Bashar Assad, un vero leader arabo
ambiguo come sempre nei confronti d'Israele
Testata:
Data: 07/01/2004
Pagina: 9
Autore: Benedict Brogan - Emanuele Ottolenghi
Titolo: Bashar: Non odiamo Israele, vogliamo la pace - Bashar, pugno di velluto in guanto di ferro, vuole trattare con Israele
Sulla Stampa di oggi, mercoledì 7 gennaio '04, viene pubblicata l'intervista rilasciata da Bashar Assad a Benedict Brogan del Daily Telegraph durante la sua visita in Turchia. Il titolo del quotidiano torinese è "Bashar: "non odiamo Israele, vogliamo la pace.": strano è che poi Assad nell'intervista sostenga gli attacchi dei kamikaze e denoti Hamas e Jihad islamica come organizzazioni caritatevoli alle quali non può che dare aiuti di qualsiasi genere. Se questo significa voler la pace allora la Stampa ha fatto un buon titolo. Pubblichiamo l'intervista integralmente poichè essa ha un forte valore politico. E ci riconferma ancora una volta da che parte pendono gli "esteri" della Stampa.
Per oltre un’ora Bashar Assad ha risposto alle domande in arabo, scivolando a volte nell’inglese per fare una battuta, sottolineare un passaggio o correggere gentilmente il giovane interprete. Ma quando si è arrivati agli attacchi suicidi ha rinunciato alla traduzione, parlando direttamente nella lingua appresa a Londra quando studiava oftalmica. Nella prima intervista di rilievo dopo la visita in Gran Bretagna, oltre un anno fa, Assad ha sottolineato come il suo appoggio alla causa palestinese e la sua simpatia per le «bombe umane» non siano stati indeboliti dal severo giudizio occidentale.
Il trentottenne presidente siriano ha anche parlato a lungo dei suoi tentativi di riforma e della speranza di introdurre la democrazia in Siria, un Paese che ha conosciuto oltre trent’anni di dittatura. Verso la fine di questa conversazione a tutto campo si è appassionato discutendo l’argomento dei kamikaze e del nodo palestinese, che ha definito punti salienti della sua presidenza. Come spiegare - o almeno giustificare - a chi non padroneggia la politica mediorientale o non ha familiarità con la tradizione islamica il fenomeno dei suicidi-omicidi di massa usati dai palestinesi come arma contro Israele?
Nell’ottobre 2001 Assad mise in imbarazzo Tony Blair utilizzando la conferenza stampa congiunta nel palazzo presidenziale, in occasione della visita del primo ministro britannico, per paragonare gli autori degli attacchi suicidi ai protagonisti della Resistenza francese. Da allora non ha perso occasione per esprimere simpatia a chi sceglie la morte - la propria e quella di vittime innocenti - per aiutare la lotta palestinese. Questo, ha detto, era la parte più importante del suo messaggio alla Gran Bretagna e all’Occidente. Non ha mai usato il termine «attacchi suicidi», definendoli «questa cosa» o «queste operazioni», sostenendo che sono al di fuori di ogni controllo. «Non abbiamo mai espresso un giudizio sulla loro legittimità. E non abbiamo mai appoggiato o condannato questa cosa. La formula scelta per resistere varia in rapporto al popolo interresato». L’opinione altrui è irrilevante. «Non importa se ci piace o no, se siamo d’accordo o meno. Lui (l’attentatore suicida n. d. r.) sta per morire e non è interessato a cosa ne pensano gli altri. Non rinuncia alla vita perché glielo ordina il capo di un’organizzazione. Sceglie la morte di propria iniziativa».
Secondo Assad le organizzazioni terroristiche dietro agli attentati suicidi, come Hamas e la Jihad islamica, non hanno alcun potere in merito. Israele è responsabile, ha aggiunto, e solo Israele potrebbe fermarli. «Sono atti individuali. Sanno come procurarsi gli esplosivi se lo vogliono», ha detto. «Cosa c’è dietro a queste operazioni? Gli assassini compiuti da Israele, l’occupazione israeliana, gli insediamenti. Se i suoi lettori desiderano la loro fine devono rendersi conto dei motivi che le scatenano. Ulteriori omicidi da parte israeliana susciteranno nuove reazioni. E’ una realtà incontrollabile. Solo Israele può farlo: quando smetterà di uccidere anche le azioni cesseranno».
