Pubblichiamo due articoli a proposito del processo dell'Aja. Il primo è tratto dal Foglio e spiega come in realtà la Corte penale internazionale non abbia avuto nel corso della storia un peso rilevante nelle decisioni degli Stati.
"Israele, il muro e una corte che dovrebbe cedere il passo alla politica"La questione se la Corte internazionale di giustizia possa pronunciare un’opinione consultiva sulla questione della barriera israeliana o meno non è giuridica ma politica. E’ pacifico che l’assemblea generale possa chiedere lumi a questo organo. Ma il vero interrogativo è un altro: è opportuno averglielo chiesto? E’ saggio che il parere venga reso nelle presenti circostanze? La mia risposta è: no. Ho poca simpatia per la scarsa lungimiranza e duttilità dell’attuale governo israeliano. Viene uno scatto di rabbia leggendo in questi giorni che gli estremisti hanno ottenuto dal governo Sharon senza nemmeno negoziare, ciò che i moderati, completamente delegittimati, avevano chiesto per
mesi. Dubito inoltre che un’amministrazione americana in piena campagna elettorale possa fare granché per modificare nel breve termine i dati della questione. La Corte, inutile nasconderselo, è una grande cassa di risonanza mediatica e il suo pronunciamento cade per Israele nel momento in cui è più vulnerabile. Dal punto di vista pratico Gerusalemme non ha molto da temere certo. Ogni qualvolta si è preteso di mettere di mezzo la Corte per intralciare la diplomazia è stato un disastro. Rinfresco la memoria. Nel 1931, il governo
austriaco e tedesco dichiaravano un’unione doganale secondo alcuni contraria
alle clausole del Trattato di Versailles. La progettata unione doganale fu bocciata a stretta maggioranza (8 contro 7), dalla Corte convincendo gli austriaci che l’Anschuss era l’ultima sponda. Più recentemente con Pompidou e poi con Chirac, gli esperimenti nucleari francesi nel Pacifico hanno suscitato l’indignazione degli ecologisti. Si badi bene che la Francia si era vincolata alla clausola facoltativa che la impegnava ad accettare la giurisdizione obbligatoria della Corte alle altre nazioni. Figuriamoci. Pompidou sbuffò rispondendo che c’era la clausola della "difesa nazionale" e lasciò giudici e australiani con un palmo di naso. Dieci anni dopo è il turno degli americani
contro i nicaraguegni stufi degli appoggi ai Contras e delle mine piazzate davanti ai loro porti. Le cose si mettono male per gli americani che avevano aderito anch’essi alla clausola opzionale ex. art. 36 dello statuto: non è carino mettersi a fare scorribande in casa altrui. Allora il segretario di Stato
George Schultz , tipo noto per le maniere spicce, si appigliò a una riga dell’art. 36 che escludeva "controversie di natura politica".
Pronta la risposta della Corte: non è che la presenza di un aspetto politico in una controversia valga da sola a "escludere la giurisdizione". Giusto, ma gli americani che la Dottrina Monroe la prendono alla lettera sbattono la porta. Non che la cosa sorprenda. Gli Stati Uniti la Corte l’avevano voluta nel 1919 ma non vi avevano aderito, mentre nel 1945 l’avevano ingoiata con tali e tante
riserve che solo un rospo sarebbe riuscita a digerirla. Non voglio essere frainteso comunque. La Corte di giustizia, fortemente voluta agli inizi del Ventesimo secolo, ha contribuito moltissimo allo sviluppo del diritto internazionale. L’errore è stato quello di sovraccaricare di funzioni, aspettative e incombenze questa istituzione dimenticando che il diritto internazionale non è affatto assimilabile a quello nazionale. Riposa sul consenso degli Stati. Lo ricordava nel caso Lotus Donisio Anzilotti: "Le limitazioni degli Stati non si presumono: devono essere provate". Il diritto non è sovrano: deve convivere con la categoria della politica e guai a lui se
pretende di eroderne lo spazio vitale. E’ imperativo che la diplomazia continui a muoversi con passo felpato, senza essere irretita da regole formalistiche, di cui potrebbe impadronirsi un giorno qualche procuratore in cerca di notorietà. In sintesi, la Corte penale internazionale è un notevole progresso rispetto all’arbitrato poiché prevede che le parti possano, se lo desiderano, vincolarsi preventivamente, ma non è un giudice domestico: non c’è giurisdizione coercitiva. Ecco perché coloro che intendono circoscrivere l’ambito della giurisdizione dei tribunali internazionali non sono loro ostili, ma al contrario contraggono una polizza per la loro sopravvivenza di cui il sottoscrittore è sempre e soltanto la sovranità. Nel diritto internazionale che si profila nel nuovo millennio bisognerà affrontare con una certa crudezza temi che lo choc delle guerre ha rimosso dalla sensibilità occidentale, tanto più che – pare di capire – le sensibilità al riguardo non sono affatto le stesse.
