Terrorismo di casa nostra
L'inchiesta di Magdi Allam e un libro appena uscito
Testata: Corriere della Sera
Data: 04/06/2004
Pagina: 1
Autore: Magdi Allam - Stefano Dambruoso e Guido Olimpio
Titolo: Terrorismo in Italia
Pubblichiamo l'inchiesta di Magdi Allam sul terrorismo che può colpire l'Italia e una anticipazione del libro del Magistrato Stefano Dambruoso (in collaborazione con Guidom Olimpio) "Milano Bagdad", editore Mondadori.

Ecco l'articolo di Magdi Allam:

Perché gli italiani? Perché i nostri connazionali sono gli unici, tra le decine di ostaggi stranieri rapiti in Iraq, a venir strumentalizzati in una disumana e logorante manovra politica per umiliare e ricattare il governo di Roma? Perché la nostra ambasciata a Bagdad viene pesantemente bombardata proprio ora che il piano di pace dell'Onu riduce il fossato tra maggioranza e opposizione? È evidente che ci troviamo di fronte a un sequestro del tutto anomalo nella sua ideazione, gestione e finalità. Così come è chiaro che l'attacco all'ambasciata si colloca in una unica strategia del terrore volta a costringere l'Italia a ritirare le proprie forze dall’Iraq.
C'è il timore che i terroristi vogliano usare le vite dei nostri ostaggi come le bombe sui treni di Madrid. Insomma un 11 marzo italiano. Un piano preannunciato nel documento strategico di Al Qaeda dello scorso 8 dicembre, ( « L' Iraq della Jihad: speranze e pericoli » ) , in cui si puntualizzava: « Confermiamo che il ritiro delle forze spagnole e italiane dall'Iraq costituirà una formidabile pressione sulla presenza britannica che Tony Blair non riuscirà a sopportare. E' in tal modo che cadranno rapidamente le altre tessere del domino » . Dello stesso tenore sono le posizioni espresse nei documenti della sedicente Resistenza irachena. L'offensiva contro gli italiani in Iraq si colloca in questo contesto politico.
Ormai nessuno in Italia dubita del fatto che la peculiarità del sequestro dei nostri connazionali si deve alla sua natura esclusivamente politica. Che non ha nulla a che fare con la gran parte dei sequestri risoltisi con il pagamento di un lauto riscatto in denaro. Un fenomeno inedito e inspiegabile persino alle forze irachene che hanno finora svolto la mediazione con i sequestratori, compreso il Consiglio degli ulema musulmani ( formato da giureconsulti di confessione sunnita). Forze che a distanza di un mese e mezzo non sono riuscite neppure a individuare un referente credibile con cui trattare.
E' forte il convincimento che Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio siano nelle mani di ex agenti dei Mukhabarat, i famigerati servizi segreti di Saddam Hussein.
L'ultimo video che li ritrae con la parete spoglia alle spalle, onde evitare qualsiasi tratto distintivo, ricorda la scelta coreografica degli ultimi messaggi registrati di Saddam dai suoi bunker sotterranei. Ma è anche evidente la presenza degli estremisti islamici di Al Qaeda tra i sequestratori. I più intransigenti. Quelli che avrebbero tutto da perdere dall'eventuale stabilizzazione e pacificazione dell'Iraq. Che stanno imponendo a suon di pene corporali la sharia, la legge islamica, all'interno di Falluja.
Esaltata come la loro roccaforte « martire » e « inespugnata » . E' questa doppia anima che convive all'interno della sigla « Brigata Verde » , che ha rivendicato il sequestro.
Una testimonianza ci viene anche dal cambiamento nella scelta del canale di diffusione dei messaggi: prima la rete televisiva Al Jazira il 13 aprile, più vicina agli islamici; poi Al Arabiya il 26 aprile, preferita dagli ex baasisti iracheni; per poi tornare a Al Jazira il 2 giugno. Ugualmente nessuno più dubita del fatto che dietro al sequestro ci sia una mente e una regia « italiana » . Nel senso che i terroristi hanno dimostrato una indubbia capacità di lettura, interpretazione e manipolazione della nostra realtà politica. Con una tempestività impressionante. È del tutto scontato che tra i sequestratori ci sia qualcuno che capisce l'italiano. Perfettamente. Perché non si tratta solo di controllare ciò che è stato consentito di dire a Stefio davanti alla telecamera. Bensì di redigere il testo di quegli interventi. Con dei contenuti appropriati e con una forma impeccabile.
Ed è qui che si pone un problema. È verosimile che un iracheno, magari un ex agente dei Mukhabarat attivi in Italia sotto il regime di Saddam, possa aver acquisito un alto livello di competenza della nostra politica e di padronanza della nostra lingua, al punto da poter competere con un italiano autoctono? È un' ipotesi debole. L'attività fondamentale dell' ambasciata irachena a Roma non era affatto quella di monitorare la vita politica italiana.
L'unico aspetto della realtà interna del nostro Paese che interessava allora era l'acquisto degli armamenti. Il compito istituzionale dell'ambasciata era il controllo e la repressione dei dissidenti iracheni residenti in Italia, nonché lo spionaggio delle altre ambasciate arabe. Ecco perché il livello di conoscenza della lingua italiana sia dei diplomatici sia degli agenti segreti iracheni era scarso. Con rare eccezioni. Ma è indubbio che l'ambasciata godeva di una rete di collaboratori, tra la folta comunità araba da anni residente nel nostro Paese, tra cui alcuni con una buona conoscenza della lingua e della politica italiana. Così come è assodato che in seno a talune frange di estrema sinistra e estrema destra italiane ci siano dei militanti convinti della giustezza della causa della Resistenza irachena, al punto da plaudire e legittimare la strage dei carabinieri a Nassiriya. E' comunque in questo contesto che si sta consumando il dramma dei nostri connazionali e l'offensiva che ha come bersaglio la presenza dei nostri soldati in Iraq.