Ma certamente come leader arabo potrebbe usare la sua influenza per convincere i palestinesi ad abbandonare la violenza?
Assad nega che sia così. «Sono in tanti a dire loro di non farlo, ma loro continuano». La sua simpatia per i palestinesi si è spinta fino a commenti su Israele giudicati «incendiari» in Occidente. Nel 2001 ha detto al Papa, durante la sua visita in Siria, che Israele dimostrava «la stessa mentalità che ha portato al tradimento di Gesù Cristo». In un’altra occasione aveva definito gli israeliani «più razzisti dei nazisti». La propaganda anti-semita è ubiquitaria in Medio Oriente al punto che George Bush ha incluso la fine dell’incitamento all’odio da parte dei media arabi controllati dallo stato tra le clausole per la pace nella ragione. Tuttavia, alla domanda diretta, perché odi tanto Israele e gli ebrei, Assad si ribella. «Non l’ho mai detto. Noi non odiamo. Noi vogliamo la pace. Se si odia non si può parlare di pace. Sono concetti che si escludono a vicenda». In Siria gli ebrei hanno vissuto per secoli, godendo pieno diritto di cittadinanza, argomenta. Secondo un recente sondaggio, tuttavia, ne sono rimasti appena un centinaio.
Sul tema delle cosiddette basi terroristiche nei campi profughi palestinesi attorno a Damasco, Assad ha assunto un tono più conciliante. Stati Uniti e Gran Bretagna hanno esercitato pressioni per l’espulsione di quelli che i diplomatici definiscono «gruppi negazionisti» come Hamas, la Jihad islamica e un’altra ventina di organizzazioni che usano la Siria come base per le loro operazioni. Finora, sulla falsariga di Gerry Adams che definiva l’Ira un’«associazione culturale», aveva sostenuto che questi uffici erano centri d’informazione e svolgevano un ruolo sociale. Nell’intervista ha ammesso che possono essere stati usati per scopi militari ma che non lo sono più, un’affermazione confortata dai diplomatici, secondo i quali con un ultimatum la Siria ha posto fine alle attività dei suoi alleati terroristi. Tuttavia ufficiali di collegamento dei gruppi espulsi da Israele hanno trovato asilo in Siria. «Ma non possono ordinare alcuna azione. E’ noto. Abbiamo già detto che è una faccenda chiusa. Non fanno ciò che facevano, non ricevono nessuno, non telefonano».
L’ammissione di Assad che la Siria abbia sviluppato armi chimiche e biologiche come estrema difesa contro Israele è stata abbinata all’avvertimento che la presenza di mezzi di distruzione di massa peggiora la situazione nella regione. «I rischi di guerra sono cresciuti». Il suo rifiuto di arrivare a un compromesso, ha detto, è questione di correttezza. «Se non usate due pesi e due misure perché non ci aiutate? Perché non sollevate il problema con gli israeliani?» Tuttavia, chi sulle armi di distruzione di massa si attendesse da Assad un gesto nello stile di quello di Gheddafi, dovrà aspettare. Il suo potere è troppo debole per permettergli di rinunciare, o di invitare gli ispettori. Secondo un diplomatico: «Sarebbe l’ultima decisione che prende».
Malgrado le concessioni della Libia, i segnali di disgelo sulle armi di distruzione di massa iraniane, la presenza americana in Iraq, la cattura di Saddam Hussein, Assad non è nervoso. «Gli Usa non hanno bisogno di essere in Iraq per minacciare la Siria. Sono dappertutto nel mondo, non cambia nulla». Così, qual è stata la sua reazione quando ha visto in tv Saddam esaminato da un medico americano? «Che lo si ami o che lo si odi, è un trattamento inumano». Come molti nel mondo arabo, ha avuto molti dubbi sulla versione ufficiale della cattura. Girano molte voci, ha detto: che gli americani abbiano usato gas per addormentarlo, che sia stato catturato dai curdi e venduto agli Usa, aggiungendo che la sua resa era incredibile, dopo la sorte riservata ai figli. Passando all’inglese, ha riso all’idea di teorie cospiratorie ancora più estreme: «Se ne parlerà per anni».
