Il G 8 progetta il Medio Oriente democratico
le analisi di tre quotidiani
Testata:
Data: 10/06/2004
Pagina: 1
Autore: Maurizio Molinari - Marco Contini - due giornalisti
Titolo: G 8 e Grande Medio Oriente
I giornali di oggi dedicano ampio spazio al G8 e al progetto del Grande Medio Oriente. Maurizio Molinari,inviato de LA STAMPA a Savannah affronta i risultati del summit: "I sette pilastri del G-8 per il Medio Oriente" (pag.9)
Democrazia, pari diritti, istruzione per tutti, libertà di espressione, eguaglianza fra i sessi, occupazione per togliere i giovani dalle strade e investimenti per le aziende. Questi i contenuti dell'iniziativa per il «Grande Medio Oriente» che esce dal summit del G-8 con l'intenzione di estirpare il germe del terrorismo e si articola in due documenti. La dichiarazione sulla «Partnership per il progresso ed il futuro comune» stabilisce tre linee d'azione per le riforme: «progressi verso la democrazia e lo Stato di diritto», «una forza lavoro più istruita che possa meglio essere partecipe del mondo globalizzato» e «lotta alla disoccupazione» che affligge il mondo arabo. Due i pilastri politici del progetto del summit: «Ripristino della pace e della stabilità in Iraq» e «soluzione del lungo conflitto israeo-palestinese» sulla base del processo della Road Map.
Nasce così un «Forum per il Futuro» con i Paesi del «Grande Medio Oriente» - la regione fra Marocco ed Afghanistan - che decideranno di prendervi parte. Il modello è l'Apec, il Forum dei Paesi del Pacifico, che somma le dimensioni politica, economica e sociale. Il metodo con cui il G8 scommette sulle riforme è quello di singole iniziative che vengono elencate nelle 12 pagine nel «Piano»: dal finanziamento della microimpresa alla preparazione entro il 2009 di centomila insegnanti per favorire la diffusione di un'educazione alternativa a quella dei fondamentalisti, dagli investimenti per il commercio al sostegno per l'integrazione delle donne nella vita pubblica, dalla riforma dei sistemi giudiziari al sostegno per la libertà di espressione. «Servirà una generazione» dice il presidente americano Bush per far capire che la strada è in salita ed i risultati non saranno immediati. Ognuno degli Otto si è assunto impegni specifici con singoli Paesi, ponendo le basi per la creazione di rapporti privilegiati all'interno di un'unica strategia regionale. L'Italia organizzerà con Turchia e Yemen una «conferenza sulla democrazia» entro la fine dell'anno, aiuterà Yemen ed Afghanistan a realizzare le elezioni, porterà a termine la ristrutturazione della giustizia afghana ed aiuterà Giordania e Tunisia a rinnovare la pubblica amministrazione, sarà responsabile di programmi di istruzione per laureati in Afghanistan e Libia, sosterrà progetti di sviluppo nei Territori palestinesi e finanzierà piccole e medie imprese in Egitto, Algeria, Iran, Giordania, Tunisia e Pakistan.
I leader di Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia, Italia e Canada ed il presidente della Commissione Europea hanno discusso del piano durante il pranzo avuto nel complesso dell'Ocean Forest con i capi di governo di Afghanistan, Bahrein, Giordania, Iraq, Turchia, Yemen. Anche l'Algeria, invitata come Paese africano, ha preso parte ai colloqui su un «piano» che è aperto anche ai Paesi non presenti con unici esclusi a priori gli Stati considerati «terroristi»: Iran e Siria. E' stato Bush ad aprire i lavori, intervenendo per allontare i timori di ingerenza: «Voi scrivete la vostra storia, noi aiuteremo». Poco prima il presidente francese Jacques Chirac aveva tenuto a sottolineare alcuni distinguo. «Non contestiamo il dialogo con i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa sulla modernizzazione economica e politica - ha detto - ma non possiamo imporre niente a nessuno». Il riferimento fa proprie le obiezioni di alcuni Paesi arabi - come Egitto, Marocco ed Arabia Saudita - che hanno disertato il summit. «Le riforme si possono promuovere con gli accordi, contribuendo a convincere gli interlocutori - ha aggiunto Chirac - come stiamo facendo cooperando con la Siria sulla ristrutturazione del sistema amministrativo». L'obiezione dell'Eliseo è sul metodo: per favorire i cambiamenti bisogna rifarsi al meccanismo di cooperazione che l'Unione Europea inaugurò con il «Processo di Barcellona» e non scommettere sui «missionari della democrazia» destinati a essere percepiti come intrusi.
