L'ipergarantismo della giustiza italiana
manda liberi i terroristi
Testata:
Data: 10/05/2004
Pagina: 4
Autore: Pierangelo Sapegno - Magdi Allam
Titolo: Il terrorismo in Italia
E' di ieri, domenica 9 maggio '04, la notizia dell'arresto dei componenti di una cellula terroristica islamica a Firenze, tra i quali anche l' imam della moschea di Sorgane. I terroristi progettavano di andare a farsi esplodere in Iraq o alternativamente in un centro commerciale italiano. I giornali di oggi ne parlano molto diffusamente. Tra gli articoli pubblicati, rilevanti ci paiono l'analisi di Magdi Allam sul Corriere della Sera ed il reportage di Pierangelo Sapegno su La Stampa.
Magdi Allam si sofferma accuratamente sul problema giuridico che il fermo dei presunti (sic) terroristi pone, dal momento che questi ultimi vengono arrestati prima che il fatto si verifichi. L'inadeguatezza della legge a riguardo ha fatto sì che molti affiliati a organizzazioni terroristiche siano stati rilasciati e questo non deve più essere possibile nell'epoca della guerra al terrorismo.
Pierangelo Sapegno sulla Stampa invece compie un viaggio nell'islamismo italiano, spiegando il lavoro di reclutamento di uomini bomba da parte degli imam radicali presenti nel territorio italiano.
Stupisce invece,in articolino a parte, il fatto che il quotidiano torinese riporti le dichiarazioni di Hamza Picardo, segretario dell'Ucoii, descrivendolo come la voce dell'Islam moderato.Picardo protesta dicendo che si tratta solo ed esclusivamente di una persecuzione a danno di musulmani innocenti. Ma l'organizzazione a cui Picardo fa riferimento, l'Ucoii, è diretta affiliazione dei Fratelli Musulmani di cui fanno parte anche gli islamici "moderati" di Hamas. Un quotidiano di grande diffusione come la Stampa dovrebbe controllare le sue fonti e interpellare chi veramente islamico "moderato" è, come, ad esempio, l'imam Pallavicini, presidente del Coreis.
Di seguito pubblichiamo i due articoli.

Dalla Stampa: "Imam in prima linea. A caccia di anime da mandare a morire" di Pierangelo Sapegno

Girava per Cremona a piedi nudi, portandosi dietro i figli trasandati. I carabinieri dei Nas si erano occupati di lui solo a causa dei polli e dei montoni che caricava sulla sua vecchia e rumorosa Espace assieme alla moglie tutta coperta da capo a piedi, con il velo e l’abito lungo. Trabelsi Mourad, l’imam di Cremona, però parlava quattro lingue, aveva studiato la storia e la religione dell’Islam e, oltre a reclutare kamikaze da spedire a combattere, in una delle videocassette che gli hanno sequestrato urlava come un ossesso: «Sgozzeremo anche gli italiani». Lo accusano un’inchiesta e pure Zouaoui Chokri, alias Habbar Kadem, uno che era scappato dalla galera di Tunisi ed era sbarcato a Trapani nel 1999 con una maglietta, un paio di calzoni e una borsa piena di hashish, perché bisogna pur vivere, Dio volendo, e spacciando magari si vive meglio. Come Trabelsi, è piena la storia degli imam d’Italia, che facevano proseliti per la guerra santa, e quello di Firenze arrestato ieri è solo l’ultimo di una lunga serie che comprende anche Es Sayed, alias Abu Saleh, moschea di via Quaranta, Milano, un uomo colto e riflessivo che girava su una vecchia Citroen sgangherata a cercare giovani musulmani da indottrinare e transessuali brasiliani con cui appartarsi nelle notti nere. Agli uni e agli altri, però, diceva sempre le stesse cose: «Non stancatevi, non annoiatevi, non impauritevi perché la forza di Allah supera ogni forza universale e ormai tutta l’Italia è persa, e gli infedeli verranno sconfitti e la loro sconfitta non sarà solo in terra, ma anche nella vita eterna».
