Come i bambini palestinesi giocano con le loro figurine
io, io, il terrorista lo faccio io
Testata: Il Giornale
Data: 27/05/2004
Pagina: 10
Autore: Giuseppe De Bellis
Titolo: A scuola con le figurine della morte
Un pezzo interessante quello che riproduciamo dal Giornale di oggi. L'infanzia palestinese raccontata senza ipocrisie nè falsi pudori.
Si parte dalla copertina:la foto della moschea di Al Aqsa a Gerusalemme e la scritta «L’album dell’Intifada». Dentro 229 spazi bianchi, rettangoli numerati, allineati, ordinati. Da riempire. E’ il panini della morte: ognuna di quelle caselle corrisponde la foto di un martire palestinese, di un «combattente per la patria» che non c’è più. S’è fatto esplodere su un autobus a Tel Aviv oppure in una discoteca di Gerusalemme, o ancora a un check point dei militari israeliani. Giocano così i ragazzi di Nablus, Gaza, Ramallah. Con le figurine dei kamikaze, delle loro mamme in lacrime, ma anche dei morti israeliani. «Ce l’ho, mi manca». Ma niente calciatori e tantomeno star di Hollywood. Le foto autoadesive raffigurano i militanti di Hamas o delle Brigate dei martiri di Al-Aqsa, le manifestazioni di protesta dopo le rappresaglie del governo Sharon. Le pagine dell’Album dell’Intifada grondano di sangue palestinese e israeliano sono l’ultima follia della retorica del conflitto mediorientale. Tel Aviv accusa chi lo ha inventato di voler inculcare nella testa dei giovanissimi arabi la «cultura della violenza» e dall’altra parte i gruppi integralisti palestinesi lo etichettano come il tentativo di far conoscere ai più piccoli gli eroi della loro lotta per la conquista di uno Stato. Quarantamila copie vendute nel 2003, con 12 milioni di figurine comprate per uno schekel (0,20 euro) a bustina. La forma è quella di untane perché, spiegano, è lo strumento con cui quelle persone diventano una fotografia autoadesiva. Ogni pacchetto contiene dieci immagini. La più ricercata, hanno spiegato i ragazzi palestinesi all’inviato della Agenzia France Press, Jean Marc Mojon, è la numero 213, raffigura un palestinese ferito in ospedale. Introvabili anche la 10 (soldati israeliani con la scritta «nazisti») e la 108 (una sassaiola che dà luce alle tenebre).
Davanti ai cancelli delle scuole medie, agli angoli delle strade in cui si ritrovano gli adolescenti c’è quello che si vede di fronte agli istituti italiani. Ragazzi e ragazze che tirano fuori dalle tasche il loro mazzetto, tenuto fermo con un elastico. È il classico scambio, il mercatino in cui ognuno cerca quello che non ha ed è disposto a dare tutto pur di averlo. «Ogni giorno sequestro centinaia di queste figurine dalle mani dei ragazzi e poi le brucio. Trasformano i bambini in estremisti». Ai giornalisti dell’Associated press Saher Hindi, 28 anni, maestro elementare a Nablus, ha raccontato il suo tentativo di togliere dalla testa dei giovanissimi l’idea che quello sia un gioco. Ma non c‘è verso: le vendite aumentano, il fenomeno dilaga.
La tv palestinese trasmette due volte a settimana un programma di un’ora dedicato alle figurine. In diretta vengono annunciati i personaggi più amati dai ragazzi dei Territori: Mahmoud Attiti, Raed Karni, Yasser Badawi. Tutti e tre morti da «martiri». Il reporter francese Mojon ha incontrato anche Saleh, 12 anni. Vive nel campo profughi di Ain Beit: «Ci piacciono questi adesivi, perché conosciamo la gente che è stata ritratta. Sono degli eroi». Nell’album di Sahed ci sono già 212 figurine. Punta a completarlo in fretta perché per quelli chele collezioneranno tutte, in palio ci sono dei premi: un televisore, un computer, ma anche dei soldi in contanti. Quanti dipende dal numero di figurine che saranno vendute. Perché, ovviamente, l’album della morte è anche un business. A incassare è Majdi Taher, 38 anni. Ha cominciato due anni fa: «L’idea mi è venuta in mente quando ho visto il successo dei Pokémon, allora ho pensato che questi ragazzi dovevano avere qualcosa con cui giocare. Questo album rappresenta il loro mondo. Per loro non esiste Disneyland. Esiste solo quello che c’è intorno a loro. La violenza».
Due mesi dopo aver cominciato la produzione dell’Album dell’Intifada, Taher è stato arrestato. Lo hanno preso durante un’incursione nella West Bank: 18 mesi in un carcere israeliano per affiliazione ad Hamas. Uscito ha ricominciato la sua attività. Di più, sempre di più. Adesso la sua «casa editrice» impiega 28 persone nel progetto. Ogni giorno nuove immagini, macabramente aggiornate ala contabilità del conflitto. «Le figurine non finiscono soltanto nelle mani dei bambini. È vero, io l’ho inventato per loro, ma oggi finisce nelle mani di tutti: dalle madri, dei padri, persino dei nonni». Con le fotografie del sangue e dei morti, Taher è diventato ricco: adesso vuole vendere l’album dell’Intifada ai giovani in Egitto, Giordania ed Emirati Arabi. «E’ un buon affare, anzi un ottimo affare».
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