Gli Otto hanno inoltre approvato due documenti: sulla lotta alla proliferazione di armi proibite si sono detti «seriamente preoccupati» per il nucleare iraniano e sulla lotta al terrorismo hanno concordato un piano d'azione in 28 punti per migliorare la sicurezza del trasporto aereo.
Su IL RIFORMISTA, l'argomento è affidato a Marco Contini. Il suo pezzo,a pagina 2, "S'è ristretto il grande Medio Oriente, Egitto e Arabia disertano, Parigi frena" offre un'analisi interessante delle divergenze tattiche tra Stati Uniti ed Europa. Tra queste vi è l'approccio al conflitto israelo-palestinese. Risolverlo, dicono gli europei, è la condizione imprescindibile perchè il progetto del "Grande Medio Oriente" funzioni. Si dà il caso, però, che gli americani abbiano tentato molte volte una pacificazione, e che ogni volta i loro tentativi siano falliti per responsabilità di Yasser Arafat. La Road Map, per citare l'ultima iniziativa diplomatica, prevede la lotta al terrorismo da parte dell'Autorità Palestinese, ed è Arafat ad aver ostacolato l'applicazione dell'accordo su tale punto cruciale. L'articolo non fa menzione di questi fatti, che avrebbero potuto far comprendere come la divergenza tra Europa e USA non opponga chi vuol risolvere il conflitto israelo-palestinese a chi preferisce lasciarlo a sè stesso, ma piuttosto chi ne ha capito la realtà a chi proprio non vuole capirla, e continua a indicare a Israele la necessità di trattare con un'interlocutore inaffidabile e criminale.
Che poi il progetto per il "Grande Medio Oriente" sia un'autocritica dell'amministrazione Bush per la guerra in Iraq è cosa di cui dubitiamo: quest'ultima non aveva infatti solo lo scpo instaurare la democrazia al posto di una tirannia sanguinaria, ma anche quella di far fronte alla minaccia portata alla sicurezza americana e occidentale da uno stato colluso con il terrorismo e detentore, se non di armi di distruzione di massa" quanto meno di materiali atti alla loro costruzione.
Poichè nessuno potrebbe dire qualcosa di simile sull'Egitto o sulla Giordania è ovvio che non si pensi a espotare la democrazia con la guerra anche in quei paesi.Con queste riserve,pubblichiamo l'articolo.

Benché non sia mai stata presentata come tale, la Greater Middle East Initiative di George Bush, illustrata per la prima volta il 6 novembre del 2003 alla platea del National Endowment for Democracy, è stata la prima autocritica dell'amministrazione sulla guerra in Iraq. Ufficialmente le ostilità erano terminate da sei mesi, ma contrariamente alle attese i militari americani non erano stati accolti con mazzi di fiori, e la guerriglia - ormai era chiaro - continuava ad espandersi ben oltre i confini del revanscismo baathista. Mantenendone - anzi, consolidandone - tutti gli obiettivi, la Greater Middle East Initiative tracciava invece un programma d'azione per la democratizzazione del mondo arabo destinato a correre su binari del tutto diversi da quelli in Mesopotamia. Non invasione militare, ma offensiva politica, culturale, civile. Ribaltando il celebre adagio di von Clausewitz si trattava, insomma, di una continuazione della guerra con altri mezzi.
Se l'autocritica sull'Iraq era tutta sottotraccia, quella nei confronti di decenni di politica mediorientale dell'America (e dell'Europa) era invece del tutto esplicita: la tradizionale difesa della stabilità a tutti costi poteva andar bene per assicurare il controllo delle risorse naturali, ma in tempi di terrorismo globale non regge più. Anzi, a lungo andare rischia di risultare dannosa, perché nutre le correnti di fondo del radicalismo islamico che solo una potente svolta democratica può combattere efficacemente. Non a caso il discorso fu accolto in Medio Oriente con estrema freddezza: che sempre di una "guerra" (pur senza cannoniere) si stesse parlando, chi doveva intendere lo intese alla perfezione. Egitto e Arabia Saudita innanzitutto.
Sette mesi dopo la sua prima formulazione, e fortemente riveduto e corretto, il piano fa ora il suo approdo formale nell'arena internazionale ai lavori del G8 di Sea Island. I leader dell'Occidente democratico e industrializzato ne discutono (le divergenze di vedute tra loro sono significative) e cercheranno di dar vita a una serie di forum che possano cominciare a far camminare il progetto. Ma a ricordare a tutti l'ostilità dei governi arabi nei confronti del progetto e dei suoi obiettivi ci hanno pensato nuovamente Egitto e Arabia Saudita, che hanno declinato l'invito a sedersi al tavolo dei grandi per discuterne.