A cercare, dentro alle carte, le anime e le idee dei terroristi con cui viviamo assieme, per aiutarci almeno a capire, se non a prevenire, alla fine uno resta quanto meno spaesato. Molto spesso sono documenti improbabili, confessioni fantasiose, interrogatori irreali, senza nessuna conoscenza dell’argomento di cui si parla, se non quella scadente e appiccicaticcia appresa magari da Vespa a «Porta a Porta», dove concionano addirittura sul Corano illuminista (ma l’hanno mai letto il Corano?). Non a caso, secondo l’Intelligence francese e inglese, l’unica inchiesta valida condotta in Italia sul magma terrorista che viene dall’Islam è quella di Cremona. Altre sono addirittura inesistenti (Torino, ad esempio, dove invece è forte un nucleo di salafiti, seguaci della filosofia nata nel 19mo secolo per riportare l’Islam e i paesi islamici alla tradizione predetta nei testi sacri e che oggi rappresenta il collante ideologico per tutti gli integralisti: salafita era Mohammed Atta e salafiti sono gli attentatori di Madrid e Casablanca). Però, tutte queste carte servono comunque a tracciare a grandi linee una storia del fondamentalismo in Italia, che ha avuto dalla fine degli Anni 90 in poi due punti di aggregazione costanti: il carcere e la moschea. Si comincia da viale Jenner, a Milano, che è in realtà un istituto culturale islamico, dove fino al 1995 l’imam era Anwar Sha’aban, fondamentalista di Jamma Islamja, morto mentre era alla guida di un commando di mujaheddin a Zepce, in Croazia. Prima di andarsene, però, l’imam ha segnato il percorso, anche se nessuno ha mai trovato il tempo d’occuparsi di lui, ed è riuscito a trasformare la moschea milanese in una base di jihaddisti e a indottrinare un’intera generazione di giovani sbandati, delinquenti comuni, e lavoratori perseguitati e umiliati, da mandare tutti a morire in paradiso nella guerra contro i crociati. Al posto di Anwar Sha’aban, nel 1997 c’è Abu Imad al Masri che dice solo di pregare Allah e di insegnare ai fedeli la parola del Signore. Solo che la Digos sequestra a casa sua un bel mucchio di videocassette con i sermoni infuocati degli sceicchi più oltranzisti, come Abdullah Azzam, che dai campi di addestramento afgani strepita e invoca: «Prima di morire vorrei vedere l’Italia sprofondare in un bagno di sangue».
Così a Cremona, l’imam Trabelsi, dicono i verbali, faceva il reclutatore di anime perdute da mandare a morire in Iraq per Ansar al Islam, ma rappresentava anche l’anello di congiunzione con un altro gruppo approdato in Italia nel 1996, il Gicm, Gruppo islamico combattente marocchino, che ha firmato le stragi di Casablanca e Madrid e che in Italia ha le sue basi e i suoi rifugi nel Piemonte, fra Carmagnola - dove viveva un altro imam, Abdel Qader Fall Mamour, sospetto amico di Al Qaeda, ma molto presumibilmente un semplice millantatore, espulso dall’Italia nel 2003 -, il Cuneese e Torino. Qui invece abitavano Mohamed Raouiane, Khalid Bouloudou e Muhamed Aluane che nel verbale della polizia di Casablanca n.3695 del 3 agosto 2003, oggetto della pratica penale n.763/03/22, sono accusati di aver reclutato «nuovi membri del Marocco per eseguire il loro piano terroristico tendente a creare uno stato "Imara" come hanno fatto i talebani». Da Torino, a Milano, Varese, Cremona e Firenze, si muovono più di un migliaio di potenziali terroristi islamici e di veri soldati della Jihad che vanno e vengono tranquillamente dai campi di battaglia alle democrazie europee con la loro bella scorta di passaporti falsi e di case ospitali, come faceva Jamid Zougam, salafita, capo di una delle cellule che ha fatto l’attentato di Madrid, e come ha raccontato alla polizia Nourredine Nafiaa, alias Abu Maad, uno dei leader del Gicm, incaricato di mettere a ferro e fuoco l’Europa e arrestato a Casablanca. Abu Maad ha fatto il commesso viaggiatore costruendo dovunque andava cellule pronte a entrare in azione, prima in Danimarca e in Svezia, poi in Afganistan, per incontrare Bin Laden e il suo vice Ayman Al Zawahiri, e da lì alla Siria, quindi in Turchia e in Iran. Da Teheran è volato in Italia, soliti posti, alcune settimane tra Milano e Torino, e via terra verso Belgio e Spagna. Ultima tappa, Arabia Saudita, per l’immancabile pellegrinaggio alla Mecca. In tutti questi viaggi e spostamenti, mai un controllo, un sospetto, un fermo, mai niente.
