Kuwait. USA, Arabia Saudita: la guerra al terrorismo
nelle analisi di Olimpio-Molinari-Pipes
Testata:
Data: 02/06/2004
Pagina: 3
Autore: Guido Olimpio-Maurizio Molinari-Daniel Pipes
Titolo: Medio Oriente-Terrosrismo
Tre interessanti analisi oggi su Corriere della Sera, La Stampa,Il Foglio.
Guido Olimpio analizza il terrorismo in Kuwait, Maurizio Molinari descrive lo scenario dall'America e Daniel Pipes i rapporti dell'Occidente con l'Arabia Saudita.

Cominciamo con Guido Olimpio sul Corriere della Sera:
"La trama del predicatore Abu Thabet: aprire il Fronte Kuwait" a pag.9

Per ora si conosce solo il nome di battaglia. Abu Thabet. Kuwaitiano, predicatore di fede sciita, ha studiato nella città santa di Qom ( Iran), è sospettato di essere il leader di una organizzazione clandestina. L’obiettivo del gruppo è la destabilizzazione del Kuwait, spingendo l'emirato verso l'arco della crisi che sconvolge la rotta del petrolio. Per un anno la formazione ha arruolato mujaheddin e li ha inviati a combattere in Iraq. Ma tra le autorità è crescente il timore che il nucleo jihadista possa passare all'azione all'interno del Kuwait.
La storia di Abu Thabet è particolare e ricorda quella di un altro ribelle, famoso in questi mesi, lo sciita iracheno Moqtada Al Sadr. Nel 2002 il mullah Abu Thabet raggiunge Qom per perfezionare i suoi studi. Ha ottenuto facilmente il visto e l'accesso alle scuole di teologia perché ha in tasca la segnalazione di un operativo dell' intelligence iraniana in Kuwait. Lo 007 è rimasto colpito dal fervore rivoluzionario e dalla determinazione politica del giovane, doti che ne fanno il candidato ideale a guidare una cellula.
Durante il soggiorno a Qom — racconta una nostra fonte a Dubai — Abu Thabet sorprende positivamente gli iraniani. Il suo impegno va oltre ogni attesa e l'intelligence decide di rimandarlo in patria con una missione. Abu Thabet entra all'Università del Kuwait come membro dello staff nella facoltà di studi religiosi. Usando questa posizione il mullah allarga il network di rapporti sia con il corpo insegnanti che con giovani di fede sciita. E' il classico agente di influenza, con compiti da reclutatore.
La guerra in Iraq offre ad Abu Thabet una nuova opportunità: può selezionare ragazzi disposti a unirsi alla resistenza irachena. Ed è quello che avviene. Un primo nucleo raccolto attorno al mullah parte per l'Iraq, alcuni tornano, altri restano uccisi sul campo.
Per proteggere l'organizzazione, Teheran offre ad Abu Thabet una rete di sostegno. I volontari seguiranno brevi corsi di preparazione militare non in Kuwait, ma in Siria, Libano e nello stesso Iraq. Un profilo basso legato all'azione delle autorità kuwaitiane.
I servizi di sicurezza locali — afferma la nostra fonte — avrebbero le prove di un summit tra 007 iraniani e rappresentanti di un partito sciita fuorilegge. La scoperta è stata seguita da una protesta diplomatica e da un avvertimento a Teheran ad astenersi da ogni ingerenza. C'è il sospetto che i jihadisti sciiti abbiano nella loro agenda un progetto che investe direttamente il piccolo Stato petrolifero. A un membro dell'organizzazione caduto nelle mani della polizia è stata trovata una cartina con Iraq, Iran e Kuwait racchiusi da un cerchietto rosso.
Secondo gli esperti kuwaitiani Teheran, che ha già un piede in Iraq attraverso la forte comunità sciita, vuole estendere la sua influenza in Kuwait per creare « un grande Iran ».
Maurizio Molinari su La Stampa: "Alla ricerca degli alleati perduti" in prima pagina.
La formazione del governo ad interim iracheno sotto gli auspici dell’Onu inaugura quello che si annuncia come il mese più lungo di George W. Bush. Forte del successo ottenuto con l’insediamento dei ministri a Baghdad e dell’intesa personale e politica con il premier iracheno Iyad Allawi, il Presidente americano inizia venerdì a Roma una corsa a tappe disseminata di vecchi rischi come di nuove opportunità. La scommessa della Casa Bianca è di innescare una fase di cooperazione internazionale sommando risultati in crescendo: definitiva riconciliazione con la Francia di Jacques Chirac sulle spiagge della Normandia, patto sulla nuova risoluzione Onu al summit del G-8 di Sea Island e accordo sull’impegno della Nato in Iraq al vertice atlantico che avverrà in Turchia alla vigilia del trasferimento dei poteri.