Del resto, non è che a Ovest le differenze siano lievi. Uniti nell'obiettivo dichiarato, Europa e Stati Uniti hanno idee abbastanza diverse sulla strada per raggiungerlo, al punto che un lungo paper della Brookings Institution paventa il rischio che la discussione di Sea Island finisca per approfondire nuovamente, anziché ridurre, il solco tra le due sponde dell'Atlantico. Per esempio: sia nel discorso di novembre che nella prima bozza del documento da approvare al G8, gli Stati Uniti hanno messo fortissima enfasi sul processo di democratizzazione (vale a dire delle riforme politiche da apportare, preferibilmente con il pieno apporto dei governi arabi che infatti protestarono a gran voce contro quello che definirono un tentativo dell'Occidente di imporre il proprio modello). L'approccio non ha trovato molto ascolto in Europa, il timore che nessuna democratizzazione possa avere successo in assenza di profonde mutazioni socio-culturali è forte, e nella seconda bozza si preferisce quindi parlare di modernizzazione. Non è solo una distinzione terminologica: perché in concreto, se a Washington si guarda alla possibilità di imprimere un'accelerazione radicale ai processi di partecipazione al processo politico, al di qua dell'Atlantico si vorrebbero concentrare gli sforzi sugli aiuti allo sviluppo economico, sull'accesso all'istruzione, e più in generale alla crescita di una società civile che possa poi diventare essa stessa il motore delle riforme politiche. Altra differenza è l'area su cui si vuole incidere: il Grande Medioriente significa dalla Mauritania al Pakistan, mentre nel Vecchio Continente - anche per non svuotare di significato le preesistenti iniziative di collaborazione euro-mediterranea - si vorrebbe concentrare l'attenzione sui paesi che, appunto, si affacciano sul Mar Mediterraneo.
Ma soprattutto, a dividere l'America dai membri europei del G8 è la lettura del ruolo che nella crisi mediorientale in senso ampio è esercitato dal conflitto israelo-palestinese. Benché nelle ultimissime ore abbia dato qualche segnale d'impazienza, l'amministrazione Bush si è schierata apertamente al fianco di Ariel Sharon e della sua politica di riposizionamento unilaterale e contemporanea guerra aperta ai gruppi armati palestinesi: una politica, questa, fondata sulla sostanziale convinzione che non esista un interlocutore affidabile tra i palestinesi. In Europa nessuno, salvo forse il governo italiano, ha condiviso questa scelta di campo. Ma soprattutto, tutti i governi europei temono che senza una soluzione al conflitto israelo-palestinese - che produce una radicalizzazione dell'opinione pubblica araba non meno della mancanza di libertà in casa propria - ogni intervento nel mondo arabo sarà vanificato.
Divergenze e diffidenze sono state per mesi oggetto del lavorio degli sherpa, che tra riscritture e limature hanno ridotto la portata del piano iniziale. La dichiarazione finale del G8 non sarà, come avrebbe voluto Washington, una riedizione della dichiarazione di Helsinki del 1975: allora il vertice della Csce (di cui facevano parte tra gli altri Unione Sovietica, Germania est, Cecoslovacchia, Bulgaria, Polonia, Romania...) si chiuse con l'impegno formale di tutti i paesi partecipanti a garantire le libertà individuali e financo a facilitare i viaggi all'estero, e quel documento per anni fu rinfacciato ai paesi oltre cortina come cartina di tornasole delle riforme da effettuare. Più probabilmente, si tratterà invece di una dichiarazione d'intenti accompagnata da una serie di impegni forse più minimalisti ma più realisticamente realizzabili: la creazione di un forum permanente per la promozione delle riforme democratiche aperto non solo (e non tanto, vista la riluttanza) ai governi, ma anche alle espressioni della società civile, dalle università alle organizzazioni non governative, dalle imprese ai partiti e movimenti democratici; l'istituzione di un gruppo di assistenza alla democrazia che coordini gli interventi effettuati dalle singole organizzazioni nazionali; forse, l'istituzione di una Fondazione bilaterale per la democrazia, sul modello del National Endowment for Democracy americano; la nascita dei Literacy corps, per promuovere programmi di avvio alla lettura; e l'istituzione di un progetto di microfinanziamento destinato alla creazione e alla crescita di un tessuto di piccole imprese.
