Il discorso di Ariel Sharon
Le interpretazioni dei maggiori quotidiani italiani
Testata:
Data: 19/12/2003
Pagina: 0
Autore: Diversi Giornalisti
Titolo: Il discorso di Sharon
Sui quotidiani di oggi viene dato ampio spazio al discorso di Sharon a Herzlya, atteso, ma i cui contenuti erano in parte già trapelati. In poche parole Sharon ha detto che se i palestinesi non prenderanno misure contro il terrorismo in tempi ragionevoli, sarà costretto a compiere iniziative unilaterali per la sicurezza dei suoi concittadini. I giornali, a seconda della loro impostazione, hanno dedicato spazio alla vicenda. Dal trafiletto si arriva a più articoli sullo stesso giornale.
Partendo dalla prima pagina della STAMPA, sulla quale campeggia la foto del "muro" ed il titolo "La minaccia di Sharon",una vecchia abitudine degli esteri di dedicare titoli e immagini "ostili", il quotidiano torinese dà poi all'avvenimento moltoo spazio. Aldo Baquis ritiene che questo discorso sia un passo per alcune misure a tempo, volte ad alleviare l'esposizione dell'esercito nei territori e come Sharon stesso le veda come funzionali alla Road Map non avendo alcuna intenzione di lasciare tutti i territori definitivamente. Di tutt'altro avviso è invece Fiamma Nirenstein, la quale, con un'attenta analisi politica, ritiene che questo discorso abbia segnato una forte rottura con il passato di Sharon e del Likud stesso. L'articolo viene qui riportato integralmente.
Maurizio Molinari esamina invece i rapporti USA-Israele. Lo riproduciamo integralmente.
Henry Kissinger, abile nel riassumere notizie e dati che tutti già conoscono, ci dà comunque una buona lezione di storia. Riportiamo anche il suo articolo.

A differenza del suo sito web, che nei giorni scorsi è apparso molto sbilanciato in senso filopalestinese, Il CORRIERE DELLA SERA di oggi con un solo pezzo di davide Frattini, chiaro, conciso e corretto esaurisce tutti i temi del discorso di Sharon. Noi, con piacere, lo pubblichiamo.


Anche REPUBBLICA, stranamente meno faziosa del solito ma pur sempre anti-Sharon,pubblica articolo di Daniele Mastrogiacomo critico nei confronti del premier israeliano. Lo proponiamo ai nostri lettori.

Il RIFORMISTA invece va controcorrente; sostiene infatti che il discorso di Sharon sia stato soprattutto un temporeggiamento, volto si a dare un segno di vita a "quelli di Ginevra", ma che allo stesso tempo non prevede nessuna iniziativa concreta per riavviare la road map.

Il FOGLIO, anch'esso essenziale, vede nel discorso di Sharon una precisa mossa politica che prelude ad un grosso scossone sullo scacchiere mediorientale.

AVVENIRE dedica ampio spazio al discorso di Sharon. In particolare Graziano Motta,unico tra i giornalisti italiani, si sofferma sulle implicazioni economiche che potrebbe causare. Gli altri articoli sono equilibrati.

