Dentro i tunnel del terrorismo
fuori dal tunnel della propaganda
Testata: La Stampa
Data: 24/05/2004
Pagina: 9
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: Rafah: caccia ai tunnel delle armi palestinesi
Su La Stampa di ieri, domenica 23 maggio, Fiamma Nirenstein scrive un reportage dalla Striscia di Gaza dove racconta le operazioni dei soldati israeliani, da lei vissute in prima persona accanto a loro. Molto utile per comprendere da vicino cosa realmente sta succedendo. Peccato per la scelta redazionale di porre, sotto la foto della bambina morta l'altro giorno a Gaza, una didascalia che attribuisce con certezza l'accaduto ai soldati israeliani. L'episodio è ancora oscuro, ma la precedente vicenda dei due fratelli uccisi probabilmente da fuoco amico palestinese avrebbe dovuto consigliare una maggiore prudenza. Tanto più che proprio nell'articolo vicino all'immagine apprendiamo dal comandante delle operazioni nel Sud di Gaza che dovrebbero esistere le prove fotografiche della tesi israeliana.
Ecco il pezzo:

Di corsa scendiamo al segnale del comandante israeliano del sud di Gaza, «Pinky» Suarez dal veicolo corazzato che ci ha trasportato saltando e slittando all’impazzata sulla sabbia bianca; sospinti dai soldati ci buttiamo dentro un piccolo edificio bianco semidistrutto. Ci sparano con mitragliatori Kalashnikov dalle finestre delle case diroccate sulla prima linea di Rafah, proprio in faccia alla «strada di Filadefia», un largo sentiero di sabbia fina e bianca che divide prima i palestinesi e poi gli ebrei dall’Egitto che parte dal mare Mediterraneo di fronte a Gaza e finisce a Eilat, sul mar Rosso. Ma solo per questo pezzetto di sabbia che corre fra Gaza e il confine egiziano la strada di Filadelfia è famosa. Perchè qui si addensano una quantità di problemi che fanno di questa guerra un conflitto sempre più dannato.
I soldati rispondono con gli M16, il comandante ci fa accoccolare (due giornalisti tv e la Stampa) per terra gridando «che non si vedano finestre dalla vostra posizione». Siamo intorno a un buco tondo nel centro di una delle stanze, diametro un metro e mezzo, ovvero un uomo più un oggetto grosso. Il buco è molto profondo, intorno agli otto metri, e dal fondo parte una galleria che va in Egitto, di là da Filadelfia. Pinky ci parla mentre gli sta a un centimetro Sharon, ben armato, che lo ha aiutato prima dell’alba insieme a altri due soldati, Ilan e a Yaniv a scoprire la galleria, e far saltare i quaranta chili di dinamite che componevano un ordigno di protezione per la galleria stessa a pochi metri da essa.
«Questo è una dei circa 90 passaggi che abbiamo scoperto per far entrare dall’Egitto nell’Autonomia palestinese ogni tipo di armi, armi leggere (Kalaschnikov, pistole) e molte armi pesanti con cui si può sparare fino alle città israeliane, come è successo tante volte». Le elenca: Strellot (missili da spalla antiaereri) Katiushot, Sagerim (missili antitank), RPG, i grossi tubi da spalla per missili antitank.. la missione del comandante Suarez, un quarantenne con gli occhiali, spiega lui, non è distruggere case, non è far del male a civili innocenti, è bloccare il fiume d’armi, scoprire buchi così ben costruiti, sopra il cemento in questa terra così sabbiosa, e dentro pietre una sull’altra. Così semplice? E tutto il grande disastro di Rafah? Quelle case semidisabitate sullo sfondo dell’infelicissima città palestinese; quelle case rase al suolo, come questa in cui ci troviamo; e tutti i morti di queste settimane, a partire dal due di maggio, quando sei soldati israeliani sono stati uccisi forse proprio con uno di quei missili antitank introdotti dai tunnel, e i loro corpi a pezzi trascinati e passati di mano in mano come trofei; e due giorni dopo altri sei soldati israeliani, e prima ancora una madre incinta con quattro creature piccolissime in auto...e poi invece decine di uomini e anche bambini uccisi nei giorni successivi durante le operazioni degli israeliani.