Alle accuse di Gran Bretagna e Stati Uniti Assad oppone l’invasione dell’Iraq e i suoi ripetuti avvertimenti che avrebbe condotto gli americani al disastro. La situazione è peggiorata più in fretta di quanto avesse previsto. Pensava che la resistenza si sarebbe organizzata entro un anno, non entro due mesi. Degli iracheni con cui parla, ha detto: «Molti sono contro Saddam, ma tutti sono contro gli americani».
Richiesto di un giudizio sulla cosiddetta resistenza, che ha ucciso circa 200 soldati americani dalla caduta di Baghdad, ha esitato. Troppo difficile capire cosa stia accadendo in Iraq. «Il problema è che la situazione può essere riassunta in una parola: caos». Così, quale sarebbe il suo messaggio alle famiglie dei soldati caduti in Iraq? In ogni Paese le forze armate hanno un ruolo ben definito e invadere l’Iraq non ne faceva parte. «L’Iraq non sta minacciando la Gran Bretagna o gli Stati Uniti. Così arriviamo a una domanda molto semplice, che vorrei rivolgere loro: perché i vostri figli sono lì per morire? Non credo abbiano una risposta».
La Siria è stata accusata di permettere il transito in Iraq di armi e combattenti islamici attraverso il proprio confine e anche - ma Assad l’ha negato - di aver offerto rifugio ai gerarchi dell’ex regime e accettato di nascondere armi di distruzione di massa irachene nell’imminenza dell’attacco della coalizione. Ora fonti di intelligence dicono che i siriani ingaggiano regolarmente conflitti a fuoco con i ribelli che cercano di lasciare l’Iraq. Damasco ha replicato a Washington che un Paese che non riesce a tener fuori dai propri confini gli immigrati messicani illegali non può criticare la Siria perché non riesce a controllare 500 miglia di confine incerto in mezzo al deserto. Assad ha detto che la Siria ha affrontato il problema della sorveglianza della frontiera ed è pronta ad accettare pattugliamenti congiunti con le forze americane con il doppio obiettivo di soddisfare le richieste di Washington e rendere più sicuro il Paese. «Come possiamo impedire a certa gente di attraversare il confine? Non ne abbiamo la capacità, semplicemente. Abbiamo detto agli americani: o ci vi prendete la responsabilità di effettuare la sorveglianza sull’altro lato della frontiera o ci dotate dell’equipaggiamento necessario. Ma non abbiamo avuto risposta».
Un’altra forma più discreta di collaborazione con gli alleati risale all’11 settembre e alla lotta al terrorismo. La Siria ha una lunga tradizione di opposizione al fondamentalismo islamico. Gli esperti siriani sono stati messi a disposizione dei servizi segreti americani. L’intelligence di Damasco è stata accreditata per la salvezza di vite occidentali e per la cattura di figure di spicco di al Qaeda. Assad ha rifiutato di fornire dettagli ma ha ammesso che la Siria, che recentemente ha estradato in Turchia alcuni sospetti forse implicati negli attentati avvenuti a novembre a Istanbul, ha preso prigionieri uomini di Al Qaeda. «Ogni tanto prendiamo personaggi di spicco», ha confermato. Ma ha deriso la convinzione occidentale che Al Qaeda sia «un enorme mostro, più forte degli Stati Uniti. Non ci crediamo. Non c’è traccia di un’entità con questo nome». Ed è ugualmente critico verso la strategia per la liberazione del Medio Oriente annunciata a Londra nel novembre scorso da Bush. Bush aveva in mente la Siria quando ha parlato di dare ai poveri della regione «il potere della democrazia». Assad ha replicato che la definizione di democrazia secondo Bush è «imposta con l’occupazione, democrazia per forza». Ma lui, il cui padre fu eletto con il 98 per cento dei consensi in elezioni plebiscitarie senza avversari, si è detto entusiasta all’idea di poter correre per la presidenza confrontandosi con altri candidati in elezioni democratiche.
