Oggi sul Corriere della Sera Davide Frattini racconta la storia di due famiglie, una israeliana e una palestinese, che vivono in due villaggi separati dalla barriera difensiva; uno spaccato di vita che,lontano dalla propaganda, mette in luce pregi e difetti di questo strumento di prevezione del terrorismo.
L'Israeliana - « Mio figlio ha 9 mesi. Devo proteggerlo »MATAN (villaggio ebraico - Israele) — Nel suo ufficio, Amir Isbi tiene appeso un frammento del Muro di Berlino. « Un giorno vorrei attaccare qui a fianco un pezzo del nostro piccolo muro. Vorrà dire che non ce n’è più bisogno e che abbiamo potuto abbatterlo » .
Amir è il segretario generale, amministratore e tuttofare di Matan, villaggio israeliano costruito nel 1995 a ridosso della Linea Verde. Una delle piccole comunità — 3.040 abitanti — venute su nella piana di Hefer, al centro del Paese, per offrire tranquillità, campagna e stradine da tricicli a giovani coppie sfibrate dal traffico e dai prezzi di Tel Aviv.
Le villette allineate su via Shushan sono quelle con le finestre che guardano il grigio del muro. Innalzati come cinta per tenere lontani i ladri, i due chilometri di lastroni sono diventati da un paio d’anni tutt’uno con la barriera di sicurezza che il governo israeliano sta realizzando: le telecamere e i sensori elettronici controllano le infiltrazioni di kamikaze e attentatori dalla Cisgiordania, le jeep dell’esercito corrono su un terrapieno a pochi metri dalle case.
Rachel Ruveni, 28 anni, abita con il marito Aviv ( 30) e il piccolo Itamar ( 9 mesi) in quella che la mappa del villaggio identifica come la « 17 » : solo i numeri aiutano a distinguere le abitazioni a due piani, tetti rossi e intonaco bianco. « Siamo venuti a vivere qua nel 1999 — ricorda Rachel, capelli ramati, jeans e maglietta — subito dopo che ci siamo sposati. Il muro c’era, ma non era ancora un progetto militare: serviva solo a proteggerci dai furti. Con il divampare della seconda intifada, un anno dopo, tutto è cambiato » . I rischi, i pericoli, il senso di sicurezza, i rapporti di vicinato con il villaggio palestinese dall’altra parte: Habla, una versione più caotica e povera di Matan, immersa tra le stesse colline di roccia bianca e campi arati.
« Siamo sempre andati d’accordo con i palestinesi — dice Rachel, mentre indica i tetti delle case arabe a poche decine di metri — . Venivamo invitati alle loro feste di matrimonio, i ragazzini si presentavano davanti a casa per vendere bibite e panini. Nei primi mesi dell’intifada gli estremisti di Qalqiliya hanno organizzato una spedizione verso sud: sono arrivati ad Habla e da lì hanno cominciato a sparare, lanciare bottiglie incendiarie e pietre verso di noi. Credo che la gente di Habla non sia così ostile, ma in ogni caso mi sento più sicura. Il governo sta costruendo la barriera per difenderci, perché in questo periodo abbiamo bisogno di protezione. Meglio vedere un muro dalla camera da letto che pensare che qualcuno possa colpire Itamar.
Ma spero che un giorno non ce ne sia più bisogno » .
Rachel è insegnante di inglese ( a casa da un anno per seguire il piccolo), Aviv perito informatico. Lavorano nei dintorni di Tel Aviv e lì hanno ancora la maggior parte degli amici.
« Non tutti vengono a trovarci: alcuni non vogliono vedere quei blocchi di cemento grigio. Li posso capire: un muro è un muro. E’ fatto per dividere, il messaggio che trasferisce è: di qua c’è Israele, di là qualcos’altro » .
La Palestinese - « Quel cemento mi fa sentire in prigione »HABLA(villaggio arabo - Cisgiordania) — Il terzo piano della casa di Basema è un abbozzo di stanze su pilastri di cemento e un accenno di finestre disegnate nell’aria. Ancora non c’è. Perché suo marito Saleh da tre anni non trova lavoro e la famiglia Razmak non ha i soldi per completare l’appartamento.
Che sarebbe dovuto andare a Shadi, uno dei figli, 22 anni, per il matrimonio: ora è tutto rinviato, piastrelle, intonaco e nozze.
Per Basema è colpa di quel muro che guarda con amarezza dal soggiorno arredato alla beduina, tappeti e cuscini di velluto rosso appoggiati per terra. « I blocchi di cemento e il terrapieno che li sostiene mi hanno tolto tutta la visuale — dice — e mi fanno sentire come in prigione. Il muro ha distrutto le nostre vite » .
Dall’altra parte sbucano le tegole del villaggio israeliano di Matan, a poche decine di metri dalle case palestinesi di Habla in Cisgiordania, 12 mila abitanti, due moschee, strade polverose.
« Con loro abbiamo sempre avuto buoni rapporti — ricorda Basema, 43 anni — . I nostri uomini hanno partecipato alla costruzione di Matan e poi hanno continuato a lavorare di là. Con l’intifada tutto è cambiato. So che il muro è stato innalzato anche a causa della rivolta palestinese.
Ma adesso c’è e noi siamo rovinati » . « Non posso dire che sia colpa degli israeliani o dell’Autorità palestinese, certo quel muro è legato all’intifada » , interviene Saleh, 45 anni.
Qui la barriera di sicurezza che il governo di Ariel Sharon sta realizzando corre lungo il tracciato della Linea Verde del 1967: quando verrà completata, saranno settecento chilometri ( di cui venti fatti di lastroni) tra reticolati, sensori elettronici e filo spinato.
« I nostri problemi — spiega Basema, il velo e un lungo vestito neri — non sono arrivati solo con il muro. Mio figlio Mohammed, 20 anni, il più giovane dei maschi, è stato arrestato sette mesi fa perché ha tirato una bottiglia incendiaria dall’altra parte. Non ha colpito nessuno. Adesso sta scontando venti mesi in carcere. Mio marito e gli altri due figli sono finiti in una lista dell’esercito e non hanno più ottenuto i permessi per andare a lavorare in Israele » . La figlia Racha, 18 anni, ha smesso di studiare per stare vicino alla madre, che si sente malata: « Vedere tutti i giorni quel cemento grigio mi deprime » .
Da una delle case appiccicate a quella dei Razmak, sbuca un parente che ricorda quando andava avanti e indietro da Matan e conosceva molti israeliani. « Una volta uno di loro mi diede una mano, ero in difficoltà, mi regalò dei soldi. Era il 1998, l’esercito aveva imposto il coprifuoco nel nostro villaggio e non potevo più andare a lavorare a Matan. Quest’uomo mi ha voluto pagare lo stesso per i giorni che stavo perdendo. Ma adesso è tutto finito. E’ rimasto solo il muro » .
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