Il contesto del dramma di Rafah
nell'analisi di tre quotidiani
Testata:
Data: 20/05/2004
Pagina: 1
Autore: Fiamma Nirenstein - le redazioni
Titolo: Operazione Rafah
Sui giornali italiani di oggi ampio spazio viene dato alla cronaca degli incidenti di ieri a Rafah, costati la vita a 10 palestinesi. Al di là della dinamica dei fatti, di cui ogni giornale si riserva di pubblicare la versione più congeniale alla propria politica di redazione, è interessante notare che pochi articolisti cercano di dare un quadro generale della situazione, soffermandosi in particolare sul singolo avvenimento. Fanno eccezione l'analisi di Fiamma Nirenstein sulla Stampa di oggi e gli editoriali di prima pagina di Foglio e Riformista che di seguito pubblichiamo.

Dalla STAMPA: "La tragedia, colpo di grazia per l’Operazione Arcobaleno" di Fiamma Nirenstein, pagina 5.

Potrebbe essere un punto di svolta la tragedia che ieri si è abbattuta sul conflitto israelo-palestinese. Potrebbe rappresentare la fine per l’«Operazione Arcobaleno», come è stata denominata la distruzione dei tunnel a Rafah e la conseguente battaglia che si protrae ormai da giorni, anche se il ministro della Difesa Shaul Mofaz ha dichiarato che l’azione continua: le immagini terribili dei morti e dei feriti insaguinati trascinati verso le ambulanze lungo le strade del campo profughi sono state accompagnate da accuse urlate alla Camera dei deputati dai parlamentari arabi e dall’opposizione («Quel vostro pilota assassino, la sua mamma si deve vergognare», ha detto Ahmad Tibi, deputato arabo e consigliere di Arafat) e da parole di contrizione («Esprimo dolore - ha detto Mofaz come tanti - certo non era nelle nostre intenzioni»). La permanenza a Gaza sembra ormai un pleonasmo insanguinato, molti si aspettano una rapida uscita, la tragedia appare inutile oltre che crudele.
Una grande nebbia avvolgeva ancora la vicenda nelle ultime ore della serata, le versioni erano opposte e stridenti: intanto il numero dei morti che i palestinesi seguitavano a dare era di circa trenta; gli israeliani, pur denunciando sette feriti gravi, insistevano per dieci vittime. Anche le circostanze non sono chiare: i palestinesi parlano di una dimostrazione di giovani e studenti che si dirigeva verso i militari nel quartiere di Tel Sultan per chiedere interventi umanitari, acqua, cibo, cure. Invece gli israeliani parlano di una manifestazione armata in marcia verso di loro che non rispondeva a nessun «alt»; e ricordando l’eccidio di 13 soldati la settimana scorsa, e come le membra di 6 siano state fatte oggetto di scempio e usate per ricatti e barbare manifestazioni di odio. Ruth Yaron, la portavoce dell’esercito, dice che un elicottero c’era sì, e ha sparato, non sulla manifestazione ma lontano, e solo per disperdere la folla. Dice poi che sono stati proiettili di tank esplosi sempre in funzione deterrente contro un edificio vuoto che hanno sorpassato l’ostacolo e sono finiti sui dimostranti. Molti testimoni insistono: si è visto l’elicottero sparare.
La verità è che le immagini apparse sui teleschermi di tutto il mondo hanno sollevato una quantità di accuse per l’operazione a Rafah che già nei giorni scorsi si era svolta con grande spargimento di sangue da ambedue le parti. Perché questo punto del conflitto è ancora più purulento? Perché proprio qui tante case (cento, si conta) distrutte, tante vite umane anche di civili perdute in questi giorni? Perché qui si condensano una quantità di problemi generali. Prima di tutto, Rafah è da mesi un campo di battaglia, un luogo di sofferenza e di militanza per la popolazione spesso sotto ronda, e un vivaio di armi e di azioni terroristiche, un punto di partenza di attacchi, col suo campo profughi, le sue organizzazione armate. Le case sono servite per coprire le gallerie da cui sono entrate fiumi di armi per l’Intifada dall’Egitto e per mettere al riparo i terroristi, dice il capo di Stato Maggiore Moshe Yaalon, e le distruzioni hanno scopo preventivo, non punitivo.
Le gallerie scoperte dall’inizio della guerra sono 90, alcune fino a trenta metri di profondità: da qui entrano le armi pesanti (anche Katiusha con 12 chilometri di gittata). Ancora ce ne sono di là dal confine che aspettano un minuto di calma per entrare. L’Egitto non ha mai fatto molto per fermare il traffico, promosso, riportano fonti israeliane, da Iran e Hezbollah. Le armi non vanno solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania, e le usano tutte le organizzazione terroristiche. L’esercito ha ordini di cautela estrema, di salvaguardare la popolazione civile, ma quando i miliziani si mescolano alla gente il problema appare insolubile e si può arrivare a esiti tragici come questo, a errori madornali.