Dopo Sea Island, un altro passo dovrà essere compiuto a Istanbul, il 28 giugno, quando il vertice della Nato sarà chiamato a discutere i progetti di cooperazione militare con il mondo arabo. Con quanta attenzione a sostenere l'avanzamento della democrazia, è un punto interrogativo aperto.
Su IL FOGLIO, in prima pagina ,"Un G8 turco" che affronta il tema, non trattato da altri quotidiani, della crisi diplomatica tra Turchia e Israele, che si è prodotta in coincidenza con il vertice di Sea Island.Si ipotizza che la coincidenza non sia casuale, e che non manchino le responsabilità dell'Europa, per il suo rifiuto ad accogliere l'unica democrazia laica del mondo islamico. Ecco il pezzo.
Roma. Al centro delle discussioni al G8 c’è l’iniziativa americana per il Grande medio oriente, "Nuova Frontiera" in veste repubblicana. Nelle stesse ore, deflagra una crisi senza precedenti tra i più fedeli alleati degli Stati Uniti nella regione: Turchia e Israele. Mentre il premier turco, Recep Tayyp Erdogan, gestisce a Savannah l’indiscusso ruolo di capodelegazione virtuale dei paesi del medio oriente invitati (mancano Egitto, Arabia Saudita, Tunisia e Marocco), il suo ministro degli Esteri, Abdullah Gul, richiama ad Ankara "per consultazioni" l’ambasciatore a Tel Aviv, Feridun Sinirliogu e il console a Gerusalemme, Huseyn Bicakli. Tra i due momenti – la prospettiva di una nuova leadership turca sull’area araba e la crisi dell’alleanza turco-israeliana – c’è una correlazione. La mossa di Ankara contro Israele è a freddo: l’episodio di Refah è lontano settimane e la crescente preoccupazione, espressa ieri da Gul, per il processo di pace mediorientale è strana, alla luce della prospettiva del ritiro israeliano da Gaza e della fase positiva che pare aprirsi, con il non casuale appoggio del presidente egiziano, Hosni Mubarak, alla road map del premier Sharon. Perché allora la Turchia, da 50 anni il più fedele alleato di Israele nel Mediterraneo, apre una fase di "grande freddo"? Perché Erdogan, che ha firmato con Ariel Sharon contratti militari sempre più impegnativi sino a pochi mesi fa per l’ammodernamento della sua flotta aerea di F16 e dei suoi reparti corazzati, che ha collaborato intensamente con il Mossad in Kurdistan, che ha dispiegato la sua flotta a difesa di Israele durante la guerra americana contro Saddam Hussein, che ha siglato due mesi fa un contratto per vendere a Israele 50 milioni di metri cubi d’acqua l’anno via mare, ora definisce la politica israeliana "uguale a quella dell’Inquisizione spagnola contro gli ebrei?". Per due ragioni che si intersecano: la cecità della "vecchia Europa" e l’incapacità dei regimi arabi di avviare riforme anche minime. L’una e l’altra spingono il leader turco a percorrere una strada quasi obbligata: a dicembre, l’Ue inizia la trattativa con Ankara per il suo ingresso nell’Unione, ma molti indizi indicano che ben difficilmente andrà in porto. Alle diffidenze di sempre, non casualmente espresse dai governi e dai partiti europei che hanno contrastato l’azione americana in Iraq, si è aggiunta nelle ultime settimane una campagna elettorale in Francia, in Austria e in Germania, in cui proprio il rifiuto dell’ingresso della Turchia nell’Ue è stato il momento forte. Con una scelta opportunista, l’Ump di Jacques Chirac, il Ps di François Hollande, settori dell’Spd, la Cdu, i conservatori in Olanda, tutti i partiti austriaci (escluso quello di Raider, filo-turco), hanno giocato sulla paura dell’Islam per raggranellare consensi. Erdogan è quindi obbligato a elaborare una strategia alternativa, deve prendere atto che probabilmente l’Europa non vorrà la Turchia, che resterà sterilmente chiusa in se stessa. Dove inizia (e finisce) il Grande medio oriente Ecco il nuovo scenario aprirsi, dopo quasi un secolo, ai paesi arabi, offrendo loro un "sistema Turchia" economicamente e finanziariamente solido, politicamente affidabile. Ma, per sondare la percorribilità di questa via, Erdogan deve pagare un prezzo: sacrificare le relazioni amicali con Gerusalemme, entrare in sintonia con i paesi arabi sulla questione palestinese, facendo finta di non ricordarsi di averla sempre considerata