La posta in palio non potrebbe essere più alta. Se la maratona diplomatica riuscirà, la comunità internazionale si unirà sulla transizione in Iraq come già avviene sull’Afghanistan, accompagnando assieme entrambe le nazioni ex terroriste verso le prime libere elezioni. E la data del 30 giugno segnerà non solo il ripristino della sovranità irachena, ma anche il superamento della più seria crisi consumatasi fra alleati dalla fine della Seconda guerra mondiale, che si aprì con la decisione americana di rovesciare Saddam Hussein.
A decidere la sorte di un mese cruciale per l’Iraq e per i rapporti transatlantici come per Bush e per la sua rielezione in novembre, saranno due elementi variabili. Primo: la flessibilità di Washington sulla delicata questione del comando della forza multinazionale ovvero la possibilità di definire nel testo della risoluzione Onu un compromesso legale e lessicale che consenta agli Stati Uniti di conservare il controllo dei loro 138 mila soldati ed a Baghdad di non cedere nulla della sua ritrovata e piena sovranità. Secondo: la capacità militare della guerriglia irachena e di organizzazioni terroristiche come Al Qaeda di far deragliare la transizione mettendo a segno attentati contro il governo Allawi e i Paesi della coalizione.
Con Baghdad alle soglie della sovranità, il Palazzo di Vetro al lavoro sulla risoluzione e Stati Uniti ed Europa in rotta di riavvicinamento, la cautela resta tuttavia d'obbligo per via delle forti incertezze politiche legate alla continuazione in Iraq di un conflitto senza tregua fra forze alleate e guerriglia.

Daniel Pipes sul Foglio: "Chi sono gli Ikhwan, e come è nata e cresciuta nella casa di Re Saud la serpe in seno". A pag.2 dell'inserto.
A cominciare dal primo attacco terroristico dello scorso anno, l’Arabia saudita ha assistito ad almeno un episodio di efferata violenza al mese. Questo schema ha raggiunto il culmine con quattro episodi verificatisi questo mese, incluso l’attacco mortale sferrato lo scorso fine settimana contro un complesso residenziale di al Khobar. Sebbene gli attacchi siano diretti principalmente contro stranieri, l’infrastruttura economica del paese, riflettono una profonda divisione in seno alla società saudita, con implicazioni ben maggiori. I problemi in questione riguardano l’orientamento religioso, politico ed economico, e protraggono un conflitto iniziato quasi un secolo fa. Il regno saudita ha preso forma intorno 1750, quando Muhammad al Saud, un capo tribale, dette vita a un’alleanza con Muhammad bin Abd al Wahhab, un leader religioso. Saud conferì il suo nome al regno che (a eccezione di due brevi periodi) esiste ancora oggi; il nome di al Wahhab definisce l’interpretazione islamica che è alla base dell’ideologia del regno. Quando apparve per la prima volta, il wahabismo venne considerato dagli altri musulmani come un movimento estremista
e non attecchì molto al di là del suo luogo di origine, l’Arabia centrale. Il suo rifiuto dell’identità islamica dei musulmani non wahabiti, insieme alla sua dura opposizione nei confronti dei costumi musulmani tradizionali, rese il wahabismo inaccettabile per le potenze mediorientali, in particolare per l’Impero ottomano. L’ostilità assai diffusa nei confronti dell’intolleranza saudita spiega il perché il wahabismo subì un duplice crollo. Bernard Lewis usa un’analogia americana che aiuta a immaginare la posizione saudita tra i musulmani: "Immaginate che Ku Klux Klan abbia l’assoluto controllo dello Stato del Texas; e che il Ku Klux Klan disponga di tutti gli impianti petroliferi
texani, i cui proventi vengono utilizzati per costruire una ben fornita rete di
college e scuole per tutti i cristiani, diffondendo il loro peculiare marchio di Cristianità. Avrete così un equivalente approssimativo di quello che accade nel mondo musulmano moderno". L’esercito wahabita Il terzo regno saudita venne fondato nel 1902, quando Abdul-Aziz Ibn Saud espugnò la città di Riad. Dieci anni dopo, Abdul- Aziz formò un esercito chiamato Ikhwan (in arabo fratelli) che divenne il reparto d’assalto del movimento wahabita, armato, aggressivo e fanatico. Esso era noto per un grido di guerra che sintetizzava la sua visione: "Le ali del Paradiso volano. Dove siete voi che bramate il Paradiso?"