Sharon, che seguita a preparare comunque il ritiro da Gaza, vuole continuare a cercare un’uscita che però avvenga dopo avere distrutto le armi degli avversari. Ma l’esercito aveva due ordini. Il primo, non rischiare la vita dei soldati più del necessario, dopo le perdite dei giorni scorsi. Il secondo, muoversi con etrema cautela per evitare danni ai civili. Ma una guerra dalle regole sconosciute, minata di porta in porta, si è dimostrata simile a quella che a Jenin era già costata 23 vittime israeliane e 51 palestinesi. Infida, imprevedibile, crudele.
Dal FOGLIO: "Dramma e atrocità", in prima pagina.
Gerusalemme. Negli ultimi giorni, secondofonti palestinesi, all’ospedale di Rafah sono arrivati 33 cadaveri e decine di feriti: 22 corpi sono stati sistemati nella camera frigorifera di una fattoria. Un corteo di civili – organizzato per manifestare contro l’incursione che nella mattina aveva portato le forze israeliane a Tel es Sultan, un quartiere del campo profughi di Rafah, provocando 5 morti – è stato centrato da almeno 5 colpi tirati dai blindati e dagli elicotteri israeliani. Domenica 2 maggio scorso un commando di terroristi
palestinesi a Gaza ha teso un agguato alla macchina della famiglia Hatuel. Madre
incinta e quattro figlie tra due e undici anni d’età non sono state uccise da una mina o da una sventagliata di mitra. Una volta fermata la macchina, i terroristi palestinesi hanno freddato le quattro bambine, che si tenevano abbracciate, con due colpi alla testa per ciascuna. Questo episodio, insieme
alla macabra esposizione di resti umani di soldati israeliani a Gaza la settimana scorsa – di fronte a una folla in delirio – offre il contesto per l’operazione israeliana in corso a Gaza. Il mondo arabo e la leadership palestinese cercano di presentare le azioni israeliane come genocidio e crimini di guerra. Ma se Israele volesse massacrare indiscriminatamente civili indifesi – sul massacro di oggi è stata immediatamente aperta un’inchiesta – non avrebbe bisogno di mandare la fanteria a rischiare la pelle: raderebbe al suolo Gaza. Israele non lo fa perché anche l’Operazione Arcobaleno, come già a suo tempo l’Operazione Muro Difensivo, mira a colpire un nemico che combatte senza regole e senza rispetto per la vita umana, di amici come di nemici, cercando di ridurre al minimo il danno collaterale. Anche dopo la sconfitta nel referendum del Likud, Ariel Sharon è intenzionato a lasciare Gaza. Ma nel fare questo, ci sono due alternative: la prima è un disimpegno da Gaza che ricorda il disimpegno americano in Afghanistan dopo il ritiro dell’Urss nell’aprile del 1989; la seconda è un disimpegno successivo all’eliminazione dell’infrastruttura
terroristica e del suo potenziale bellico. Nel primo caso, il ritiro israeliano non provocherebbe altro che un’escalation di violenza: lascerebbe intatta la struttura terroristica e favorirebbe l’ingresso di armi ben più potenti di quelle attualmente in uso a Gaza. Inoltre, in tali circostanze il ritiro sarebbe
visto dal terrorismo palestinese come un replay del ritiro israeliano dal Libano: non un disimpegno strategico, ma una fuga. In tale circostanza, l’incentivo ad aumentare la violenza avrebbe inevitabilmente il sopravvento
sulla volontà politica – peraltro inesistente nell’attuale leadership palestinese – di chiudere le ostilità e negoziare. Nel secondo caso, il ritiro avverrebbe soltanto dopo un indebolimento significativo delle forze terroristiche, e in maniera ordinata, non sotto il fuoco e senza perdere il deterrente strategico che Israele deve mantenere perché il disimpegno da Gaza possa tradursi in un significativo contenimento del conflitto. Per questo Israele ha lanciato l’Operazione Arcobaleno a Rafah.

I tunnel del traffico delle armi
L’intervento israeliano è dettato da un altro dato sconcertante. Le armi usate per massacrare la famiglia Hatuel, le mine utilizzate per uccidere i 13 soldati la settimana scorsa e i razzi che piovono nel sud d’Israele giornalmente giungono a Gaza da tunnel scavati sotto il corridoio Filadelfia, che separa l’Egitto dalla striscia palestinese e che arrivano all’interno di case di civili. Né l’Egitto né l’Autorità palestinese, fanno nulla per impedire il continuo traffico di armi, clandestini, droga e altra merce di contrabbando. Il traffico, controllato da alcuni clan locali, alimenta la struttura terroristica palestinese e gode d’impunità, grazie a bustarelle e ignavia politica, sul lato egiziano della frontiera. Se Egitto e Anp intervenissero, dice Israele, non dovremmo prendere l’iniziativa, mettendo a rischio la vita dei nostri soldati e quella di innocenti civili palestinesi. Ma nessuno nel mondo arabo ha intenzione
di fare nulla di costruttivo per facilitare l’uscita d’Israele dai territori, un ritorno ai negoziati, e una riduzione drastica della violenza. Tocca a Israele agire: di fronte a un nemico che uccide civili indifesi, che agita fiero le teste mozze dei soldati uccisi in battaglia, che da quattro anni segue una strategia di massacro indiscriminato di innocenti israeliani mentre si fa scudo di innocenti palestinesi. I palestinesi hanno deciso di utilizzare edifici civili, ambulanze, moschee e scuole come copertura per le loro azioni militari. Quei luoghi, secondo la convenzione di Ginevra, possono diventare
obiettivi legittimi. L’azione di Israele ha fermato gli attentati dei kamikaze, ma ha un prezzo altissimo, il tributo di sangue pagato dalla popolazione palestinese, a volte costretta, contro la sua volontà, a fare da scudo e da bersaglio nel conflitto a fuoco.