La sfida del vecchio generale, di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME
LA densa, agitata attesa per il discorso di Sharon alla conferenza di Herzlya ha costituito nei giorni scorsi un fenomeno a sè: esso è stato paragonato dai commentatori israeliani al discorso di Theodoro Herzl alla conferenza di Basel quando egli proclamò la nascita dello Stato Ebraico, o alla dichiarazione Balfour, che per parte inglese, all’inizio del secolo XX dichiarava di vedere con favore la nascita di «un focolare per gli ebrei». Se è un’esagerazione, lo dirà la storia, ma Sharon ha certo compiuto ieri una scelta molto drammatica: ritiro dell’esercito a una linea di difesa diversa da quelle attuali, smantellamento di insediamenti, ridistribuzione di alcuni di essi, ovvero rimozione dal cuore dei territori, blocco totale dello sviluppo degli insediamenti, grandi misure di facilitazione compreso un alleggerimento decisivo dei posti di blocco, aiuti economici ai palestinesi «senza risparmio». E sullo sfondo lo stato palestinese in fieri.
Tutto questo deve ancora accadere e ci vorranno mesi, Shimon Peres da capo dell’opposizione già dice che le parole non sono fatti, che solo i fatti portano la pace. Ma certo ci sono molti elementi fatali e decisivi nelle parole che Sharon ha preparato per giorni, incontrando uomini suoi e capi dell’opposizione, israeliani e stranieri nel ritiro della sua fattoria nel sud. Il risultato è un discorso che George Bush ha ricevuto alcune ore prima che fosse pronunciato e che corrisponde a quasi tutte le speranze dell’Amministrazione americana, salvo che per il punto della barriera di difesa. Su quella Sharon è convinto fino in fondo che rappresenti la salvezza stessa della popolazione civile attaccata dal terrorismo. Ma per il resto Sharon sceglie la linea di aprire a 360 gradi, come del resto testimoniano le già durissime reazioni della gente degli insediamenti, partendo dalla Road Map, compreso sgombero di tutti gli insediamenti illegali.
Il Primo Ministro dice infatti: prima diamo alla Road Map di marca americana la possibilità di decollare di nuovo, e solo se scopriremo che non c’è un partner per metterla in atto, allora e solamente allora, fra qualche mese, poichè non possiamo restare per sempre in questa situazione faremo dei passi unilaterali. Questi passi, nella mente di Sharon sono la risposta al fallimento di tutti i colloqui vecchi e nuovi, altrui e suoi (da Barak con Clinton a Arafat a Camp David a lui stesso con Bush e Abu Mazen a Taba) in cui la soluzione dell’accordo con i palestinesi non si è rivelata realistica, in cui «land for peace» non ha funzionato: quindi, la sua scelta uniltareale è strategica, e non legata a una delusione momentanea. E’ questa la decisione nuova: quella di tirarsi fuori da parte della Giudea e della Samaria («la scelta più dolorosa che si possa immaginare», ha detto) comunque: il vecchio fondatore degli insediamenti ebraici sceglie la via di uscita in maniera circostanziata e decisa, dedice di strappare quel pugnale dalla carne di Israele perchè lo considera, almeno per alcune parti, una scelta pericolosa per lo Stato Ebraico stesso, per motivi politici e demografici.
Fra la scelta di uno Stato Ebraico e meno territorio, e quello di più terriotorio e meno Stato Ebraico, sceglie la prima strada, come Ben Gurion. Non solo: la sua scelta segue, come è logico per ogni politico, la volontà testimoniata da tante indagini statistiche: la maggioranza, likud o laburista non importa, sceglie la pace da tempo. E poi, Sharon da generale, da militare, sa cosa vuol dire il sangue, la morte, la perdita dei giovani soldati, e da tre anni sa anche che il terrorismo può mettere un intero Paese in una situazione di assedio civile, umano ed economico.
Il capo storico dell’insediamento di Migron, il primo sulla lista degli sgomberi legati alla Road Map, un aggregato di 43 famiglie e venti minuti da Gerusalemme è un vecchio amico di Sharon: si chiama Zeev Hever, detto Zambish, ed è un uomo tutto fede e sacrificio. Sharon ieri ha scelto fra la sua amicizia e la sua nuova strada: Zambish fino all’ultimo ha ripetuto che non credeva una parola di quello che gli raccontavano del suo vecchio compagno, che proprio lui volesse tradirli, che proprio lui volesse abbandonare gli uomini che, comunque li si consideri, hanno in questi tre anni hanno avuto immensi lutti fra familiari e vicini di casa a causa degli attacchi terroristi; «chi pensa di cedere territori con una mossa unilaterale», ha anche detto Zambish «premia il terrorismo e da pure segni di essere malato di mente, con quello che abbiamo passato».
Ma Sharon, che malato di mente non è, ha deciso di seguire la sua personale stella che è composta di più aspetti: per prima cosa, il Primo Ministro non può più stare politicamente immobile, o ne va della sua credibilità come leader storico quale egli vuole essere. Dichiarò recentemente in Italia a «La Stampa»: «Io sono il solo che può fare la pace»: Sharon, come Begin, leader del Likud che firmò la pace con Sadat dandogli il Sinai e sgomberando l’insediamento di Yamit con la forza, è convinto che se Israele ha una chance, si tratta della sua propria chance; la sinistra si troverebbe contro una muraglia di no, dato il pessimo risultato ottenuto a suo tempo con gli accordi di Oslo. Anche Sharon già suscita l’ira degli insediamenti, ma la sua biografia, la sua forza personale può rappresentare un valido contrappeso. La lotta sarà dura, la linea di Sharon è una linea che a differenza di quella di Barak intende tenere conto innanzitutto della sicurezza di Israele, Sharon non cederà quello che non riterrà conveniente per il suo Paese; d’altra parte, Sharon non cederà alle pressioni degli insediamenti, che muoveranno mari e monti contro il suo programma, e neppure si farà impressionare dalle reazioni dei palestinesi, che da un parte dicono che non è vera proposta di pace, dall’altra che il discorso di Sharon è la dichiarazione di resa d’Israele. Come quando se ne andò dal Libano unilateralmente.