Assad ha autorizzato le banche private - la prima aprirà a giorni - e il suo interesse per le tecnologie ha permesso alla Siria di cominciare a entrare nel 21°secolo. Evidentemente ha imparato qualcosa dagli stretti contatti con Tony Blair. Ha annunciato un «grande dialogo» con i 18 milioni di cittadini siriani, che hanno tutti opinioni differenti sulle modalità del cambiamento: un’idea che echeggia la «grande conversazione» di Blair ed esce dritta dritta dai manuali del partito laburista.
Sul Foglio Emanuele Ottolenghi analizza la complessa trama diplomatica che vi è dietro alle dichiarazioni di Assad in un'ottica di ampio respiro che include l'intero conflitto arabo-israeliano. Ecco l'articolo, dal titolo "Bashar, pugno di velluto in guanto di ferro, vuole trattare con Israele":

E’naturale – ha detto ieri Bashar el Assad al Daily Telegraph, alla vigilia del
suo viaggio in Turchia – che Damasco si difenda dall’"aggressione israeliana" anche cercando di acquisire un deterrente chimico e batteriologico. Il presidente siriano ha poi definito "un passo corretto" la scelta della Libia di rinunciare al suo arsenale di armi di distruzione di massa e ha legato la
disponibilità di Damasco a fare altrettanto una messa al bando di tali armamenti
dall’intera area, Israele compreso. Inoltre, poco più di un mese da un’altra intervista di Assad, al New York Times, il capo dei servizi segreti militari israeliani ha informato il suo governo che i segnali provenienti da Damasco sembrano seri: Assad sarebbe determinato a riaprire il dialogo con Israele. Nonostante egli noti che la Siria stia continuando a sostenere non solo Hezbollah in Libano, ma anche alcuni gruppi palestinesi come Jihad e Tanzim, ci
sono possibilità di riaprire il canale diplomatico, quattro anni dopo il fallimento dei negoziati israelo-siriani nel marzo del 2000. La Siria ha motivi buoni per puntare al disgelo: il primo viene dalla realizzazione di essersi schierati dalla parte sbagliata alla vigilia della guerra in Iraq. I siriani hanno puntato sulla carta panaraba, sperando di ostacolare l’intervento americano. Pur non ritenendo di poter impedire l’invasione dell’Iraq, i siriani hanno utilizzato la loro posizione nel Consiglio di sicurezza dell’Onu e i rapporti privilegiati con l’Europa in particolare la Francia) per diventare i
nuovi campioni della causa araba, sperando di sabotare il progetto americano di democratizzazione e di conservare la loro privilegiata posizione di potenza coloniale in Libano e di garante della lotta contro Israele. Sono bastati pochi mesi per comprendere come nessuno di questi obiettivi sia stato raggiunto. La campagna di stabilizzazione in Iraq sta procedendo, specie dopo la cattura di Saddam, il mondo arabo si sta allineando alla Pax americana nella regione, gli alleati europei sono usciti perdenti, la pressione americana sulla Siria per Libano e terrorismo è aumentata invece che diminuire – a partire dal Syria Accountability Act – e su Assad sono persino piovute le critiche del presidente egiziano Hosni Mubarak, il quale è riuscito a non schierarsi con gli americani ma nemmeno a mettersi contro. Intanto Israele ha fatto la voce grossa,
colpendo la Siria più volte negli ultimi mesi per dimostrarne la sua vulnerabilità e per mandare un messaggio a Damasco. La forza ha smosso i siriani in pochi mesi più di quanto non fecero dieci anni di disponibilità americana e israeliana a trattare.

