la campagna «Dieci euro a testa per la resistenza irachena». In un'intervista all'"Alieno" di Mario Giordano (3 giugno scorso), realizzata da Angelo Machiavello, il capo degli antimperialisti Moreno Pasquinelli si è lasciato andare. Domanda: «I soldi che voi raccogliete sul sito ( "si possono versare 10 Euro per sostenere la resistenza irachena" che fine fanno?». Pasquinelli: «Noi abbiamo più volte annunciato, qui devo ripeterlo, che questi soldi andranno ai nostri amici dell'Alleanza Patriottica (quella di Kubaysi, ndr)... Alla domanda di un giornalista americano "se questi soldi non andassero per aprire la redazione di un giornale ma per le armi, che cosa penserete?" Io risposi, e rispondo anche a lei in questo modo, noi sappiamo da accordi che questi soldi servono per aprire una redazione. Se andassero per le armi, perché i nostri amici iracheni, i nostri amici partigiani, ritengono che sia giusto comprarci le armi, è una questione che riguarda loro, non riguarda noi. Io ritengo che la resistenza irachena sia legitti- ma 3;». La resistenza contro l'I- talia vuol dire l'autobom- ba a Nassiriya, sequestro di civili italiani a Falluja. Il rapimento dei quattro non è casuale. Dopo la Spagna va colpita l'Italia. Si tratta di piegarla al ricatto, costringerla a mollare gli americani e gli inglesi. Poi sarebbe toccato ai polacchi (infatti). Ci sono documenti precisi su questo progetto: è stata diffusa, il 3 dicembre del 2003, una risoluzione strategica che dà compiti a chiunque voglia combattere l'America. Non ci stanchiamo di citarla: si chiama "La Jihad in Iraq, speranze e rischi". C'è una mano che ritrae perfettamente la Spagna, un'altra che imprime sulle pagine il lessico della sinistra radicale italiana ("il ritardato mentale Silvio Berlusconi"), altre esperte di Polonia, di economia petrolifera. Dunque tocca all'Italia. Che non sia una faccenda di banditismo da strada si capisce subito. Viene assassinato Fabrizio. E chi fornisce il movente? Lui, Kubaysi. In un'intervista a Sky Tg24 indica i quattro come «agenti dei servizi di intelligence». È Kubaysi a telefonare il 29 aprile agli antimperialisti per chiedere di venire a prendersi gli ostaggi. Gino Strada riferirà poi all'Unità di aver preso contatti telefonici a Ginevra con il medesimo soggetto. Le indagini registreranno sorprese molto italiane. Mai come in questo caso ci fidiamo della magistratura.

Anche IL FOGLIO pubblica in prima pagina un interessante articolo su questo argomento: "Video e ipotesi"
Milano. Il video dell’esecuzione di Fabrizio
Quattrocchi dura circa 15 secondi e
conclude con due colpi di pistola. Dopo
liberazione degli ostaggi, il Foglio è in grado
di ricostruire il contenuto del filmato
dell’orrore, che allontana fantasiose ipotesi
sulle frasi pronunciate da Quattrocchi e dai
sequestratori, ma conferma che qualcuno
fra i terroristi parla o almeno comprende
l’italiano. La descrizione si basa sul racconto
di chi ha visto il video. L’ostaggio italiano
ha le mani legate davanti e uno straccio colorato,
probabilmente una kefyah beduina,
che gli copre gli occhi. Non ci sono gli altri
sequestrati e si percepisce soltanto la presenza
dei terroristi. L’impressione è che
filmato sia stato tagliato e ricucito, forse manipolato,
per evitare di mostrare dettagli
che sarebbero potuti servire agli investigatori.
Quattrocchi, che indossa
i jeans e la maglietta
di quando è stato catturato,
sembra consapevole che
sia stata già decisa la sua
condanna a morte. Dice
soltanto due frasi in italiano
e risalta subito
fatto che, se lo fa, qualcuno
dall’altra parte della telecamera deve
capire che cosa dice. Le riprese sono
amatoriali, ma la prima frase che pronuncia
l’ostaggio si sente chiaramente.