con occhi più israeliani che arabi. Il cammino verso una rinnovata egemonia politica turca sui paesi arabi è favorito proprio dall’incapacità di questi ultimi di elaborare leadership al passo coi tempi. La reazione del Cairo, come quelle di Riad, di Beirut e di Tunisi, all’invito di George W. Bush a lavorare per un graduale piano di riforme sociali, culturali e politiche è stata stizzita quanto sterile. Mubarak si è lamentato per "l’ingerenza" e il principe saudita Abdallah non ne ha voluto neanche parlare. Il segretario di Stato americano, Colin Powell, ha chiesto all’Italia di tentare un ammorbidimento di queste posizioni e la Farnesina ha lavorato in tal senso nelle ultime settimane, ma la rigidità dei sistemi politici arabi è tale che i rais temono anche il solo parlare, sul serio, di riforme. Così a Savannah è tornata, dopo 50 anni, la logica del Northern Thier, l’asse tra Turchia, Iraq e Giordania (allora c’era anche l’Iran), non più bastione contro l’espansione sovietica, ma contro il fondamentalismo islamico. Dal G8 partirà dunque una forte iniziativa verso il medio oriente, ma sarà concentrata soltanto sul punto caldo della crisi, Baghdad; avrà per protagonisti tre leader – Erdogan, re Abdullah di Giordania e il premier iracheno Iyyad Allawi – che hanno interesse a tentare di costruire un "sistema" economico-politico integrato dall’Anatolia al Golfo. La scommessa è avvincente e riporta le lancette al 1958, quando i tre Stati lavoravano a un identico progetto, interrotto dal golpe di Abdul Karim Ghassem, che aprì le porte a Saddam Hussein.
A pagina 3 del FOGLIO, l'interessante articolo "La Road Map di Wolfowitz per conseganre l'Iraq agli iracheni", che di seguito riportiamo.
Paul Wolfowitz, architetto della guerra Iraq e della dottrina liberatrice esportatrice della democrazia in medio oriente, ieri ha scritto un articolo sul Wall Street Journal per spiegare, ora che Francia e Russia hanno dato l’ok al coinvolgimento pieno dell’Onu, le prossime tappe vista del passaggio dei poteri agli iracheni previsto per il 30 giugno. Che cosa succederà dopo? Quali provvedimenti andranno presi per garantire il processo democratico la sicurezza? Il sottosegretario alla Difesa ha delineato un piano che ha chiamato road map per un Iraq sovrano". Wolfowitz si è affidato ai giovani iracheni, ben noti lettori del Foglio, che in questo anno di libertà hanno aperto un blog su Internet per poter esprimere il proprio pensiero: "Sappiamo che non possiamo proteggere tutti, compresi i nostri leader e i più alti funzionari che diventano obiettivi principali dei terroristi – ha scritto Omar –ma possiamo rendere i loro tentativi vani facendo in modo che la leadership sia sostituibile". Per Wolfie questa possibilità è quella che i nemici del nuovo Iraq temono di più. La road map si articola in cinque fasi. La prima partirà il 30 giugno, quando il governo provvisorio erediterà i poteri dalla coalizione
guidata da Paul Bremer. Ci saranno un presidente, due vicepresidenti, un primo
ministro, un suo vice e 31 ministri. Costoro avranno la responsabilità, fino alle elezioni del gennaio 2005, dell’amministrazione ordinaria e saranno fondamentali per fornire la sicurezza di cui l’Iraq ha bisogno. I membri del gabinetto sono stati scelti attraverso un processo di ampie consultazioni con popolo iracheno condotte dall’inviato Onu Lakhdar Brahimi. Il presidente è Ghazi
Yawar, mentre il premier è Iyad Allawi. Il nuovo governo è diverso dal vecchio Consiglio governativo, solo 4 dei 26 membri del Consiglio sono entrati a far parte del nuovo organo. Sei sono le donne, "una cosa senza precedenti nella regione", ha commentato Zeyad, un altro blogger citato da Wolfowitz. Il primo di luglio gli Stati Uniti apriranno una nuova ambasciata, guidata da John Negroponte. Cambierà anche il carattere dell’impegno americano. Gli iracheni decideranno come governare il proprio paese, ma gli americani resteranno per aiutare lo sviluppo democratico e assicurare la sicurezza. L’obiettivo, in questa fase, sarà quello di aiutare la transizione politica, addestrare ed equipaggiare le forze di sicurezza irachene e preparare le elezioni nazionali.