Sharon: la pace in fretta o ci separiamo da soli, di Aldo Baquis

Un appello ai palestinesi affinché «abbandonino il terrorismo» e intraprendano piuttosto trattative dirette con Israele «allo scopo di gestire finalmente la propria esistenza in uno Stato palestinese democratico, dotato in Cisgiordania di continuità territoriale» è stato lanciato ieri dal premier Ariel Sharon (Likud), durante un convegno a Herzlya (Tel Aviv) dedicato ad una analisi sulla sicurezza israeliana. Sharon ha tuttavia avvertito i palestinesi che tale svolta deve realizzarsi entro pochi mesi, trascorsi i quali Israele si vedrà costretto a procedere a un «Piano di distacco» da parte della Cisgiordania il cui obiettivo sarà di ridurre al minimo «l'attrito» fra i due popoli.
Oggi il prezzo di questo attrito viene molto avvertito dall'esercito israeliano. I suoi vertici esprimono crescente aprensione per i costi esorbitanti della repressione dell’Intifada e per il logorio che essa provoca nelle truppe. Fra le unità dei riservisti, richiamate con grande frequenza, si sono già avuti fenomeni di malcoltento.
La Barriera di separazione - eretta a ridosso della linea di demarcazione con la Cisgiordania e attorno a Gerusalemme Est - sarà in ogni caso realizzata «a tempi serrati», ha promesso Sharon. Ma nel contesto del «Piano di distacco», degli insediamenti ebraici isolati dovranno essere «spostati». Verrà così ridotto il numero degli israeliani che abitano in prossimità di zone palestinesi fittamente popolate.
Sharon non ha delineato le nuove linee di difesa su cui intenderebbe assestarsi, nel contesto del «Piano di distacco». Secondo i suoi consiglieri, vede come zone di interesse strategico: l’intera valle del Giordano, le colonie di Ariel ed Emmanuel (Cisgiordania centrale) e l'area di insediamento del Gush Etzion, a ridosso di Betlemme. Il controllo su Hebron verrebbe inoltre mantenuto, per ragioni storiche e sentimentali.
Gran parte del discorso è stato diretto idealmente alla Casa Bianca. Sharon ha ribadito che il Tracciato di pace, basato su un importante discorso del presidente George Bush, resta l'unico piano realizzabile nella Regione. «Sempre che - ha sottolineato - i palestinesi provvedano a disarmare i gruppi terroristici e a combattere l'incitamento all'odio verso Israele».
Israele, ha sottolineato, resta impegnato a fare la propria parte: «Gli avamposti illegali saranno smantellati. Punto e basta». Nè saranno costruite nuove colonie, ha precisato.
Ma se «i palestinesi dovessero trascinare i piedi» e non cooperassero con la realizzazione del Tracciato di pace, Israele, allora, ingranerebbe la marcia del Distacco unilaterale. Una serie di provvedimenti - ha garantito il premier - tutti squisitamente di carattere «difensivo», e «non politico», i quali saranno realizzati «nel massimo d’intesa con Washington», e che comunque «non contrastano» con lo spirito della Road Map.
Mentre Sharon si affannava ad inoltrare a Washington questi messaggi rassicuranti, un suo ministro - Zahi Hanegbi - ha tenuto a ricordare che «il Comitato centrale del Likud si oppone ancora oggi alla costituzione di uno Stato palestinese in Cisgiordania»: resta contrario cioè all'obiettivo principale del Tracciato di pace. Secondo Hanegbi, lo stesso Sharon non pensa che uno Stato palestinese indipendente possa essere costituito accanto ad Israele. Nel suo discorso, il premier ha comunque consigliato ai palestinesi di affrettarsi a procedere speditamente nella direzione indicata dal Tracciato di pace perché «altrimenti in futuro dovranno accontentarsi di meno di quanto potrebbero ricevere oggi mediante negoziati diretti».
Negativa la prima reazione del capo dell’opposizione parlamentare, il laburista Shimon Peres, che si è detto «molto deluso» dal discorso di Sharon. «Invece di fare finalmente delle scelte, ha preso altro tempo», ha notato. Negativa anche la reazione del Movimento dei coloni, secondo cui la disponibilità di massima del premier a smantellare alcuni punti di insediamento «regala una vittoria ai terroristi palestinesi, e mette a repentaglio la vita dei coloni». Il premier palestinese Abu Ala si è detto «molto deluso». Anche Hamas e Jihad islamica hanno bocciato il piano: lo sceicco Ahmed Yassin (Hamas) ha detto che è stato un discorso «privo di valore, Sharon vorrebbe che i palestinesi alzassero bandiera bianca. Noi proseguiremo invece la lotta armata e l’autodifesa».
Ma Sharon ieri, in diretta tv su tutte le reti nazionali, parlava in primo luogo all'israeliano della strada: logorato da tre anni di attentati palestinesi, dalla recessione economica e da una profonda crisi sociale. Sharon si è richiamato al David Ben Gurion del 1948, ha chiamato la popolazione a raccogliere tutte le proprie forze per edificare «uno Stato ebraico e democratico» solido. Un discorso alla Churchill, in cui ha voluto ribadire che attende ancora gli israeliani «un compito arduo, una missione doppia: militare e politica». «Con l'aiuto di un’ondata immigratoria, che per Israele deve essere oggi l'obiettivo principale, potremo - ha concluso - avere successo».