E’ una domanda: "Posso togliermi
cappuccio?". Uno dei terroristi
risponderebbe:
"No", anche se la registrazione
è poco
chiara, a causa
della voce fuori
campo. La certezza
che effettivamente
sia stato pronunciato quel "no" può
venire soltanto da un’analisi con apparecchiature
adeguate della pista sonora. Quattrocchi
continua a parlare nella sua lingua,
come se sapesse di essere compreso, e dice:
"Vi faccio vedere io come muore un italiano".
Si vede la mano di un terrorista che
stringe una pistola, puntata da una posizione
laterale verso la testa di Fabrizio Quattrocchi.
Immediatamente, dopo la frase dell’ostaggio,
l’assassino spara due colpi, e il video
si interrompe assieme alla vita del prigioniero.
Oltre al video dell’esecuzione, ci sono altri
indizi dell’esistenza di almeno un regista
o un protagonista del sequestro che parla
italiano e conosce bene la realtà politica
mass media del nostro paese. Non è un caso
che il primo ultimatum dei sequestratori
sia datato 25 aprile, festa della Liberazione,
quando hanno sfilato in piazza i pacifisti
che chiedevano il ritiro dall’Iraq. L’ultimatum
scadeva dopo cinque giorni, il primo
maggio, festa dei lavoratori, quando erano
previsti altri cortei. La principale condizione
per liberare gli ostaggi era che il popolo
italiano scendesse in piazza contro il governo
per convincerlo a ritirare le truppe.
I tre ostaggi ieri hanno detto ai magistrati
che "i rapitori parlavano in inglese" e che
"non c’era alcun italiano tra loro", ma uno
dei sequestratori sembrava capire, forse addirittura
parlare un po’, la nostra lingua. Nei
due video con i tre prigionieri ora liberi,
questi ultimi parlavano in italiano e chi filmava
o chi visionava le cassette, prima
farle avere ad al Jazeera, doveva conoscere
la nostra lingua, per evitare che potessero
essere pronunciati messaggi in codice o frasi
che potessero aiutare l’intelligence. L’ultimo
filmato è arrivato alla vigilia della visita
del presidente americano a Roma e invitava
gli italiani a scendere in piazza, come era
stato annunciato dai pacifisti e da parte della
sinistra, per protestare contro Bush.
Gli ex di Saddam passati per Roma
L’intelligence segue fondamentalmente
tre piste: gli ex agenti di Saddam Hussein,
gli immigrati legati al radicalismo islamico
in Italia, partiti per l’Iraq, e gli estremisti nostrani
infatuati della "resistenza" antiamericana.
Da Baghdad rimbalza la notizia, non
ancora confermata, che fra i sequestratori
catturati nel blitz o fra gli iracheni tenuti sotto
controllo dall’intelligence ci fosse qualcuno
legato all’ex regime. L’Italia era infiltrata
da agenti di Saddam, che spesso godevano
della copertura diplomatica. L’ambasciata
a Roma si occupava di spionaggio
controllava i dissidenti iracheni nel paese.
Uno di questi ha raccontato al Foglio che
quando andò in ambasciata per richiedere
il rinnovo del passaporto, un funzionario,
evidentemente legato alla polizia segreta
raìs, buttò il documento fuori dalla finestra.
La Farnesina non rende nota la lista dei diplomatici
iracheni presenti in Italia negli ultimi
vent’anni, ma il Foglio ha scoperto che
alcuni di essi furono espulsi prima della
guerra del Golfo del ’91 per "attività incompatibili
con il loro status". Si tratta di tre ufficiali
e otto sottufficiali dell’ufficio dell’addetto
militare iracheno. L’ambasciatore,
Said al Saba, tornò a casa e divenne il numero
due del ministro degli Esteri, Tareq
Aziz. Negli anni 80, a Roma, il rappresentante
diplomatico iracheno era Mohammed
Saeed al Saaf, ministro dell’Informazione
del raìs. L’Italia ha espulso alcuni imprenditori
iracheni: Kassim Abbas e il fratello Abdul
Hassim, sospettati di far parte della rete
creata dai servizi di Saddam per procurarsi
tecnologia occidentale proibita a fini bellici.
(1. continua)
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