Molte volte, in questo incessante peregrinare, gli imam sono complici ospitali, ma forse in qualche caso anche inconsapevoli, e in tanti altri assolutamente estranei. L’imam di Gallarate, Mohamed el Mahfoudi, è stato accusato fra l’altro «di adoperarsi per reperire extracomunitari da legalizzare con documenti falsi», e lui si è sempre difeso esibendo il suo impegno sociale («faccio quello che farebbe qualsiasi prete cattolico») e dicendo di essere nemico degli estremisti e di aver cacciato dalla moschea Saber, il viaggiatore, un tunisino di Al Qaeda. L’intelligence inglese insegna che nei limiti del possibile sarebbe opportuno cooptarli per ottenere informazioni e monitorare meglio un ambiente molto pericoloso. Ma questo è già un discorso più difficile. Resta il fatto che, come hanno raccontato i pochi e scalcagnati pentiti del terrorismo islamico in Italia, la loro fede jihaddista l’hanno appresa nella moschea e in carcere. Jelassi Riadh, un tunisino di 34 anni, arrestato nell’ottobre del 2001, è un immigrato clandestino che s’arrabatta rubando le macchine e smerciando banconote false fra i cinesi. Poi arriva nella moschea di viale Jenner e si fa indottrinare da Abu Ahem e Abdelnasser, diventa il centralinista del gruppo, continua a rubare ma impara anche a parlare in codice e a sognare attentati devastanti, o improbabili, come quello in una discoteca dove i suoi amici della moschea gli avevano detto che i giovani infedeli ballavano sconci e ubriachi sopra la scritta «Allah». Lui ci andò in quella discoteca, ma non c’era nessuna scritta e finì per ballare anche lui con un’amica venezuelana. Zouaoui Chokri, alias Habbar Kadem, l’altro pentito, è un piccolo trafficante, condannato per furto in Tunisia, e piombato in Italia per spacciare hashish e cocaina nei viali di Porta Ticinese a Milano. Diventa terrorista in carcere. Fino a quando un bel giorno scrive ai magistrati: «Ho paura di vedere un altro 11 settembre...». Ma questa è un’altra storia.
Dal Corriere: "Predicatori di guerra, il ruolo delle moschee" di Magdi Allam
Forse l'imam della moschea fiorentina di Sorgane, l'algerino Mahamri Rashid, verrà rilasciato nei prossimi giorni dal Tribunale della libertà. Nell'operazione ribattezzata enfaticamente « Shahid » , Martire, che ha portato al fermo di altri quattro tunisini sospettati di aspirare a diventare dei kamikaze in Iraq, non sono stati rinvenuti armi o esplosivi, né è stato appurato un concreto e specifico piano di azione terroristica. Sarebbe sufficiente un'interpretazione letterale della norma 270 bis del Codice penale ( Associazione con finalità di terrorismo internazionale) per scagionarli. Pur restando vero che i cinque hanno chiaramente espresso la volontà di raggiungere l'Iraq dove farsi esplodere per uccidere il maggior numero possibile di occidentali. Che hanno subito un indottrinamento all'ideologia islamica radicale in una moschea italiana e tramite audiovisivi inneggianti alla Jihad, la guerra santa, reperibili sempre in moschea.