Il muro potrà diventare un aiuto alla pace, di Henry Kissinger

IL conflitto arabo-israeliano è, innanzitutto, un confronto fra percezioni differenti. Il partito al governo in Israele vede nel Paese l’adempimento di un mandato biblico, che sarebbe negato condividendolo con i palestinesi. Per questi l’espulsione da un territorio per secoli considerato arabo è una ferita aperta; accettare l’intrusione israeliana oltrepassa le loro capacità emotive e psicologiche. Il dibattito interno palestinese verte su come rovesciare lo stato ebraico: c’è chi spinge per un conflitto permanente mentre i moderati pensano di raggiungere lo stesso scopo per tappe. Solo una piccola minoranza ritiene desiderabile una convivenza.
L’iniziativa diplomatica più attiva è quella del Quartetto, composto da Russia, Europa, Onu e Stati Uniti. Da loro arriva la «road map», una serie di passi successivi che dovrebbero culminare in un accordo nel 2005. Ci credono perché sembrano convinti, almeno i membri non statunitensi, che gli strumenti più importanti per dar vita un accordo di pace siano una matita ben temperata e una carta geografica e che i risultati possano essere imposti agli Usa. Che hanno insistito per un alt, verificato, alle azioni terroristiche e per lo smantellamento delle strutture logistiche che le organizzano in suolo palestinese come precondizioni per il negoziato.
Ironicamente, questo impasse formale può oscurare la percezione che, quasi impercettibilmente, si stia delineando una cornice psicologica favorevole a un accordo. In Israele il Likud si sta interrogando alla luce del fatto che la rivendicazione biblica può condurre a un boom demografico, con gli arabi, diventati maggioranza in Palestina, pronti a rivendicare il controllo dell’intero territorio. Questo porta con sè la volontà di restituire la maggior parte delle terre conquistate da Israele nella guerra del 1967 in cambio dell’accettazione palestinese della sconfitta del 1948 e della divisione del territorio. Se l’opinione pubblica israeliana accetta l’idea che l’unico mezzo di prevenire un disastro demografico sia uno stato palestinese, i presupposti psicologici per una tregua saranno raggiunti.
Nello stesso tempo, i palestinesi cominciano a rendersi conto che l’opzione militare non è praticabile e che, almeno per ragioni tattiche, la coesistenza con Israele è inevitabile - una visione apparentemente condivisa da un numero crescente di stati arabi che sottoscriverebbero qualsiasi condizione giudicata accettabile dai palestinesi.
Questa tendenza si ritrova nell’intervista rilasciata al «New York Times» dal presidente siriano Bashar Assad, nella quale si dice che l’accordo fra Siria e Israele al 75 per cento è fatto e che l’America dovrebbe sovrintendere alla conclusione del negoziato. Dichiarazioni che non hanno ricevuto l’attenzione dovuta. Significa che la Siria è disposta a stipulare un accordo di pace anche prima che sia sistemata la questione palestinese, con la prevedibile conseguenza di alleggerire la pressione internazionale su Israele? Che Assad è pronto a espellere dalla Siria e dal Libano gli Hezbollah finanziati dall’Iran, requisito imprescindibile perché Israele accetti? In tal caso la stima di Assad della percentuale di accordo raggiunta pare modesta dal momento che rimangono solo le poche centinaia di metri di differenza fra la frontiera internazionale siriana e la terra occupata nel 1967 (Si tratta dei diritti rivieraschi sul mare di Galilea, che dovrebbe essere possibile risolvere). Potrebbe essere che l’ostacolo psicologico più severo all’accordo si trovi dal lato palestinese? E che un altro ostacolo siano le incrostazioni ideologiche del contesto negoziale prevalente? In questo quadro la barriera di sicurezza costruita da Israele, anche se non il suo attuale percorso, può emergere come una soluzione piuttosto che come un ostacolo.
Nel mezzo secolo di Israele i palestinesi sono stati l’elemento centrale nel rifiuto della regione di accettare la sua esistenza. I pubblici attacchi, sponsorizzati dal governo e condotti al concetto stesso di uno stato d’Israele, non sono mai cessati. Persino la firma palestinese dei fin troppo enfatizzati accordi di Ginevra non andò molto più in là nel legare il ritorno dei rifugiati a una quota accettata da un Paese terzo, lasciando a Israele la facoltà di determinarne il numero. Una concessione priva di contenuto: legare il diritto al ritorno alla discrezionalità israeliana renderebbe il Paese vulnerabile alle pressioni internazionali.
La svolta nei negoziati fra Egitto e Israele avvenne nel 1977 quando il presidente Anwar Sadat fece il suo storico viaggio a Gerusalemme e depose una corona sulla tomba del Milite ignoto. Non c’è mai stato un simile gesto di riconciliazione da parte dei leader palestinesi, che devono ancora trovare un modo per dimostrare che accettano lo stato israeliano. Può essere difficile smantellare da un giorno all’altro l’apparato terroristico, ma porre fine al sistematico diniego della legittimità d’Israele e all’incitamento al terrorismo sono obiettivi realizzabili immediatamente.
Quanti sono coinvolti nel processo di pace dovrebbero chiedersi se quelli ritenuti passaggi irrinunciabili non rappresentino addirittura un ostacolo per ogni futuro progresso: il ritorno di Israele ai confini del 1967, l’abbandono della maggior parte degli insediamenti e la divisione a metà di Gerusalemme in cambio di qualche tipo di garanzia internazionale e del riconoscimento d’Israele da parte dei palestinesi. L’idea di una forza internazionale guadagna crescenti consensi. Ma che cosa significa precisamente garanzia internazionale? Contro quali pericoli protegge e con quali mezzi? La storia delle garanzie multilaterali è scoraggiante, soprattutto in Medio Oriente.
