La Siria dice no a Israele
come danno la notizia alcuni quotidiani
Testata:
Data: 13/01/2004
Pagina: 1
Autore: Alcuni giornalisti
Titolo: La Siria dice no a Israele
La notizia principale dei quotidiani di oggi è quella dell'invito del presidente israeliano Moshe Katsav a venire a Gerusalemme per discutere di pace, rivolto al presidente "ereditario" siriano Bashar Assad. Quest'ultimo, per bocca del ministro dell'immigrazione, ha risposto con un secco no alla proposta. Ricordiamo che Israele non è nuovo a questo genere di iniziative, nel 1977 la visita di Sadat a Gerusalemme diede avvio alle trattative che portarono alla realizzazione della pace tra Israele ed Egitto.

In un articolo come al solito scorretto, il corrispondente da Beirut di EUROPA, Saad Kiwan (con il titolo: "Assad dice no alle proposte di Israele. Un bluff o cerca la mediazione turca? a pag.2), si lancia in una colossale apologia del dittatore siriano, stretto, a suo dire, nella morsa di Stati Uniti e Israele. Infatti:

(...) Sull’altro fronte, Israele sembra giocare allo scoperto ma con l’intenzione di mettere la Siria in difficoltà. Rivela, da una parte, che ci sono stati contatti e manifesta quindi la sua disponibilità al negoziato, mentre dall’altra sbandiera condizioni pressoché impossibili per Assad. Per il primo ministro israeliano, Ariel Sharon, eventuali negoziati non porterebbero a un ritiro totale dalle alture siriane del Golan. Poi, Damasco dovrebbe smettere di appoggiare il libanese Hezbollah e gli altri gruppi palestinesi che hanno sede nella capitale siriana. Terzo, e non ultimo, dovrebbe «chiudere ermeticamente le frontiere con l’Iraq».
Un tira e molla che Tel Aviv sta usando facendosi anche forte dall’atteggiamento dell’amministrazione statunitense che consiglia di «non trascinarsi dietro le furberie del presidente siriano». (...)
Ricordiamo a Kiwan che il sindaco di Tel Aviv fino a questo momento ha l'incarico di governare la propria città. E' così difficile riconoscere un dato di fatto così evidente come quello che indica in Gerusalemme la capitale dello Stato d'Israele? Le alture del Golan sono parte integrante di Israele, è anacronistico definirle siriane; il libanese Hezbollah e Hamas non sono semplicemente gruppi, sono organizzazioni terroriste che, con i loro attentati, minacciano quotidianamente le vite dei cittadini israeliani. Oltre alla propria faziosità Kiwan mostra anche la sua ignoranza. Infatti di punto in bianco fa resuscitare il governo di Shamir (che ricordiamo rimase in carica dal 1991 al 1993) e trasforma il ministro Tommy Lapid in Yussef Libid, probabilmente volendo tributare un omaggio al pescivendolo del mercato rionale di Beirut.

Aldo Baquis su LA STAMPA di oggi, a pag.13, ci dà un resoconto corretto della giornata. Pubblichiamo il suo articolo, dal titolo: "Assad respinge un invito del presidente israeliano a negoziare a Gerusalemme".

