Sul Riformista di oggi, martedì 23 dicembre '03, nell'inserto Diplomatique, la giornalista Anna Borioni racconta le sue sensazioni durante un viaggio in autobus da Tel Aviv a Gerusalemme tra paura ed angoscia. Lodevole è l'iniziativa di dar voce al disagio israeliano provocato dalla seconda intifada. Non molti lo fanno e per questo ci congratuliamo con Il Riformista che sembra rispetti una posizione di imparzialità nelle vicende che riguardano Israele.Confesso: sono salita su un autobus pubblico in Israele, non per eroismo o per solidarietà, ma per tirchieria. Mi dava fastidio l’idea di dover spendere altri 250 shekel (circa 50 euro) per il taxi, quando me la sarei potuta cavare con soli 19 shekel (meno di 4 euro) che corrisponde al costo del biglietto dell’autobus che da Tel Aviv mi avrebbe riportato a Gerusalemme. Ma l’ho fatto anche per vigliaccheria, perché non sono stata capace di ammettere davanti al mio amico israeliano a cui ero andata a far visita a Ramat Gan, un sobborgo di Tel Aviv, che avevo paura. Lui, mi aveva raccontato, prende spesso l’autobus per andare a trovare la figlia che vive a Gerusalemme. È comodo, veloce, costa poco, aveva aggiunto, offrendosi di accompagnarmi alla stazione centrale degli autobus per aiutarmi a prendere la corriera. Non me la sono sentita di obiettare, di fargli pesare il sottile senso di pericolo che questa sua normalità mi trasmetteva. Cosa c’è di più semplice, mi sono detta nel tentativo di farmi coraggio, che salire su un autobus? E poi chissà che controlli ci saranno, figuriamoci, gli israeliani così attenti alla sicurezza! Così mi sono lasciata condurre alla stazione, ma con la convinzione che andavo incontro a un fatale appuntamento con il destino. Ci siamo salutati, ho pagato il mio biglietto e ora sono qui, alle sei del pomeriggio, seduta su un autobus israeliano in attesa che mi riporti a Gerusalemme. Appena salgo sul predellino la gola mi diventa secca, la bocca s’impasta, ho difficoltà a deglutire. Mi do subito della sciocca perché avrei dovuto dire al mio amico, con naturalezza, che preferivo tornare in taxi e lui avrebbe capito senza nulla eccepire. Invece sono stata zitta, complice vigliacca delle mie debolezze, e ora mi ritrovo proprio su uno di quei mezzi che sembrano essere i luoghi favoriti dai terroristi suicidi palestinesi per farsi esplodere.
Sono in Israele da qualche giorno perché faccio parte di «Appuntamento a Gerusalemme», una delegazione di solidarietà con le vittime del terrorismo. Siamo partiti in 67 dall’Italia e oggi ho strappato qualche ora di libertà al programma ufficiale che si svolge a Gerusalemme, dove abbiamo una fitta agenda d’incontri con esponenti politici e con intellettuali. Per la verità se prendere l’autobus come fanno i più, oppure affidarmi a un taxi, è una scelta che mi tormenta da ieri, da quando cioè ho deciso di far visita ai miei amici di Tel Aviv. Poi, venuto il momento di partire ho trovato un taxi libero, fermo proprio davanti all’albergo: è stato quasi naturale entrarvi dentro lasciandomi conquistare dalla sua promessa di sicurezza. Ci abbiamo messo circa un’ora per arrivare a Tel Aviv. Ora, sulla via del ritorno, non mi resta che rassegnarmi ad affrontare un viaggio che mi si presenta come infernale, anche perché mi accorgo con grande allarme che i passeggeri salgono uno dopo l’altro, passano davanti all’autista che funge anche da bigliettaio e si siedono senza che nessuno li controlli. Cerco di rincuorarmi pensando che forse qualcuno sta osservando il flusso di passeggeri in modo discreto, senza dare nell’occhio. Mi guardo attorno nella speranza di vedere qualche poliziotto, oppure uomini n borghese appostati qua e là, ma non noto nulla. Mi sembra incredibile, ma d’altronde, penso, come si fa a controllare il movimento di tanta gente, che si produce tutti i giorni, a tutte le ore?
Sono una delle prime passeggere a salire sulla corriera per Gerusalemme e subito mi appare un dilemma il dover decidere in quale posto sedermi: vicino all’entrata da dove posso osservare bene chi sale, oppure dietro dove, forse, in caso di un uomo-bomba, ho più probabilità di salvarmi? Opto per un posto davanti perché non resisto all’idea di non poter vedere chi entra, anche se, presumo, un eventuale attentatore si farebbe scoppiare proprio all’entrata. Ma sì, mi dico, è meglio essere fra quelli che muoiono subito, magari guardando in faccia il proprio assassino, piuttosto che trovarsi fra i tanti orribilmente mutilati. Mi sento quasi eroica in questa mia decisione e mi siedo una fila dopo l’entrata, da dove posso vedere bene uno per uno i passeggeri mentre salgono sul bus. Osservo i loro visi, cerco di cogliere strani scintillii nei loro occhi, scruto nelle pieghe dei loro vestiti, indugio lo sguardo sulle loro pance, alla ricerca di sospette protuberanze sotto le giacche. Entrano due ragazze dai jeans stretti a vita bassa, l’ombelico è scoperto: com’è rassicurante questa moda giovanile nella sua spavalderia! L’arrivo di un gruppetto di quattro soldati mi sembra di buon auspicio, anche se appena seduti, evidentemente stanchi, iniziano a dormire. Sale un religioso con il cappello nero dalla falde larghe e il talled, lo scialle rituale, che fuoriesce dalla giacca scura. Con apprensione mi ricordo che uno degli ultimi attentati è stato commesso proprio da un palestinese travestito da religioso, salito su un autobus che trasportava famiglie appena uscite dal tempio per la preghiera del sabato. Era il 22 agosto scorso: fu una strage soprattutto di bambini. Perciò lo osservo a lungo, noto che è molto magro, avrebbe difficoltà a nascondere una cintura esplosiva, alla fine mi convinco che è veramente quello che sembra.