E l'anticipazione di "Milano Bagdad":
Notti insonni e punizioni esemplari, così Al Qaeda addestra i suoi eroi

L’ANTICIPAZIONE
di STEFANO DAMBRUOSO e GUIDO OLIMPIO
« Milano- Bagdad, diario di un magistrato in prima linea nella lotta al terrorismo islamico in Italia » . Il libro, edito da Mondadori, è stato scritto da Stefano Dambruoso, che per anni ha guidato delicate indagini sull’eversione, e dal giornalista del Corriere Guido Olimpio. Anticipiamo un brano del libro che uscirà l’ 8 giugno.
La vita nei campi d'addestramento è grama. Poche ore di sonno, preghiere ed esercitazioni estenuanti. Si spara con tutto. Kalashnikov, pistole, lanciagranate, lanciamissili antiaereo. Si apprende come preparare un ordigno usando materiale reperibile in commercio, si studia come uccidere una persona ' in silenzio', con le mani o uno stiletto. Il rancio è pessimo, le camerate sono delle stamberghe.
In molti vivono nelle tende, erette attorno a una struttura fatta con mattoni a secco. È la sala dell'assemblea. Si trovano qui a pregare, ad ascoltare i discorsi di indottrinamento, a vedere qualche videocassetta di propaganda. Nei campi c'è chi crolla e chiede di potersene tornare a casa. Gli europei, abituati alle comodità, patiscono più degli altri. Gli egiziani, che compongono la gerarchia alta di Al Qaeda, tartassano gli altri nordafricani. Li mettono sempre di guardia, li fanno sgobbare.
Ma la maggior parte stringe i denti. Non si piega neppure davanti alle punizioni che vengono inferte. Se commetti un errore — ci ha raccontato un pentito — vieni costretto a fare di corsa una salita, sulla schiena un contenitore pieno d'acqua. Altrimenti devi correre sulla sabbia ardente. Se la colpa è grave ti appendono per le braccia a una trave e poi giù vergate con tubi di gomma. In teoria il dolore non dovrebbe spaventare chi offre la vita per fare l'attentatore suicida.
Non è così. Finché non arrivi a quel momento, dove agisci come un robot, senti la frustata sulla pelle, patisci la fatica.
Chiedo a Trabelsi quale fosse il suo compito nel campo. Risponde quasi scherzando: ' Ero un calciatore, no? Allora organizzavo partite di pallone'. Non posso fare a meno di immaginare ventidue aspiranti kamikaze rincorrere la palla in una radura in mezzo alle gole afgane. Verrebbe da sorridere se non fosse che davanti hai un apparato con una struttura scientificamente organizzata.
È ancora Shadi Abdallah a confermarci il rigore dell' organizzazione nel preparare gli attentati. Ne parla con cognizione di causa, rammenta il suo passato in Afghanistan dove ha visto muovere « i primi passi » di Al Zarkawi, il giordano che impartisce gli ordini alla cellula italiana.
Shadi ha ricostruito il meccanismo che c'è dietro un attacco. Una dozzina di uomini, una macchina fotografica digitale e un computer.
« In primo luogo i
Nel libro si racconta dei kamikaze partiti dall’Italia e poi morti in Iraq