E’ dura fare i conti con i successi americani
Assad oggi deve dunque fare i conti con i successi americani, cioè la vittoria militare in Iraq, la cattura di Saddam, la capitolazione della Libia in tema di armi di distruzione di massa. L’unica nota dolente per gli americani rimane il conflitto tra Israele e palestinesi, dove Assad ha qualcosa da farsi perdonare e qualche carta da giocare. In anno di presidenziali, all’Amministrazione Bush farebbe gola un altro successo diplomatico, per coronare dopo soli tre anni dall’11 settembre la sua nuova politica estera. Visto lo stallo della road map viene naturale riaprire il negoziato bilaterale tra Siria e Israele. Negli anni di Oslo le trattative bilaterali erano state sapientemente utilizzate dagli israeliani per spingere le controparti arabe al pragmatismo e alla flessibilità, ben comprendendo che nessuno, né i palestinesi né la Siria né la Giordania, voleva essere l’ultimo a fare la pace con Israele. Fatta rapidamente la pace con la Giordania, a ogni battuta d’arresto con i siriani, gli israeliani
ravvivavano, complice Washington, la trattativa coi palestinesi, e viceversa. Ecco perché i segnali di Assad sono seri, ecco perché James Baker è diretto in Siria. Le circostanze per una possibile pace tra Israele e Siria sembrano tra l’altro più propizie oggi che dopo la prima guerra del golfo. La presenza militare americana in Iraq gioca contro la Siria che si sente debole e accerchiata, mentre la determinazione americana a continuare la lotta al terrorismo e a promuovere riforme e democratizzazione nella regione fa tremare la terra sotto i piedi del traballante regime siriano, fragile a causa di una economia stagnante e della sua intrinseca illegittimità di dittatura di una piccola minoranza. Accanto alle valutazioni positive, qualche cautela. Tutti i precedenti round di negoziati fallirono a causa della rigidità ideologica
siriana. I siriani rifiutarono ripetutamente di chiarire quale significato intendevano dare a due parole chiave, pace e normalizzazione, che erano condizioni indispensabili perché Israele si dichiarasse disposto a cedere territorio, rifiutando di interrompere il loro appoggio al terrorismo di fornire dettagli sulla natura della pace con Israele prima che Israele si fosse dichiarato pubblicamente disponibile al ritiro completo dal Golan. In più, l’ostinazione siriana a leggere la risoluzione Onu 242 come legittimazione del confine del ’49 ignorava che, se la risoluzione Onu effettivamente sancisce "l’inammissibilità dell’uso della forza" per acquisire territori, allora questo principio si sarebbe dovuto applicare anche al territorio sottratto dalla Siria con la forza a Israele nel 1948-49, quando il confine di fatto si attestò a Ovest del confine di diritto, quello creato nel 1923 tra la
Siria e il mandato britannico. Se Israele non ha diritto a tenersi tutto il Golan per quel principio, tantomeno allora ne ha la Siria di ritornare sulle sponde del Lago di Tiberiade, che non gli spettavano prima del 67. Certo, la congiuntura è più favorevole, complice il mutato scenario regionale e il probabile successo elettorale di George W. Bush, che garantirà una continuità nell’azione diplomatica americana, mancata invece dopo il vertice di Camp David del 2000, complice la scadenza del secondo termine presidenziale di Clinton.

Ma perché Gerusalemme dovrebbe cedere?
Assad sembra anche aver indicato una maggior flessibilità rispetto alle posizioni del padre, che aveva perso in guerra il Golan da ministro della Difesa. Eppure finora a Damasco ha prevalso la linea della vecchia guardia del padre del presidente, non la tanto annunciata ma mai avvenuta stagione di riforme che ci si aspettava da Bashar. E poi vien da chiedersi: perché Israele
dovrebbe rinunciare a un territorio come il Golan, acquisito durante una guerra
difensiva scatenata proprio dai siriani nel ’67? Il Golan, ricco di risorse idriche e territorio cruciale per accrescere la profondità strategica israeliana, offre un importante punto di osservazione a Israele e rende improbabile un’invasione siriana al presente stato dell’equilibrio militare tra
due paesi. La lunga catena di incidenti che portarono alla guerra del ’67 fu dovuta tra l’altro proprio al controllo delle risorse idriche, scarse e preziose in Medio Oriente. Vista la fragilità del regime siriano e l’importanza
strategica del Golan, perché Israele dovrebbe cedere proprio adesso, solo per isolare i palestinesi e lasciarli, a pace con la Siria avvenuta, in una posizione negoziale ancor più debole dell’attuale? Meglio temporeggiare senza irrigidimenti per non irritare gli Stati Uniti. Il Medio Oriente è cambiato, ma non abbastanza da illudersi. A Damasco i gruppi terroristici operano ancora con la benedizione del regime, e in Libano la guerra santa di Hezbollah contro Israele non è ancora finita.
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