Da IL RIFORMISTA: "La strage di Rafah inceppa un'altra exit strategy" in prima pagina.
Doveva essere una giornata straordinaria, se non per gli abitanti di Gaza almeno per il milione di arabi israeliani: martedì sera il Bnei Sachnin aveva travolto il Maccabi Haifa per 4-1; per la prima volta nella storia una squadra araba di calcio vinceva la Coppa d'Israele. In Galilea era festa grande, i tifosi parevano impazziti e un dirigente della squadra sfogava la sua emozione: «Per la prima volta siamo fieri di essere israeliani».
Di lì a poche ore, e a neanche 200 chilometri di distanza, l'impazzimento diventerà tragicamente reale. Rafah, a sud della Striscia di Gaza. Per protestare contro l'ennesima incursione militare, in corso a Tal Sultan, un corteo di circa tremila palestinesi si mette in marcia. Un elicottero dell'aviazione israeliana spara un primo colpo di avvertimento in un campo vicino, secondo la versione ufficiale perché in corteo c'erano anche uomini in armi. Poi succede il finimondo. Alcuni razzi - ancora non è chiaro se esplosi dagli elicotteri o dai carri armati - colpiscono i manifestanti. E' una strage: 12 morti, decine di feriti. Uomini, donne e bambini. Il tutto, davanti all'obiettivo di una telecamera, le cui immagini fanno immediatamente il giro del mondo.
Quello della tv non è un dettaglio. Benché in episodi diversi martedì il numero dei morti era stato più alto, venti, ma a Gaza come nella palude irachena le immagini hanno un effetto moltiplicatore che cambia la percezione degli eventi. Così le condanne che due giorni fa nessuno tranne i palestinesi aveva pronunciato, ieri si sono fatte sentire, a partire da quella di Tony Blair (mentre Washington, «in attesa di chiarimenti» ha diramato il suo ennesimo invito alla moderazione di tutti i contendenti). E la potenza delle immagini ha coinvolto anche i protagonisti: avviata un'inchiesta sull'accaduto, l'esercito israeliano si è affrettato a esprimere rammarico per la strage e a riconoscere che i colpi sono finiti sulla folla per errore; mentre un alto ufficiale ammetteva che l'episodio avrebbe fortemente danneggiato le operazioni militari in corso della Striscia.
In modo non dissimile da quanto avviene in Iraq, anche a Gaza difficoltà politico-diplomatiche e difficoltà strettamente militari s'intrecciano. Sharon da mesi è alla ricerca di una exit strategy: un modo per andarsene dalla Striscia, dove la difesa di poche migliaia di coloni impone sforzi militari enormi. Per distinguersi dal suo predecessore Ehud Barak - che abbandonò il sud del Libano senza prima sconfiggere militarmente Hezbollah - ha fatto uccidere i massimi dirigenti di Hamas a Gaza city; ma la sua base elettorale, al cui vaglio aveva sottoposto il progetto, lo ha tradito, costringendolo a far leva sull'appoggio - per nulla gradito - del movimento pacifista. Ora l'attacco a Rafah, oltre che un tentativo di riconquistare i favori del popolo del Likud, rappresenta la seconda fase della strategia contro i gruppi armati palestinesi: Rafah è infatti il più meridionale dei campi palestinesi, a ridosso del confine con l'Egitto. Negli anni, è di lì - tramite un sistema di cunicoli - che sono arrivate molte delle armi. Il piano è dunque quello di creare un cordone tra Egitto e Striscia di Gaza demolendo le abitazioni lungo il confine, e contemporaneamente di colpire le organizzazioni guerrigliere.
Una linea durissima ma non necessariamente priva di una sua efficacia, in teoria. Senonché la realtà dei fatti racconta una storia diversa: non solo nei raid perdono la vita decine di civili inermi, ma anche gli effettivi vantaggi militari sono sempre meno evidenti. Le parole che il generale Myers ha dedicato alcuni giorni fa all'Iraq - «una sconfitta militare è impossibile, ma lo è anche una vittoria» - appaiono del tutto adeguate anche alla realtà di Gaza.
D'altronde, l'analogia non è soltanto strategica. A poche ore dalla strage di Rafah, in Iraq si diffondeva la voce di un'altra strage ancor più grave: dai venti ai quaranta morti a una festa di matrimonio, colpita per sbaglio dalla bomba di un aereo americano. Il massacro sarebbe avvenuto a Ramadi, secondo alcune fonti, mentre altre parlano di una località vicina al confine tra Iraq e Siria (dove passano armi e guerriglieri).
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