vertici, in Afghanistan ( o in un altro Stato) contattano i loro corrispondenti, per esempio, in Germania e concorderanno l'obiettivo dell'attacco — afferma il pentito — . I referenti in Germania daranno l'incarico, al massimo a tre persone, di raccogliere informazioni sull'obiettivo e dintorni » . È la ricognizione durante la quale i terroristi scattano foto o fanno riprese, esaminano con attenzione il territorio, valutano ogni possibile rischio... Chiusa questa fase, che può durare anche mesi, gli esploratori trasmettono ogni dato a un responsabile locale, l'emiro. Il capocellula e il suo vice analizzano « il rapporto » . In alcuni casi possono inviare le immagini dei possibili obiettivi ai loro superiori all'estero, una sorta di catalogo di bersagli. Utilizzano le email per spedire foto digitali e videocassette di cartoni animati all'interno delle quali sono infilati gli « spezzoni » filmati. Saranno poi i referenti del gruppo a decidere cosa colpire. Nella procedura più veloce la scelta spetta all'emiro locale. Stabilita la fattibilità del piano, si passa alla fase due. « Ancora una volta verranno incaricate al massimo tre persone che dovranno occuparsi dei preparativi effettivi » sostiene Shadi. « Tali persone dovranno valutare anche i costi che ne deriveranno e i materiali da procurare: esplosivo, auto » . Nuova relazione all'emiro. « A questo punto, se i vertici saranno d'accordo con quanto fatto finora, incaricheranno altre tre persone affinché provvedano ad altri preparativi: come la messa a punto della bomba, l'uso di un furgone o di un aeroplano o di altro » . Deciso il mezzo, occorre pensare agli uomini. Il capo della cellula designerà « la persona o le persone che dovranno eseguire l'attentato vero e proprio, definendo la data e l'ora » . Tutto deve avvenire nella più ferrea compartimentazione e a tal fine i terroristi tendono a usare i parenti più stretti. In passato le formazioni estremiste dovevano aspettare l'arrivo dall' estero dei « militari » , ossia degli uomini capaci di mettere insieme i pezzi di una bomba. Oggi, grazie alle esperienze nei rifugi dell'Afghanistan, l'artificiere si trova già sul posto. Per il pentito un gruppo di fuoco può essere formato da nove membri per la logistica, un paio di esecutori, l'emiro e il suo braccio destro. Poco più di una dozzina di terroristi... Al Qaeda forma il suo esercito senza gradi e senza unità attingendo risorse in tre serbatoi.
Il primo è quello di tunisini, algerini, marocchini, egiziani, yemeniti appartenenti a formazioni estremiste regionali ( Gia, Jihad, Jamaa...). Sono ideologicamente ben preparati, credono nella violenza come strumento politico. Hanno provato a sfondare sul fronte locale — Egitto, Algeria — ma la repressione dei loro regimi è stata spietata. Allora riordinano idee e progetti in Afghanistan, poi tornano all' offensiva contro un avversario più universale.




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