All'indomani di una manifestazione di massa organizzata contro di lui dalla destra radicale e dal movimento dei coloni, il premier israeliano Ariel Sharon ha confermato alla Knesset di sentirsi tuttora impegnato nella realizzazione della Road Map, cioè nella graduale costituzione di uno Stato palestinese indipendente, una volta rimossa la minaccia del terrorismo.
Sabato 120 mila simpatizzanti del movimento dei coloni erano confluiti nella Piazza Rabin di Tel Aviv per protestare contro la disponibilità del premier ad accettare la nascita di uno Stato palestinese e la sua intenzione di smantellare, nel contesto di un vasto piano di disimpegno dalla Cisgiordania, un certo numero di insediamenti, e forse migliaia di coloni. Sul palco assieme ai dimostranti vi erano anche un ministro (Effy Eitam, del Partito nazionale religioso), il presidente della Knesset (Reuven Rivlin, del Likud) e una ventina di deputati del partito di governo. Ieri in Parlamento Sharon ha ribadito che il piano di disimpegno sarà necesariamente realizzato a partire dai prossimi mesi «se il premier Abu Ala continuerà a sgusciare» (da circa due mesi Sharon cerca invano di organizzare con lui un incontro di lavoro) e se fino ad allora «i palestinesi non saranno tornati alla ragione».
Due settimane fa, in un discorso pubblico, Sharon aveva spiegato nei dettagli le caratteristiche del piano di disimpegno, che prevede il completamento della Barriera di separazione con la Cisgiordania (e dunque l’annessione di fatto a Israele di zone omogenee di insediamento), un ridispiegamento dell'esercito fuori dalla zone fittamente abitate da palestinesi e lo «spostamento» di colonie ebraiche isolate. Il premier - il cui intervento è durato circa mezz'ora - non ha neppure menzionato l’inziativa del capo dello Stato Moshe Katzav che la mattina aveva pubblicamente invitato a Gerusalemme il presidente siriano Bashar Assad. Un’iniziativa nata a sorpresa nel corso di un’intervista alla radio.
«Invito il presidente della Siria a venire a Gerusalemme - ha detto Katzav - per incontrare i dirigenti del nostro Stato e avviare così seri negoziati». Ai dirigenti siriani è bastata un'ora per soppesare la portata dell’iniziativa del capo dello Stato. «Il presidente Assad respingerà l'invito - ha dichiarato Bouthaina Shaaban, il ministro siriano per l’immigrazione che funge anche da portavoce per le grandi questioni internazionali - Quell'invito non è genuino. E' un’iniziativa diretta essenzialmente ai mezzi di comunicazione, per distrarre la loro attenzione dalle critiche rivolte ad Israele e alla sua politica».
Alla Knesset un deputato di sinistra, Yossi Sarid, ha appassionatamente spronato Sharon a rilanciare il dialogo con Damasco. «Dici che la Siria attraversa un momento di debolezza? Allora, sfruttalo. Dici che non puoi negoziare su due fronti contemporaneamente? Ma il negoziato con i palestinesi, per tua ammissione, è bloccato. Dici che il popolo israeliano non è abbastanza forte per sopportare il prezzo territoriale di un accordo con la Siria, ossia il ritiro dal Golan? Ma il popolo israeliano ha dimostrato la sua forza quando per 18 anni ha pagato il prezzo della guerra in Libano, da te scioccamente intrapresa nel 1982».
Sharon ha ascoltato senza battere ciglio. Quando ha preso la parola, non ha risposto alle critiche di Sarid. E al momento del voto ha mietuto un netto successo: 51 voti per il governo, 39 per l’opposizione.
Su AVVENIRE Graziano Motta informa minuziosamente il lettore sugli avvenimenti di ieri, il titolo dell’articolo dà il giusto risalto alla vicenda ed il pezzo di per sé è preciso e circostanziato.
Questo il titolo: "Israele «apre», la Siria rifiuta"