Nel secondo articolo, Elisabetta Rosaspina sul Corriere fa un resoconto sul processo parallelo che si tiene nell'ex municipio dell'Aja nel quale viene dato peso alle ragioni di chi sostiene la costruzione del fence poichè si rende bene conto della minaccia del terrorismo .
"E all’Aja i due schieramenti non si parlano nemmeno. Oggi le ultime arringhe", pagina 15:L'AJA - Non c'è contraddittorio alla Corte internazionale di giustizia, che oggi ascolterà le ultime arringhe contro la legittimità del « muro » israeliano. E non c'è contraddittorio nel salone dell'ex municipio dell'Aja, dove gli israeliani organizzano il contro- processo, chiamando a testimoniare in favore della « barriera difensiva » alcuni feriti e familiari di vittime degli attentati più sanguinosi: dal Dolphinarium, discoteca di Tel Aviv (giugno 2001) al pub Mike's Place di Tel Aviv ( aprile 2003).
Mentre al Palazzo della pace, 15 giudici si preparano a consegnare il loro parere all'Assemblea generale dell’Onu, gli israeliani all'Aja contrattaccano, dando per scontato che la Corte internazionale non legittimerà la costruzione di oltre 600 chilometri di recinzione in Israele e in Cisgiordania.
Nell'aula ufficiale, i delegati dei Paesi che hanno deciso d'intervenire arrivano a comprendere « la necessità di Israele di difendersi dal terrorismo » , ma non a giustificare la reclusione dei palestinesi dietro a un muro che solca i territori occupati. « E se Israele si ostina a sostenere che non sono occupati, ma contesi — dice il ministro degli Esteri malese, Datuk Seri Syed Hamid Albar — noi diremo che tutta la terra che rientrava sotto il Mandato britannico in Palestina è contesa » . E' vero che tra Malesia e Israele i rapporti sono pessimi, ma anche vicini relativamente cordiali, come i giordani, mostrano pollice verso: « Il muro ci porterà un'altra ondata di profughi palestinesi » , si preoccupa il principe Zeid bin Raad.
Nell'aula alternativa, i parlamentari europei Anne André- Leonard, belga, liberal- democratica, e l'inglese Charles Tannock, solidarizzano con le motivazioni israeliane, rafforzate dai racconti emozionati di chi « in questi tre anni ha perso un pezzo di se stesso o della sua famiglia » , come li introduce Richard Heideman, presidente dell'insolita contro- giuria popolare. Non tutti i testimoni di difesa collegano la loro tragedia alla mancanza di un muro e nessuno chiede ritorsioni sui palestinese. Anzi: « Abbiamo acconsentito a donare gli organi di mio padre — racconta Nimrod Vider, che nell'attentato di Netanya ha perso anche la sorella e il cognato — , senza porre condizioni sui beneficiari. Una era una mamma palestinese » .
Anche la Corte, che si pronuncerà tra qualche settimana, ha i suoi tormenti interni: il giudice americano, Thomas Buergenthal, superstite di Auschwitz, ha espresso il suo dissenso per il no alla richiesta israeliana di escludere il giudice egiziano Nabil Elaraby, che in un'intervista, tre anni fa, sul conflitto israelo- palestinese, si era mostrato filo- arabo.
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