La vera minaccia è il terrorismo, contro il quale le garanzie internazionali non servono. Se le forze armate israeliane, con tutta la loro motivazione, non riescono a prevenire le infiltrazioni, come potrebbe farlo una forza internazionale o anche statunitense? E’ molto probabile che si riveli più una barriera contro la libertà d’azione d’Israele che contro il terrorismo palestinese. Verosimilmente una forza internazionale diventerebbe essa stessa ostaggio, costretta di volta in volta a comprarsi la salvezza ignorando le violazioni o a mettere a repentaglio vite umane nel tentativo di intervenire. E a questo punto i rispettivi governi subirebbero forti pressioni per ritirare i propri soldati.
La sicurezza dovrebbe essere perseguita con strategie che tengano conto delle peculiarità del conflitto:
A) la linea di demarcazione non è un confine internazionale ma il cessate-il-fuoco del primo conflitto, quello del 1948. Mai accettato dai palestinesi fino a quasi mezzo secolo dopo e, anche allora, non riconosciuto come legittimo confine dello stato israeliano.
B)Le due parti vivono in stretta prossimità. La sfida è rendere possibile questa coesistenza quando la distanza fra il Giordano e il mare è di 50 miglia o anche meno. Non c’è spazio per la «terra di nessuno» o per un cuscinetto strategico,come quello del Sinai al confine con l’Egitto.
C) In queste circostanze la sicurezza non può basarsi sui confini raggiunti in una guerra finita 50 anni fa e deve invece adeguarsi alle attuali necessità di sicurezza.
D) In ogni possibile scenario le concessioni israeliane saranno territoriali e concrete mentre quelle palestinesi sono per lo più psicologiche e volatili. La clausola dell’abbandono della violenza rientrava già degli accordi di Oslo, con risultati risibili. L’argomentazione che, in caso di accordo, si ristabilirà la fiducia reciproca, non basta a rassicurare nel breve termine.
L’opposizione americana all’idea di una barriera di sicurezza andrebbe riconsiderata. Una barriera fisica, difficilmente superabile, faciliterebbe il ritiro di Israele dalle città palestinesi e l’abbandono dei posti di blocco che limitano così gravemente la vita e la dignità dei palestinesi. Garantendo inoltre una demarcazione, oltrepassata la quale i coloni dovranno adattarsi alle regole palestinesi o andarsene. Forse la contrarietà palestinese è dovuta al significato del muro, prova del’esistenza d’Israele? Per lo stesso ragionamento, Israele deve evitare di evacuare i territori al di là della barriera. C’è chi obietta che questa evoca i muri eretti dal comunismo, nella fattispecie quello di Berlino. Ma quei muri servivano a non lasciar uscire la gente; questa a chiudere fuori il terrorismo. Un’obiezione più significativa è che sarà un ostacolo alla riconciliazione fra due popoli che devono imparare a convivere. E’ vero che qualsiasi assetto stabile è basato sull’accordo e un grande sforzo internazionale andrebbe intrapreso per favorire il ritorno di condizioni di vita civili nello stato palestinese. Quando sarà tornata la fiducia e sarà avviata una pacifica convivenza allora forse la barriera potrà essere smantellata.
La sua estensione oltre i confini del 1967 dovrebbe limitarsi strategicamente al minimo indispensabile. Ma il principio che l’ispira è importante: gli Stati Uniti non dovrebbero scoraggiarne la costruzione ma piuttosto, dare il loro contributo affinché questo crei le condizioni per una svolta. L’alternativa è imporre qualche frusto clichè che potrà anche portare la pace ma fomenterà altre ribellioni e invece di stabilità porterà solo l'attesa di un ulteriore confronto.
Un accordo a interim può essere il modo per impedire alla questione dei rifugiati di bloccare le trattative. Una soluzione decisiva degna del nome deve risolvere questo nodo. Nessun governo israeliano può accontentarsi di meno; nessun leader palestinese ha fin qui rinunciato senza ambiguità al diritto al ritorno. Se il problema si rivelasse insolubile, la barriera di sicurezza potrebbe garantire una divisione provvisoria e rendere possibile uno stato palestinese anche prima dell’accordo conclusivo. Le questioni territoriali potrebbero venire risolte cedendo qualche porzione del territorio israeliano al governo palestinese. Particolare attenzione dovrebbe essere rivolta alle aree del Nord dove il ritorno della popolazione araba potrebbe alleggerire il problema demografico.
Un approccio di questo genere ha come premessa l’abbandono di alcuni formalismi. I nostri partner del Quartetto devono vedere la pace in Medio Oriente come qualcosa di più complesso che uno strumento da usare per fare pressione sugli Stati Uniti affinché strappino concessioni a Israele per poco di più della mera parola «pace». I palestinesi devono scegliere fra l’autentica accettazione dello stato ebraico e una soluzione a interim che crea immediatamente uno stato palestinese e segna un grande passo in avanti verso un’intesa anche se stronca le loro amibizioni. Israele da parte sua deve abbandonare una diplomazia pensata per estenuare la controparte e concentrarsi, in stretto contatto con gli Stati Uniti, sulle richieste essenziali.
Per entrambi la soluzione sarà un trauma. Per molti israeliani l’abbandono degli insediamenti e la divisione di Gerusalemme saranno percepiti come un ripudio delle radici dello stato ebraico. Per i palestinesi sarà la fine del mito fondante della loro società. Il ruolo dell’America è centrale: deve esplorare l’esistenza di un’opzione negoziale siriana, abbandonare l’illusione di poter imporre qualche pace di carta e, nello stesso tempo, condurre le parti con determinazione verso un obiettivo che appare, almeno concettualmente, raggiungibile.