Tra scoppiettanti battute dai due versanti, israeliano e siriano, è ben presto svanito il clamoroso invito del presidente dello Stato ebraico, Moshe Katsav, al suo omologo, Bashar el-Assad, di venire a Gerusalemme per riprendere «seriamente e senza precondizioni» la trattativa di pace. Un invito-sfida, nel ricordo della visita che nel novembre 1977, su invito dell’allora primo ministro Menachem Begin fece all’egiziano Anwar Sadat, che portò davvero a un trattato di pace fra i due Paesi. A Damasco però l’iniziativa non è stata presa sul serio, anzi è stata commentata in maniera del tutto negativa dal ministro per i profughi, signora Buteina Shabban, facendo così scadere alla prova dei fatti l’auspicio, che pure era stato formulato da Assad, di una ripresa del negoziato; e svilendo la disponibilità della Turchia di svolger un’azione diplomatica mediatrice. La stessa Casa Bianca aveva auspicato colloqui diretti tra Israele e Siria.
Visto come sono andate le cose il primo ministro Sharon ha tirato un sospiro di sollievo, lui che aveva resistito alle sollecitazioni (non solo della Turchia ma anche dell’Egitto) di prendere in considerazione la proposta di Assad e ieri l’altro poi aveva detto di sì, ma dopo avere ribadito le sue distanze da un regime sospettato di coprire le attività terroristiche in Iraq e di cooperare con l’Iran nel sostegno alla guerriglia degli hezbollah, attestati alla frontiera fra Libano ed Israele; e infine di ospitare nella sua capitale le sedi di parecchie organizzazioni palestinesi impegnate nella rivolta armata contro Israele. Un sì condizionato dunque alla «cessione del sostegno al terrorismo».
Un altro e altrettanto grosso sollievo Sharon l’ha avuto ieri sera dopo un voto alla Knesset che rischiava di provocare la crisi del suo governo. L’ha evitata operando da grande manovriero (59 voti a favore, 39 contrari) sul controverso suo progetto di un disimpegno unilaterale dai territori palestinesi in caso di comprovato fallimento della Road map, il piano di pace. Progetto che comporta l’evacuazione di un buon numero di insediamenti di coloni e che pertanto è avversato non solo dai partiti nazionalisti e confessionali che fanno parte della sua coalizione ma anche da una quindicina di deputati e da alcuni ministri del suo stesso partito. I quali domenica, insieme con migliaia di iscritti, si sono uniti agli oltre 100mila coloni e loro sostenitori in una manifestazione per le vie di Tel Aviv, culminata in un comizio nella piazza principale della città (dove fu assassinato Rabin) promossa proprio per protestare contro il suo progetto politico.
Oratore principale il ministro Efi Eitan, del partito nazionale religioso, che ha minacciato di lasciare il governo se Sharon dovesse realizzare questo piano. Il capo del governo ha evitato una disfatta parlamentare che sembrava sicura, assicurando la sua fedeltà alla Road map e la validità del suo progetto politico nel caso in cui il governo di Abu Ala ne dimostrerà la inapplicabilità non riuscendo a «smantellare quadri e infrastrutture terroristiche». E promettendo che prima di attuare questo progetto lo sottoporrà all’esame del consiglio dei ministri e all’attenzione degli Stati Uniti. In più, per proteggersi da ogni sorpresa, ha evitato di parlare questa volta di «dolorose concessioni» ai palestinesi in caso di successo della Road map.
Ritornando alla prospettiva di ripresa del negoziato israelo-siriano, la posizione di Damasco –così come è stata ribadita dal ministro Shabban- è che debba riprendere al punto in cui si interruppe nel 2000 «con l’80% delle questioni risolte»; e comunque dando per scontata, in cambio della pace e della normalizzazione dei rapporti bilaterali, la restituzione dell’intero altopiano del Golan perduto nella guerra del 1967. per Israele invece questa restituzione è tutta da negoziare, in quanto il Golan, dominando il lago di Tiberiade e la Galilea, è della massima importanza strategica.
Antonio Ferrari, firma pregiudizievolmente contro Israele, sul CORRIERE DELLA SERA ,in un articolo titolato "Segnali di fumo dopo l'epoca delle minacce", si lancia in un’analisi che ha la presunzione di essere storica sui rapporti Israele-Siria. Pesante è in questo articolo la difesa delle ragioni del rifiuto di Assad e il delegittimare le richieste e le condizioni di Sharon, come ad esempio quelle di cessare di dare supporto ai terroristi di Hamas, Jihad ed Hezbollah. Ferrari conclude l’articolo sostenendo che si sia ritornati ad una situazione in cui le parti prediligono la non guerra e la non pace. Ci sembra che questa situazione sia costante dalla fine della guerra del Kippur, e forse, visto le controparti con cui ha a che fare Israele, quella più auspicabile. Ecco il testo:
Il presidente di Israele Moshe Katsav ha invitato a Gerusalemme il presidente della Siria Bashar el Assad, ma i collaboratori di quest’ultimo hanno tempestivamente anticipato il rifiuto del loro leader, definendo l’offerta « poco seria » . Sorprendente l’invito, scontata la risposta. A Gerusalemme non scendono il presidente dell’Egitto Mubarak e il re di Giordania Abdallah, che guidano due Paesi che hanno fatto la pace con Israele. Figurarsi quindi se avrebbe potuto accettare Assad.
Più della notizia in sé, però, sono clamorosi tutti i passi che l’hanno preceduta e quelli che probabilmente la seguiranno. In poche settimane, dopo anni di reciproche e violentissime accuse, e con i rischi di una guerra che stava per materializzarsi in autunno con il bombardamento israeliano su un campo di addestramento palestinese in Siria, il linguaggio e l’atteggiamento di entrambe le leadership è improvvisamente cambiato. Dalle minacce si è passati ai segnali di fumo, e sono cominciate, prima in segreto e ora anche in pubblico, le grandi manovre di avvicinamento: quasi prove di dialogo, forse per recuperare lo « spirito » che aveva accompagnato la conferenza di Madrid nel 1991, e che avrebbe potuto trasformarsi in un accordo definitivo a Ginevra, nel 2000, quando la pace tra Siria e Israele, con la mediazione di Clinton, svanì veramente a pochi metri dal traguardo.
Ariel Sharon ha accusato, e continua ad accusare Damasco di sostenere i gruppi estremisti palestinesi ( Hamas e Jihad islamica) e libanesi ( Hezbollah). L'altro giorno la Siria è stata persino sospettata di aver utilizzato gli aerei dei soccorsi giunti a Bam, nel cuore dell'Iran devastato dal terremoto, per caricarli di armi da destinare ai guerriglieri del partito di Dio.
Tutto questo mentre i servizi segreti, parte delle Forze armate, il mondo diplomatico e numerosi politici israeliani invitavano il premier Sharon a non sottovalutare i segnali giunti da Damasco: le dichiarazioni di Bashar el Assad al New York Times, con la richiesta di un aiuto americano per riprendere i colloqui con Israele, e la storica visita del presidente siriano nell'ex nemica Turchia, che ha portato il premier Recep Tayyip Erdogan a proporsi per un'eventuale mediazione tra Damasco e Gerusalemme, visti gli ottimi rapporti ( militari e politici) di Ankara con lo Stato ebraico.
A questo punto le pressioni interne su Sharon sono aumentate.
Tanto che il presidente Katsav ha formulato l'invito ufficiale, dichiarandosi dispiaciuto del rifiuto, « che dimostra che Assad non è fatto della stessa pasta di Sadat » , evocando quindi la storica visita del defunto leader egiziano a Gerusalemme, che condusse alla pace.
Ora sarebbe ingenuo attendersi rapidi e positivi sviluppi. Però, almeno psicologicamente il quadro è cambiato. Forse, in questa fase, si è tornati sul terreno che Siria e Israele prediligono, avendolo frequentato per anni: quello della non guerra e della non pace.
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