Quelle finestre vuote dalle case vuote sulla pista bianca che sotto è un gruviera, quello sfondo di case grige, la violenza dei terroristi, l’astuzia e il cinismo dei contrabbandieri, la tragedia della gente, e sotto i mezzi corazzati con le reti e i paramenti di camuffamento fanno apparire Rafah come una città antica destinata a lanciare la sua ombra tragica, e niente di più, sulla storia. Questi buchi per terra valgono la vita dei ragazzi, vostri e loro? Il comandante si offende: «Questa operazione è indispensabile, questa è l’autostrada di ingresso delle armi che nutrono tutto il conflitto,buone informazioni di intelligence ci dicono che di là dal confine aspetta una mandata di armi molto significativa, armi pesanti, che faranno a pezzi altre centinania, forse migliaia di cittadini. Non abbiamo altra scelta che fermare queste armi. Quanto alle persone uccise da noi, forse tutti questi spari inutili l’avranno convinta che questa è una guerra. E tenga in mente cos’è Rafah oggi: una cittadina dominata dai costruttori di tunnel che guadagnano fra i 30 e i 50 mila dollari a buco, un centro specializzato, dove la povera gente viene costretta a lasciare la casa (quando ci arriviamo noi, in genere la gente se n’è andata da un pezzo) per un’attività che mette in pericolo tutta la famiglia, e tutta la loro proprietà. Ci sono molti casi di rivolta popolare contro il disastro portato qui dai terroristi e i trafficanti: per esempio una volta un alto dirigente di Fatah è stato trasportato qui a forza per vedere il disastro, un altro ha preso botte dai cittadini, ci sono scontri senza fine».
Però poi insieme marciano contro di voi, e voi gli avete sparato. Il comandante si arrabbia veramente: «Dovete almeno prendere atto, se siete onesti, che non erano 23 morti ma erano otto, e invece seguiterete a dire che abbiamo fatto una strage. C’è di continuo una valanga di menzogne sul numero dei morti, anche i due bambini che ci hanno accusato di avere ucciso sono stati invece uccisi da fuoco amico, palestinese, pare che ci siano le foto. C’è molto, molto cinismo nell’uso della gente, molte bugie, e quando mi portarono la notizia che con quel proiettile, di cui mi dispiaccio e mi scuso, avevamo ucciso tanta gente, mi misi a pregare che non fosse vero. E non lo era».
I soldati che circondano il comandante sembrano ormai come guerrieri da anni sotto mura assediate. Ragazzi che da tre anni non vedono che Gaza, sapendo che destinata all’evacuazione, e dedicano la loro vita alla battaglia: «Il premio è che fuori da qui, dove vivono i miei, questa vita non la si conosce». Impolverati e stanchi, la notte e il giorno alla ricerca delle gallerie,e a disinnescare gli infiniti ordigni esplosivi con cui tutte le strade sono minate; combattono di porta in porta le fitte milizie armate e le organizzazioni terroristiche, con ordini che salvaguardino la moralità dell’esercito e la buona reputazione internazionale, che invece è sempre sotto attacco. Si barcamenano fra due disperazioni, quella della gente palestinese cui manca tutto, vite buttate come stracci in una società che ormai non riesce a ritrovare la distinzione, che pure certo desidererebbe, almeno fra popolazione civile e guerrieri.
E dall’altra la loro propria disperazione, gente di vent’anni che può morire ogni momento e il cui migliore amico è morto il giorno avanti: «Ancora non ci posso credere», sorride con denti bianchi il soldato beduino Faim che a 23 anni ha moglie e due figli a Rahad «anzi no, non ci crederò finchè il mio cuore non si sarà abituato».
Gabi e Ilan anche loro sui venti anni, con poche chiacchiere spiegano due cose: che il loro migliore amico Eran Cohen era uno dei tredici uccisi, il suo corpo smembrato, ma che questa è una delle missioni più importante e che si va avanti. E che le ragazze non aspettano i Givati, i soldati di Gaza. Perchè? Ma no, nessuna pensa che moriranno....Ma ogni sabato può succedere qualcosa, e allora si preparano tutte, poi restano a casa...Niente da fare, non vogliono stare con un ragazzo di quelli di Gaza. E le mamme? Quelle invece insistono, telefonano ogni cinque minuti, non le regge nessuno.
Il comandante sa, come tutto il mondo che di fatto lo scontro a Rafah e in generale a Gaza non può continuare così: a che cosa vuole arrivare di fatto il governo e l’esercito continuando a tenere i propri carri armati a Gaza? Pinky risponde che la conclusione dell’operazione è sempre sullo sfondo: intanto, spiega, ci sono forti segnali di miglioramento, la maggior parte delle gallerie sono probabilmente già sotto controllo, e anche molti armati e terroristi sono stati fermati o uccisi. Le azioni vengono portate fin dentro al campo profughi, ai quartieri di Brazil (dove ci troviamo) e di al Sultan, si pensa che ci siano al momento tre gallerie attive di cui si hanno già buone tracce.
Ma nei giorni scorsi i soldati oltre alle azioni consuete hanno anche intrapreso una nuova operazione, per ora in sordina, ed è l’allargamento della pista di Filadelfia. Si dice che il governo stia decidendo se farne uno spazio così grande e profondo, un vero fossato medievale, che diventi invalicabile ai contrabbandieri di armi. Gli egiziani svolgono intensi colloqui con gli israeliani sull’argomento, dopo avere evitato per anni di prenderne cura, e cominciano a parlarne anche con i palestinesi.
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