L'America avverte Gerusalemme: non a passi unilaterali, di Maurizio Molinari

Washington è critica sulla scelta di compiere passi «unilaterali» nel timore che indeboliscano il processo della Road Map, ma vede con favore la decisione di iniziare a smantellare gli insiediamenti nei Territori.
La reazione della Casa Bianca al discorso pronunciato dal primo ministro israeliano, Ariel Sharon, fa attenzione a separare il giudizio sulla questione degli insediamenti in Cisgiordania e Gaza da quello sul metodo dell'annuncio unilaterale. «Ci opponiamo a ogni passo unilaterale che blocchi la strada verso il negoziato sotto l'egida della Road Map, perché questo è l'unico piano che sosteniamo», dichiara il portavoce della presidenza, Scott McClellan, sottolineando come «gli Stati Uniti ritengono che un accordo debba essere negoziato e non imposto da alcuna delle parti in causa».
Quali che siano le disponibilità e le flessibilità devono essere dunque gestite nel quadro della trattativa, non al di fuori. Di qui l'appello ad Ariel Sharon e al premier palestinese Abu Ala affinché inizino a negoziare in tempi stretti per riprendere il cammino iniziato al vertice di Aqaba, quando alla guida dei palestinesi c'era Abu Mazen. «I due primi ministri devono incontrarsi faccia a faccia molto presto e senza porre precondizioni», chiede la Casa Bianca, facendo trapelare forti pressioni in atto in questo senso. Ciò che conta è non uscire dalla Road Map concordata dal Quartetto (Stati Uniti, Russia, Unione europea e Nazioni Unite) con israeliani e palestinesi. «Passi unilaterali possono aiutare ad andare avanti solo se vengono compiuti nel quadro della Road Map, oppure rischiano di avere l'effetto opposto e bloccare la Road Map se vengono compiuti ignorandola, senza tenerne conto», aggiunge il portavoce scandendo bene le parole.
Gli Stati Uniti da tempo sostengono la necessità dello smantellamento degli insediamenti in Cisgiordania e Gaza e la prospettiva che ciò inizi a verificarsi è considerata con favore negli ambienti del Dipartimento di Stato e del Consiglio per la sicurezza nazionale, ma l'ipotesi che ciò avvenga al di fuori del tracciato della Road Map non raccoglie il consenso dell'amministrazione Bush. Israele non può arrivare alla pace da sola, deve farlo assieme ai palestinesi, ai quali viene ribadita la richiesta di abbandonare la violenza e il terrorismo. «Negli alti livelli del governo si ritiene che la strategia di un'azione unilaterale per imporre confini ai palestinesi sia destinata a creare nuovi punti di confronto e attrito», spiega Dennis Ross, ex inviato dell'amministrazione Clinton in Medio Oriente e oggi direttore del «Washington Institute». Ai passi unilaterali israeliani ne potrebbero infatti seguire altri palestinesi, portando le due parti ad una nuova crisi ed eliminando il ruolo di mediazione e garanzia degli Stati Uniti.
Gerusalemme era al corrente del giudizio critico degli americani sul passo che Sharon si apprestava a compiere. Prima dell'annuncio, infatti, era stato il portavoce del Dipartimento di Stato, Richard Boucher, a sottolineare con sufficiente chiarezza: «Noi consideriamo sicuramente positivo ogni passo che riduca l'attività degli insediamenti, ma tali passi in se stessi non risolvono il problema, né tantomeno alcuna serie di passi unilaterali, neppure se positivi, possono portare alla soluzione di un problema che deve essere negoziato fra entrambe le parti». Nel tentativo di prevenire le critiche della Casa Bianca Sharon ha fatto a più riprese riferimento alla Road Map nel suo discorso, ma ciò non è bastato a dissuadere i timori. Il presidente americano, George Bush, aveva sottolineato l'irrinunciabilità del tracciato della Road Map in occasione della recente visita al Dipartimento di Stato di Yossi Beilin e Abdel Rabbo - promotori dell'iniziativa di pace di Ginevra - precisando che «ogni sviluppo positivo può avvenire solo partendo dalla fine degli atti terroristici».

