Di un terrorista fanno un eroe:
Marwan Barghouti visto da due quotidiani italiani
Testata:
Data: 07/06/2004
Pagina: 9
Autore: Mimmo Càndito - un giornalista
Titolo: Marwan Barghouti condannato
Su LA STAMPA di oggi viene dato spazio alla vicenda della condanna all'ergastolo del capo dei Tanzim, Marwan Barghouti, giudicato il mandante e l'organizzatore di alcuni attentati che hanno causato la morte di civili israeliani. Mimmo Candito si sofferma con particolare enfasi sulla figura di questo personaggio, scomodando tra gli altri Mazzini, Garibaldi e Nelson Mandela. Barghouti viene descritto come il futuro leader perfetto per i palestinesi: laico, giovane e di estrazione popolare, insomma il classico homo novus di grande carisma. Niente viene detto sulle circostanze che hanno portato alla sua condanna, come se il fatto che Barghouti si sia macchiato di gravi crimini non contasse nulla.
Ecco il pezzo: "Cinque ergastoli più 40 anni al capo dell'Intifada Barghouti".

Non è un Garibaldi, e nemmeno un Mazzini. Non è nemmeno il «Che» della rivoluzione degli oppressi, questo Marwan Barghouti condannato ieri a 5 ergastoli; eppure, in qualche modo, ha nella propria storia pezzi della storia di quei tre protagonisti, perché è un leader guerrigliero, ma anche un capo politico-militare e anche un tessitore di manovre diplomatiche. E Israele lo sa bene. Lo sanno Sharon e il Likud e però lo sanno anche Peres e i laburisti; e questo significa che pure la condanna ricevuta ieri sta comunque dentro quel percorso tormentato dove prima o poi si ritroveranno coloro che dovranno decidere il «due popoli due Stati».
Scomodare infatti Garibaldi&Mazzini, e anche il Che, non avrebbe senso se non fosse che quanto sta accadendo in Medio Oriente è comunque la lotta di liberazione nazionale d'un territorio occupato, è anche la lotta per la fondazione d'uno Stato, e tutti coloro che - da una parte e dall'altra - si combattono per una soluzione della crisi nelle terre dell'antica Palestina sono anche consapevoli che a Barghouti la storia ha assegnato un ruolo. Che magari le circostanze poi tradiranno, ma che oggi - pur dopo due anni di galera e le cinque condanne di ieri - appare ancora centrale nella dinamica del confronto politico e militare. Dietro la retorica dell'emozione, aveva perciò ragione un deputato arabo della Knesseth, Mohammad Barakeh, quando ieri gridava da lontano al condannato Barghouti: «Quelli che ora ti condannano, presto dovranno negoziare con te». E ricordava Nelson Mandela.
Barghouti, ancora oggi, è il più credibile dei leader palestinesi nel progetto d'una difficile redistribuzione degli equilibri interni all'Autorità provvisoria, per quando la primogenitura delle armi (e del terrore e dei kamikaze) dovrà cedere progressivamente l'iniziativa all'ala politica del movimento di rivolta. Compatto, tracagnotto, una corta barba, 44 anni difficili, Barghouti ha nella propria storia di militante una complessità di elementi identitari che è difficile trovare - tutti, e con la stessa combinazione - in altri leader. Ha diretto la rivolta universitaria di Bir Zeit, ha preso la guida del movimento studentesco di Shaiba, poi dell'organizzazione giovanile Tanzim e poi della componente guerrigliera della Brigata di al-Aqsa, è dovuto andare in esilio in Giordania e in Tunisia dopo 4 nanni di galera, è stato il più giovane dei prescelti nel Consiglio nazionale, è un deputato del (quasi) parlamento palestinese, ed è considerato un possibile interlocutore da parte della sinistra israeliana.
E' certamente un nazionalista. Quando, anni fa, gli chiesi della inquietante contraddizione che la scelta partigiana d'una lotta di liberazione può aprire se si concede all'inquinamento d'una tattica terroristica, disse amaro che «un popolo oppresso deve ricorrere alle armi, per guadagnarsi la propria libertà» e non volle aggiungere altro. Forse non rispondeva alla domanda, ma certo dichiarava che la strategia di quella lotta è un elemento del quale lo Stato d'Israele non può non tener conto. Barghouti: 1) E' giovane, non solo per i suoi 44 anni ma soprattutto perché ha un legame stretto con il movimento giovanile dell'Intifada, quella d'oggi come la prima di 17 anni fa. In un'Autorità Nazionale governata dalla gerontocrazia di Arafat&Co, questi rapporti «diversi» contano molto per accattivarsi il consenso politico. 2) E' «figlio del popolo» ma è anche un leader universitario. L'integrazione delle due biografie gli consente di essere al fianco dei più esaltati dell'ala militarista ma poi di ritrovarsi credibilmente anche al fianco dei professionisti della politica nazionalista. 3) Ha vissuto alcuni anni in esilio, è però considerato dai suoi connazionali come un indubitabile cittadino «dell'interno», cioè come uno che la propria vita e la propria lotta le ha condotte da dentro le terre arse e i campi profughi che fanno la vecchia Cisgiordania. Di fronte ai malumori popolari verso l'occupazione d'ogni carica istituzionale che hanno compiuto a man bassa «i tunisini» (è la sprezzante definizione che accomuna i capi della diaspora palestinese), l'essere un leader «dell'interno» garantisce quote elevate di simpatia e di popolarità.
C'è un quarto elemento, infine, che fa la biografia autentica (e, fino a oggi, insostituibile) di Barghouti: il suo laicismo. E questo elemento va tenuto in assai seria considerazione oggi che tutte le tensioni che agitano il mondo arabo-musulmano rischiano di schiacciare dentro la cornice del fondamentalismo le ragioni di lotte che hanno alla propria radice ben altra natura, com'è - per esempio - la lotta palestinese contro l'occupazione israeliana. Finora questa lotta è stata anzitutto una lotta di liberazione nazionale (e il giudizio sugli atti di terrorismo può comunque sostituire la mancata risposta di Barghouti alla domanda che gli venne fatta anni fa); il peso sempre più decisivo che però vanno prendendo organizzazioni militar-religiose come gli Hezbollah e Hamas segnala i rischi di una escalation che può precipitare nel calderone angoscioso di Al Qaeda e del fondamentalismo terrorista quella ch'è sempre stata una battaglia soltanto nazionalista. Israele, anche quando condanna Barghouti, non può ignorare questo fantasma che sta sull'orizzonte del suo Oriente.
Anche REPUBBLICA dedica un articolo all'argomento. Quando il tribunale israeliano, poche settimane or sono, dichiarò Barghouti colpevole dei reati di cui era incolpato, Stabile pubblicò su Repubblica un lungo peana in onore del leader di Fatah, dipingendolo con toni melodrammatici come un eroe della pace e della fraternità, ed un martire della malvagità israeliana.
Oggi che quella condanna è stata trasfrormata dalla medesima corte di giustizia in cinque ergastoli e 40 anni di carcere, REPUBBLICA, con una firma diversa, pubblica un resoconto non diverso da quello: "Barghouti condannato a cinque ergastoli".