Ecco una dona gravida e mi metto subito sull’allarme: un attentato fu messo in atto proprio da una ragazza con il pancione finto. Ma questa donna ha un viso dolce, l’espressione già materna, possibile che invece di un bebè porti in grembo una bomba? Concludo che non è possibile. Nel posto accanto al mio si siede un giovane bruno, barbuto, con una valigetta ventiquattrore. La pressione mi sale improvvisamente. Poggia la valigetta sotto il sedile, mi fa un sorriso, apre un giornale. Cerco di frugare nella memoria alla ricerca di attentati con valigette, ma non ricordo niente. Un momento, quello effettuato al caffè dell’Università di Gerusalemme fu realizzato da una valigetta-bomba! Ma sugli autobus proprio non mi sembra che sia mai avvenuto un fatto del genere.
Entrano casalinghe, impiegati che tornano a casa dopo una giornata di lavoro, tanti studenti, finché l’autobus si riempie e parte. Nessuno, mi sembra, ha uno sguardo spiritato, piuttosto i loro volti appaiono stanchi, per lo più desiderosi di concludere in pace una giornata di lavoro. Il mio vicino dopo qualche minuto già dorme. Tiro un sospiro di sollievo, per ora tutto bene, ma adesso aspetto con apprensione le fermate successive. Mi viene in mente che si è appena conclusa al Cairo la riunione dei rappresentanti delle organizzazioni terroristiche palestinesi, Jihad islamica, Hamas e le altre, in cui dovevano decidere se continuare a trucidare i civili israeliani in qualunque parte essi si trovino o solo gli abitanti degli insediamenti nei territori occupati, o solo i soldati. L’incontro è fallito, vuol dire che continueranno a tentare di trucidare tutti gli israeliani, senza discriminazioni. Tuttavia cerco di ragionare: forse ancora non saranno rientrati a Gaza o in Cisgiordania, magari si sono trattenuti per salutare qualche parente, oppure per tramare con fondamentalisti egiziani un futuro di collaborazioni terroristiche. Certo è che non avranno avuto ancora il tempo per ordinare nuovi attentati in Israele.
Con questo pensiero rassicurante provo a rilassarmi, anche perché, nel frattempo, mi accorgo che l’autobus ha imboccato l’autostrada e fila dritto senza effettuare fermate. Cullata dal dondolio delle ruote, la sonnolenza a poco a poco conquista anche me. Mi trovo in uno stato di dormiveglia, rallenta e dopo poco si ferma. Di botto sono del tutto sveglia, seduta dritta e rigida, le mani sudaticce strette sui braccioli. La porta davanti si apre, scende proprio il mio vicino, sale un uomo sulla trentina, scuro, tozzo e panciuto. Ahimè, gemo silenziosamente, ci siamo, sarà ciccia o imbottitura al plastico? Cerco di sprofondare sotto le poltrone, vorrei non essere mai venuta in questo paese, vorrei trovarmi sul vecchio 64 a Roma, sempre affollato, puzzolente, frequentato volentieri dai borseggiatori, ma sicuro, familiare. Con la testa abbassata mi guardo obliquamente intorno, sono tutti tranquilli. Incoscienti! L’autobus riparte e il nuovo arrivato rimane in piedi a parlottare con l’autista. Uhuff, i due si conoscono! E io che quasi collassato, mi sento una vera idiota. Cerco di ricompormi, ripesco sotto il sedile la mia dignità miseramente franata in pochi istanti e tento di assumere un’aria distaccata, da persona di mondo. La corsa prosegue, stiamo ormai alla periferia di Gerusalemme, l’autobus effettua nuove fermate, scarica e carica gente. Mi sembra, ma non ne sono sicura, che l’omone sia rimasto lì davanti per controllare il via vai. Il traffico cittadino ci inghiotte, mi dico che questo potrebbe essere il momento più pericoloso, quello in cui ci sarebbero più vittime, ma io ho ormai abbassato la guardia. La vergognosa performance di poco prima ha lascito il segno, desidero solo finire in decenza la corsa, qualunque sia l’esito. In pochi minuti arriviamo alla stazione centrale che si trova sotto un grande centro commerciale. L’autobus imbocca una rampa d’accesso e poco dopo si ferma, scendo e come, gli altri, per accedere al piano superiore, passo attraverso un posto di controllo. Ragazzi in divisa, seri e gentili, mi frugano la borsa, mi passano al setaccio con il metal detector. Appena libera mi fermo al bancone di un bar per bere un bicchier d’acqua. Il liquido mi bagna la gola disseccata. Noto che i due giovanissimi soldati accanto a me si voltano a guardare compiaciuti due ragazze di pelle scura e ricciolute, dai lineamenti delicati e i corpi snelli delle donne etiopi, sono bellissime e passeggiano allegre tra le vetrine dei negozi. Anch’io sono felice di potermi mischiare alla gente frettolosa che affolla le vie di Gerusalemme.
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