Sharon ai palestinesi: Pace o agirò da solo, di Davide Frattini

GERUSALEMME — Non ha tirato fuori un coniglio dal cappello, ma ha regalato qualche sorpresa a tutti quelli che stavano aspettando da settimane il suo discorso. Ariel Sharon è salito sul palco della conferenza di Herzliya, a nord di Tel Aviv, in una piccola sala affollatissima. E da lì ha delineato la strategia del governo israeliano per i prossimi mesi. Le prime frasi per tranquillizzare gli americani: « La road map è il miglior percorso per arrivare alla pace. E’ un piano chiaro e logico, l’unico accettato da tutt’e due le parti e dal resto del mondo » . Poi le perplessità e gli annunci: « Se entro qualche mese l’Autorità palestinese non avrà rispettato l’impegno a smantellare le organizzazioni terroristiche, allora metteremo in atto misure unilaterali di sicurezza per arrivare a una separazione.
Da questo nostro piano i palestinesi otterranno meno di quello che potrebbero conseguire con negoziati diretti. Siamo ancora interessati a condurre trattative, ma non intendiamo lasciare il Paese in loro ostagg i o . Non l i aspetteremo per sempre » .
Anche senza indicare scadenze precise ( « tre mesi » secondo Tommy Lapid ministro della Giustizia), Sharon ha voluto dare un ultimatum al governo di Abu Ala e a chi tra gli israeliani non è pronto a seguire la via delle decisioni unilaterali. Come quelle che possono risultare più dolorose per la sua coalizione di centrodestra: trasferire alcu ne delle colonie costruite in Cisgiordania e a Gaza e smantellare quelle illegali.
« Vogliamo ridurre il più possibile il numero di israeliani che vivono al cuore della popolazione palestinese. Accelereremo la costruzione della barriera e riposizioneremo i nostri militari lungo linee di difesa, che non definiranno i nostri confini permanenti, studiate dall’esercito per creare il massimo della sicurezza con il minimo degli attriti causati dalla vicinanza. Ma dovremo anche compiere la difficilissima scelta di spostare alcuni insediamenti » .
Per preparare il discorso, che la Casa Bianca ha potuto leggere in anticipo, Sharon aveva cancellato tutti gli impegni della giornata. Ore passate a limare e scegliere i termini: « evacuazione » da usare solo per gli insediamenti illegali, « trasferimento » per le altre colonie in Cisgiordania e a Gaza. Non è bastato.
Anche se il premier non ha fatto i nomi dei primi insediamenti sulla lista, da giorni i coloni sono sulle barricate, politiche e di pietra. Mentre il primo ministro parlava, le 43 famiglie che vivono a Migron, a nord di G e r u s a - lemme, si preparavano alla battaglia per difendere tende e caravan da un possibile smantellamento. « Siamo un caso simbolo — ha detto Avishai Ivri, 25 anni, portavoce della comunità — Qui non si tratta di una collina isolata in Cisgiordania. Se crolliamo noi, sarà la fine di Israele » .
La nuova strategia del primo ministro ha creato agitazione anche nel suo Likud e aperto in anticipo la corsa alla leadership.
Prima di Sharon, alla conferenza di Herzliya erano passati tutti i possibili candidati. Ehud Olmert, vicepremier e ministro del Commercio e dell’Industria, che ha scommesso sul sostegno all’idea del ritiro unilaterale e si è così posizionato alla sinistra del partito. Silvan Shalom, ministro degli Esteri, che ha ripetuto di essere contrario a qualsiasi mossa « che rappresenti un premio per il terrorismo e riduca le prospettive per un futuro negoziato » . Benyamin Netanyahu, ministro delle Finanze e principale avversario di Sharon nella coalizione, che in questa fase ha scelto di attaccare Olmert non potendosi ancora permettere di fronteggiare la popolarità del premier: « Ogni iniziativa deve essere controbilanciata. Ogni concessione di Israele deve avvenire in cambio di qualcosa » . La parola « unilaterale » sembra non piacere a nessuno. Non ai palestinesi ( « non posso accettare che Sharon minacci azioni unilaterali, mentre noi siamo determinati a raggiungere un accordo permanente che metta fine al conflitto.
I negoziati potrebbero ricominciare prima di quanto si pensi » , ha commentato il primo ministro Abu Ala).
Non agli estremisti ( « Israele sta solo chiedendo ai palestinesi di alzare bandiera bianca » , ha attaccato lo sceicco Yassin, leader spirituale di Hamas). Non agli americani, preoccupati che l’iniziativa di Sharon possa minare la credibilità della « road map » , il processo a tappe che ha l’obiettivo di portare alla fine delle violenze dei gruppi terroristici e alla nascita dello Stato palestinese entro il 2005: « Ogni accordo — ha ribadito la Casa Bianca dopo il discorso di Sharon — deve essere negoziato e noi ci opporremo a qualsiasi soluzione che venga imposta da una sola parte » .
« Ma l’ipotesi di scelte unilaterali — commenta Yossi Klein Halevi del Centro di ricerca Shalem di Gerusalemme — è appoggiata dal Paese. Secondo un sondaggio il 65% degli israeliani e il 51% di chi ha votato Likud approva queste mosse. E’ un momento storico. Gli elettori che stanno al centro hanno ormai accettato e metabolizzato le posizioni della sinistra ( l’occupazione è dannosa), ma anche gli argomenti della destra: accordi come quello di Ginevra sono solo fantasie perché non esiste una vera leadership palestinese con l a quale trattare.
A questo punto il nostro gov e r n o p u ò prendere delle decisioni da solo » . E aggiunge: « Il termine ' unilaterale' sta facendo arrabbiare tutti perché ritirarsi dai Territori significa mettere per la prima volta i problemi nelle mani dei palestinesi e della comunità internazionale. Come dire: adesso fate pure voi » .