Gli Ikhwan vinsero la maggior parte delle battaglie, espandendo il dominio
saudita e le pratiche wahabite. La vittoria più grande arrivò nel 1924, quando sottrassero la Mecca alla dinastia hashemita, che da secoli deteneva il controllo della città (e oggi continua a governare la Giordania). Questa vittoria da parte di Abdul-Aziz ebbe due implicazioni. Con la sconfitta dell’ultimo avversario arabo venne sancito l’assoluto dominio saudita sulla penisola arabica. Il fatto di porre sotto la giurisdizione saudita sia la città santa per eccellenza dell’Islam sia la principale area urbana della penisola, creò nuove tensioni per il wahabismo. Le semplici verità dei decenni passati vennero messe in dubbio. I sauditi dovettero sviluppare sofisticati rapporti diplomatici con le potenze esterne, mentre accedevano al clima relativamente liberale, prevalente alla Mecca. Abdul-Aziz si rese presto conto della necessità di controllare gli Ikhwan e le frange più ribelli del wahabismo. Quando, negli anni successivi alla conquista della Mecca, usò una linea
più dura nei confronti degli Ikhwan, questi insorsero, scatenando una guerra
civile che si protrasse finché, nel 1930, Abdul- Aziz sconfisse le forze ribelli. Visti in un’ottica moderna, gli Ikhwan potrebbero assomigliare ai talebani, nella loro più grande purezza e nel loro estremismo, e Abdul-Aziz potrebbe essere paragonato ai suoi discendenti, che continuano a governare il regno, meno puro rispetto a quello da lui fondato. La sua vittoria, nel 1930, ha significato la sconfitta di una versione più fanatica del wahabismo ad opera di una versione più moderata. Se la monarchia saudita è sempre stata più rigorosamente islamica rispetto quelle vicine, essa è stata altresì lassista,
secondo i primi criteri della dottrina wahabita. E’ vero, la monarchia ritiene che il Corano rappresenti la sua Costituzione, vie- ta ogni culto religioso eccetto l’Islam, finanzia la Mutawwa, la celebre polizia religiosa, e impone l’apartheid sessuale. Ma essa è più blanda rispetto alla versione proposta dagli Ikhwan, poiché emana delle leggi non coraniche, permette tacitamente
l’esercizio di culti religiosi non islamici, limita i compiti della Mutawwa
permette alle donne di uscire di casa. Comunque, l’approccio degli Ikhwan
all’Islam non si è concluso nel 1930. Esso si è ritirato e ha tenuto in pugno gli elementi di retroguardia. Quando, nell’era del petrolio, la monarchia saudita è diventata ancor più tronfia e ipocrita, il fascino del messaggio degli Ikhwan ha guadagnato terreno. Il richiamo purista si è imposto per la prima volta all’attenzione mondiale nel 1979, quando un gruppo di giovani legati agli Ikhwan raggiunse la Grande Moschea della Mecca e la occupò per due settimane. Lo stesso approccio di stampo Ikhwan emerse nei tentativi dei mujaheddin, finanziati dai sauditi, di spingere l’Unione sovietica fuori dall’Afghanistan nel 1979- 89. Il regime talebano ha incarnato questo approccio nel corso dei cinque anni in cui è stato al potere, fino a quando non stato rovesciato dagli americani nel 2001. Nelle mani del vincitore Oggi tra i sauditi l’approccio degli Ikhwan ha parecchi portavoce di primo piano, compresi eminenti sceicchi e, naturalmente, Osama bin Laden. Da cittadino saudita che ha trascorso gli anni della sua formazione a combattere con i mujaheddin afghani, Osama bin Laden è irritato con la monarchia saudita, che considera in gravi difficoltà finanziarie e dominata politicamente dagli Stati Uniti. Al suo posto egli tenta di fondare un governo di stampo Ikhwan, che vorrebbe costumi islamici più rigorosi e che vorrebbe adottare una politica estera islamica forte. Sembra che questa visione politica riscuota un vasto consenso in Arabia saudita; di certo gode di maggiore appoggio rispetto all’approccio liberale propugnato dagli occidentali. Alla luce di questi fatti, l’ondata di violenza
degli anni passati indica l’esistenza di una profonda disputa all’interno del regno saudita, in cui il vincitore si accapparra tutto, proprio come negli anni Venti. Chi prevarrà deciderà se l’Arabia saudita resterà una monarchia che per certi versi si piega agli imperativi della vita moderna, oppure se diventerà un emirato islamico che richiama alla mente il regime talebano in Afghanistan. Per i paesi occidentali si tratta di una scelta infelice: la scelta tra la monarchia
saudita, con tutti i suoi difetti, e l’alternativa ancor peggiore degli Ikhwan.
Le opzioni politiche per aiutare la monarchia a sconfiggere l’ancor più radicale
minaccia, pur facendo pressioni su di essa per apportare dei miglioramenti in una serie di settori (dalla corruzione finanziaria al finanziamento delle organizzazioni islamiche militanti all’estero) sono pertanto limitate.
Daniel Pipes
© The Australian
(traduzione di Angelita La Spada)
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