La sicurezza è il fondamento per la vittoria, scrive Wolfowitz, ma la chiave per la sicurezza è rendere gli iracheni capaci di occuparsi della propria difesa. Attualmente ci sono oltre 200 mila iracheni in servizio o in addestramento nelle cinque forze di sicurezza irachene che sono il nuovo esercito, il corpo di difesa civile, la polizia, le guardie di frontiera e il servizio di protezione. Il risultato, un anno dopo la liberazione, è eccezionale ma i numeri non devono ingannare. Queste forze dell’ordine non sono ancora in grado di farcela da sole, come hanno dimostrato le crisi di Fallujah e Najaf. Nei prossimi mesi, grazie anche ai nuovi fondi in arrivo, l’obiettivo sarà quello di affidare maggiore responsabilità agli iracheni, consentendo loro di prendere il controllo delle città e relegando le forze della coalizione un ruolo di supporto. Contemporaneamente continuerà il processo di integrazione degli ufficiali iracheni nelle forze delle coalizione e il distaccamento di ufficiali della coalizione tra gli iracheni. Fondamentale sarà la costruzione di una catena di comando tutta irachena. Su questa lavoreranno nuovi ministri della Difesa e dell’Interno. Wolfowitz smentisce la notizia che la sicurezza di Fallujah sia stata affidata a un generale di Saddam. Mohammed Abdul-Latif, a una recente riunione di sceicchi, imam, capi tribali e consiglieri comunali, ha
spiegato loro che le truppe americane "sono arrivate qui a causa delle azioni di Saddam, un codardo che si è rifugiato in una tana da topi. Dobbiamo dire ai nostri figli che le truppe americane sono arrivate qui per proteggerci. Possiamo aiutarli ad andarsene aiutandoli a fare il loro lavoro". Secondo
Wolfowitz gli iracheni stanno facendo molto di più, tanto che 400 di loro quest’anno sonostati uccisi per la causa di un Iraq libero dal terrore. E nonostante le intimidazioni persistono a difendere il loro paese. Il terzo punto del piano riguarda la ricostruzione delle infrastrutture civili, profondamente danneggiate da anni di inadempienze saddamite. I proventi del petrolio,fin qui quasi 20 miliardi di dollari, sono andati al Fondo per lo sviluppo dell’Iraq che finanzia le operazioni e i progetti di ricostruzione.
Entro la fine dell’anno è prevista la disponibilità di altri 8 miliardi di dollari provenienti dai ricavi petroliferi. Questi soldi stanno già pagando i salari di più di 350 mila insegnanti e di 100 mila medici e infermieri.
Circa 4 miliardi di dollari sono stati utilizzati per migliorare le infrastrutture elettriche e petrolifere, acquedotti, progetti di irrigazione, riaperture delle scuole e degli ospedali. La spesa sanitaria è aumentata di 30 volte rispetto ai livelli precedenti la guerra e per la prima volta da tempo sono cominciate le vaccinazioni per i bambini. Ma è necessario migliorare la produzione elettrica e petrolifera, entrambe obiettivo dei terroristi.
Il quarto punto prevede il sostegno internazionale alla transizione. L’Onu ha già avuto un ruolo importante e ora si occupa del processo elettorale. Fin qui 31 nazioni, oltre agli Stati Uniti, hanno truppe in Iraq, 70 paesi hanno già inviato soldi. Al quinto punto le elezioni, tra sei mesi, per la nuova Costituzione, il referendum e, infine, il voto per la scelta del primo governo eletto direttamente, previsto entro la fine del 2005. La sfida principale, spiega Wolfowitz, sarà quella di fornire una sicurezza adeguata: "Gli assassini che hanno tenuto Saddam al potere e che temono un Iraq libero faranno di tutto, con il terrore e la violenza, per fermare questo progresso. Sono esperti in morte e distruzione, e non dovranno essere sottovalutati, ma non offrono nulla di positivo agli iracheni. I nostri nemici capiscono che l’Iraq ora è il campo
di battaglia centrale della guerra al terrorismo. Ma il peso non è più soltanto sulle nostre spalle. In un tempo straordinariamente breve, i leader iracheni, nonostante tutte le diversità, hanno mostrato che stanno imparando l’arte del compromesso politico e sono impegnati per tenere unito il paese. Ora è arrivato il momento in cui gli iracheni si devono mostrare all’altezza della sfida.
E’ l’ora che gli iracheni prendano in mano il futuro dell’Iraq".
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