Sharon: ultimatum ai palestinesi, di Daniele Mastrogiacomo

GERSUALEMME - Il bastone e la carota. Il pugno di ferro nel classico guanto di velluto. L´atteso discorso di Ariel Sharon non solo soddisfa la carica di aspettative della vigilia, ma va oltre e riesce a scontentare tutti. Chiudendo il convegno sulla sicurezza interna a Herzliya, vicino a Tel Aviv, il premier ha lanciato un ultimatum ai palestinesi minacciando di imporre un piano di separazione nel giro di «qualche mese». Quel piano di «iniziative unilaterali» i cui contenuti erano stati rilevati, in modo sommario, dal vice primo ministro Ehud Olmert. Sharon spiega di credere ancora nella «Road map», si dice convinto che il progetto elaborato dall´Onu, dagli Usa, dall´Europa e dalla Russia sia e resti il migliore mai concepito finora. Ma spiega anche che Israele non può «attendere all´infinito» che i «palestinesi facciano la loro parte». Ha fretta. Sa di non poter perdere altro tempo, che gli insediamenti nascono e crescono spesso spontaneamente, che lo stallo dei negoziati rischia solo di alimentare nuove tensioni e che le prospettive di una ripresa del conflitto, con tutto quello che comporta, produrrebbe la paralisi di ogni ipotetico negoziato.
Così Sharon forza la mano e annuncia ciò che sta già mettendo in pratica. Ma lo fa alternando duttilità a fermezza. Un modo di indorare una pillola amarissima. «Con il terrorismo non ci sarà mai pace», spiega dalla tribuna, «una pace che vogliamo con i palestinesi per consentire anche a loro di vivere in condizioni migliori». Aggiunge di essere disposto a dei sacrifici pur di alleviare le loro sofferenze. Ma poi, quando si tratta di lanciare il suo affondo, la voce si fa più dura e decisa. «Se entro pochi mesi l´Anp non farà la sua parte, noi metteremo in pratica il piano di disimpegno unilaterale». Sharon calibra bene le parole. Usa la parola «evacuazione» solo per indicare gli avamposti, neanche gli insediamenti illegali che dovranno essere smantellati. Ricorre al termine «ricollocare», quando spiega che gli stessi saranno realizzati in altre aree già individuate. Un´accortezza di facciata. Perché nella sostanza, il capo del Likud lancia l´affondo svelando le sue intenzioni. Il Muro farà la sua parte. Dividerà, come previsto dallo stesso piano alternativo, Israele dalla Cisgiordania, seguendo una linea che si discosta, a volte in modo vistoso, dai confini fissati nel 1967. Ne sono stati realizzati già 150 chilometri. «La barriera», aggiunge il premier, «non può essere una pregiudiziale e i confini tra Israele e i Territori rispondono alle esigenze di sicurezza dello Stato ebraico». «Certo - precisa - evacueremo gli insediamenti illegali, quelli comunque non previsti da qualsiasi tipo di accordo. Non abbiamo interesse a mantenerli e a difenderli. Il nostro interesse è di avere uno Stato palestinese democratico con contiguità territoriale. Il Muro, nell´attesa, avrà funzioni difensive e non certo un valore politico. Accelereremo la sua costruzione ed entro due anni sarà ultimato. Il nostro scopo è rispettare i termini della Road map che prevede appunto la creazione di un vero e proprio Stato palestinese per il 2005. Tutto questo consentirà all´esercito israeliano di eliminare i posti di blocco e di alleggerire le condizioni di vita dei palestinesi».
Le reazioni al piano di Sharon sono di gelo e stizzite. L´Anp non ha atteso neanche la fine per bocciare in tronco il piano unilaterale di disimpegno. «E´ inapplicabile». Il premier Abu Ala è più diretto: «Sono deluso dalla minacce di Sharon». Hamas e la Jihad replicano con freddezza: «Il piano è una ricetta per una maggiore violenza». Shimon Peres incalza. «Sono profondamente deluso. Sharon avrebbe dovuto prendere delle decisioni. Ha invece rinviato il giorno del giudizio. Stiamo entrando in una fase difficile e non abbiamo molto tempo davanti a noi». I coloni sono furibondi. Bensi Lieberman, presidente del Consiglio che li raggruppa, si dice pronto ad usare ogni mezzo «per impedire che queste misure siano messe in atto». Il premier non lo ha detto. Ma si sa che gli avamposti da evacuare sono tre.
Gli Stati Uniti trattengono a stento il loro disappunto. «Riteniamo», sostiene il portavoce della Casa Bianca Scott McClellan, «che un accordo deve essere negoziato e ci opporremo ad ogni sforzo israeliano per imporlo. Le misure unilaterali possono aiutare la Road map ad andare avanti o possono bloccarla. Dipende da quali misure».