Cattolicesimo pregiovanneo
più che di Bergamo si direbbe di Ramallah
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Data: 11/02/2004
Pagina: 1
Autore: Andrea Valesini
Titolo: La vita a Gaza, una prigione a cielo aperto
Quando la disinformazione e il falso storico raggiungono alti livelli. Come sempre l'Eco di Bergamo assomiglia di più all'Eco della Mukata. Che nel direttore sia stato clonato Arafat? Leggere tutto il pezzo per giudicarne il livello.
Una giornata fra strade chiuse e paura dei raid. Il parroco: per la pace fatti, non parole

Le «esecuzioni mirate» sono l'incubo della gente di Gaza. Per uccidere i pezzi grossi delle organizzazioni estremiste -Hamas e Jihad islamica soprattutto - l'aviazione israeliana utilizza missili sganciati da elicotteri Apache o da F16, che non fanno distinzione fra la preda e chi accidentalmente si trova a passare nelle vicinanze. Nel centro della città c'è un condominio colpito durante un'«esecuzione»: i sopravvissuti continuano ad abitare anche le stanze che ora, dopo il bombardamento, non hanno più il muro esterno e danno sul vuoto. «E dove vuole che ce ne andiamo?» è la domanda retorica che rivolge ai visitatori uno degli inquilini.
Dalla striscia i palestinesi non possono uscire, esclusi quelli in possesso di un permesso quotidiano per andare a lavorare nello Stato ebraico. Il nome è appropriato: la striscia infatti ha una superficie di 362 chilometri quadrati, è lunga 45 km e profonda dai 6 ai 10 km. È interamente circondata da una «barriera di sicurezza» fatta di fossi, recinzioni elettrificate e strade militari. Un milione e 300 mila palestinesi usano il 55 per cento di terra, il restante 45 per cento è dominio dei 7 mila 500 coloni ebrei, suddivisi in 21 insediamenti - che utilizzano più dell'80 per cento delle risorse idriche della zona - protetti da una divisione dell'esercito israeliano di 15 mila uomini. La striscia è tra i luoghi del mondo con la più alta densità abitativa: 3 mila 611 residenti per chilometro quadrato. «È una prigione a cielo aperto - dice senza giri di parole il parroco di Gaza, padre Emanuel Musallam - e la situazione in questi anni è andata peggiorando. Il mondo deve sapere cosa accade qui: per la pace servono fatti, non parole». Padre Musallam poche settimane fa ha perso la madre che viveva con lui. L'esercito israeliano non gli ha concesso il permesso di accompagnarla a Ramallah, in Cisgiordania, dov'è stata tumulata. Nella stessa città palestinese studia uno dei cinque figli dei coniugi Shaheen: la madre non lo vede da cinque anni, in attesa di un permesso per spostarsi da Gaza che non arriva mai. «Quale spiegazione dare? Evidentemente ci considerano tutti terroristi» chiosa Alaa. Nel vicolo dove abitano gli Shaheen c'è il dispensario aperto dalla Caritas di Gerusalemme. È un via vai di gente alla ricerca di farmaci e di assistenza medica. Secondo un recente studio dell'Onu, a Gaza il 22 per cento dei bambini soffre di denutrizione (era il 7,6 per cento nel 2000), il 15,6 per cento di anemia. Il consumo di cibo negli ultimi tre anni è sceso del 30 per cento e più della metà delle famiglie mangia una sola volta al giorno. I poveri sono triplicati (oggi sono il 75 per cento della popolazione). Quasi la metà dei palestinesi di Gaza vive nei campi profughi che punteggiano la striscia. «Molte persone avrebbero bisogno di essere trasferite in un altro Paese per essere curate al meglio, ma non hanno il permesso» lamenta il direttore del dispensario, Bandali el Sayeyh.
È difficile muoversi anche all'interno della striscia. Uscendo dalla città di Gaza e proseguendo verso Sud ci si imbatte nella colonia di Netzarim, abitata da 63 famiglie e protetta da centinaia di soldati. Tutto intorno sono state abbattute case, palazzi di 13 piani, centinaia di piante. La motivazione ufficiale è la sicurezza: rimuovere tutto ciò che può diventare un nascondiglio per attacchi all'insediamento. L'avamposto militare della colonia è arrivato a pochi metri dal mare, mangiandosi altra terra. Più a Sud la strada centrale è stata chiusa al traffico e si segue la via costiera - lasciando a Est la colonia di Kefar Darom - fino a Dair el Balah. Qui si incontra il posto di blocco di Abu Koli, vero incubo dei palestinesi: può restare sbarrato per ore e allora il viaggio è finito. Ma ora è aperto. In pochi minuti si raggiunge la città di Khan Yunis, chiusa sul mare da Gush Katif, un blocco di colonie con intorno altra terra bruciata. Ma è a Rafah, dove la striscia si incontra con l'Egitto, che la distruzione è ancora fresca. In questi giorni sono state abbattute decine di case: 78 famiglie palestinesi sono rimaste senza tetto. Agli inquilini vengono dati 5 minuti per sloggiare gli edifici, poi entrano in azione bulldozer e ruspe. L'esercito israeliano dice di avere nel mirino i tunnel attraverso i quali nella striscia entrano armi dal territorio egiziano. I palestinesi ribattono che è invece in cantiere, sulle macerie delle abitazioni demolite, una nuova strada per i soli coloni.
È da qui, da Rafah, che un giorno Alaa Isa Shaheen sogna di passare: per scappare fino in Libia e raggiungere clandestinamente l'Italia. Per costruirsi una nuova vita, portandosi la prigione di Gaza nel cuore.
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