La corte d´Israele ieri ha emesso il verdetto contro Marwan Barghouti, il più celebre imputato palestinese: "spietato terrorista" per l´accusa, "Mandela della Palestina" agli occhi dei sostenitori. Cinque ergastoli per aver ispirato altrettanti omicidi, e 40 anni di pena aggiuntiva per delitti contro la sicurezza d´Israele: detenzione di armi e partecipazione a banda armata. Scampato a un assassinio mirato nel 2001, Barghouti, leader di Al Fatah in Cisgiordania, deputato parlamentare, carismatico leader dei Tanzim, e il più amato dalla base popolare, è stato sequestrato da un commando a Ramallah nell´aprile 2002.
Un giudizio annunciato, tanto che da Parigi Gisèle Halimi, principe del foro francese, difensore d´elezione del fatahui di Ramallah, riassume la risposta del collegio avvocatizio così: «La sproporzione della pena conferma la natura politica del processo, che viola il diritto internazionale. Barghouti non ricorrerà in appello, negando ogni autorità alla corte». Maitre Halimi, la donna che ha spalancato la coscienza della Francia agli orrori della guerra algerina, che ha contestato le corti della Spagna franchista, è inflessibile nel rifiuto.
Spiega: «Lo scandisce la Convenzione di Ginevra, capitolo 4, articolo 49: se l´occupante preleva e trasferisce un individuo commette un crimine di guerra. Aggiunga gli accordi di Oslo, tuttora in vigore, che vietano arresti nella zona A, dov´è Ramallah. Infine Barghouti gode dell´immunità parlamentare. Soprattutto, però, si è trattato di un processo farsa».
Perché? «Su 128 testimoni, 96 erano israeliani. Le deposizioni palestinesi sono state estorte con la forza, e in aula i testimoni hanno ritrattato. Così il processo si è ritorto contro chi l´ha voluto. Ha offerto a Barghouti un podio per rivolgersi anche a Israele, dove ha molti sostenitori. E gli ha regalato i tratti di un Mandela mediorientale».
Un paragone eccessivo? «Non direi. Barghouti è un intellettuale, un umanista, coraggioso: l´unico leader palestinese che abbia espresso dolore di fronte alla morte dei civili, anche israeliani. L´unico dotato di una visione del futuro, di un´intesa con Israele, di un avvenire persino di fratellanza. Per ironia, il verdetto è arrivato il 6 giugno: la storia insegna come tanti "terroristi" siano divenuti eroi della resistenza». (a.v.b.)
Proviamo a precisare ed analizzare alcuni punti della situazione:

1) Barghouti, contrariamente a quanto affermato nell'articolo, non è stato né rapito (parola a suo tempo usata da Stabile) né sequestrato, ma semplicemente arrestato; l'Autorità Palestinese non aveva ritenuto di ottemperare alle richieste in tal senso avanzate da Israele in base a quanto stabilito negli accordi di Oslo, e di conseguenza Israele ha agito, come quegli accordi prevedevano, di sua iniziativa.
2) Barghouti è stato processato regolarmente secondo le procedure di uno
stato di diritto come è quello israeliano, ed avrebbe ora la possibilità di
ricorrere in appello, ma non riconoscendo la giurisdizione di Israele si asterrà dal farlo.
3) Barghouti ha potuto avvalersi di un collegio di difesa internazionale,
molto agguerrito e dichiaratamente filo-palestinese.

Questo va sottolineato con forza in punto di diritto. Passando dalla forma
al merito, va anche aggiunto che un imputato di reati molto meno importanti,
nei territori amministrati dall'Autorità Palestinese, sarebbe stato semplicemente linciato o ucciso in una piazza, come è spesso avvenuto in
questi tre anni. In uno stato arabo qualsiasi, sarebbe stato condannato a
morte. In qualsiasi stato di diritto, inclusa l'Italia, un imputato giudicato colpevole di 5 omicidi viene sicuramente condannato ad uno o più ergastoli.
Dunque, cosa scandalizza tanto Repubblica? Ma che sia stato un tribunale
israeliano a condannare un leader palestinese, perbacco! Lo dimostra, se ce
ne fosse bisogno, il fatto che in questo articolo come in quello già citato
di Stabile viene data la notizia in maniera scarna, e poi seguono commenti e
giudizi della sola parte palestinese.

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