Il che ripropone la questione cruciale della centralità delle moschee e degli imam nel processo di conversione dei nostri immigrati in crisi di identità alla causa del « martirio » islamico. E della compatibilità del nostro ordinamento giuridico con la specificità del terrorismo islamico suicida.
C’è un secondo aspetto di rilievo nell’inchiesta che ha coinvolto le Procure di Genova e di Firenze. Dal quadro d’insieme emerge la presenza sul nostro territorio di militanti appartenenti al movimento palestinese Hamas, al Gia ( Gruppo islamico armato) e al Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento attivi in Algeria, ad Ansar al Islam che nasce nel Kurdistan iracheno. Ebbene, forse non è un caso che mentre l’imam Rashid è sospettato sin dal 1997 di essere legato al Gia e che i quattro tunisini risultano essere stati arruolati in Italia da Ansar al Islam, la sigla « Brigata verde » che ha rivendicato il sequestro dei nostri connazionali in Iraq prende nome dalla forza d’élite del Gia, e che per il loro rilascio sia stata chiesta la liberazione dei militanti di Ansar al Islam prigionieri nel Kurdistan.
Proprio lì lo scorso gennaio furono scoperti una settantina di documenti d’identità italiani appartenenti a nostri immigrati arruolati per fare la Jihad. Tra loro figurano almeno cinque kamikaze, che risiedevano in Lombardia, che si sono fatti esplodere in Iraq. Ed è per questo che i fermi di ieri aggiungono un nuovo tassello all’intreccio fra il terrorismo islamico in Italia e quello che in Iraq muove le fila del sequestro dei nostri connazionali.
Il paradosso che devono affrontare le nostre forze di sicurezza è che mentre, da un lato, vi è la certezza che l’Italia e l’Europa sono effettivamente una roccaforte del terrorismo islamico, dall’altro si scontra con un impianto giuridico che tollera che gli imam predichino la guerra santa e non considera reato l’arruolamento su base volontaria per motivi ideologici. Questo ipergarantismo è di fatto favorito dal ripetersi delle scarcerazioni di presunti terroristi islamici. Si tratta di casi probabilmente fondati e che si spiegano con errori investigativi in un contesto complicato anche dalla difficoltà di traduzione delle registrazioni nei vari dialetti arabi. I nostri tribunali e le istituzioni pubbliche faticano a trovare interpreti competenti e affidabili. Molti di loro sono costretti a non collaborare perché minacciati di morte. E’ evidente che bisogna affrontare la radice del problema: la realtà di molte moschee e dei loro imam che sfuggono al controllo della legge e predicano valori incompatibili con i nostri principi morali. A partire dall’esaltazione degli shahid, i martiri islamici in Palestina, Cecenia e Iraq. Quando le vittime sono « infedeli » ebrei o cristiani.
E’ proprio il rispetto del valore della sacralità della vita il parametro fondamentale per accertare l’adesione ai nostri valori. Un obiettivo più facilmente conseguibile quando l’imam è un italiano moderato. Come è il caso di Sergio Yahya Pallavicini, vicesegretario della Coreis ( Comunità religiosa islamica italiana), che ha appena pubblicato Islam in Europa. Riflessioni di un imam italiano ( Il Saggiatore). « E’ arrivato il momento di far conoscere il vero volto dell’Islam moderato — dice Pallavicini, che è musulmano dalla nascita — , gli imam sono persone religiose che però devono saper convivere nel mondo circostante. Ciò significa che dobbiamo essere dei referenti sul piano religioso, non ideologico o militante. Gli imam non possono essere strumenti di interessi ideologici o di Stati stranieri. Ecco perché gli imam devono essere italiani. Soltanto così possono garantire l’integrazione delle virtù spirituali » . Insomma, un Islam italiano, retto da imam italiani che rispettano la legge e predicano valori condivisi dalla società italiana.
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