Un Comune che non fa il suo dovere
non è un Comune serio
Testata:
Data: 11/12/2003
Pagina: 1
Autore: Maurizio Pagliasotti - Maria Bottiglieri
Titolo: Carri armati e pietre
Questo testo è uscito sul sito web del Comune di Torino sezione giovani. Ci sembra un esempio macroscopico di propaganda. E' compito di un comune fare propaganda? Invitiamo i lettori di IC a scrivere al Comune di Torino per esprimere la loro protesta.

Il riferimento è su questa pagina: http://www.comune.torino.it/infogio/rivista/archivio/06_03/a0603p24.htm

articoli novembre/dicembre 2003 reportage

CARRI ARMATI E PIETRE
Palestina. Il 30 settembre del 2000 scoppiava la seconda Intifada, ovvero la guerra delle pietre. Tre anni di invasioni, repressione, uomini bomba, demolizioni di case, chiusure di strade e tremila morti tra palestinesi ed israeliani.

di Maurizio Pagliassotti

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Il 29 settembre del 2000, Ariel Sharon, attuale primo ministro israeliano, irrompeva sulla Spianata delle Moschee protetto da numerose guardie armate, luogo dal quale il Profeta Maometto ascese al Paradiso e per questa ragione terzo luogo per importanza dell'Islam. Il significato politico del gesto di Sharon, successivo di pochi giorni alla conclusione del vertice di Camp David (luglio 2000) tra Ehud Barak, al tempo primo ministro israeliano, Yasser Arafat, presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese ed il presidente statunitense Bill Clinton, era chiaro: Gerusalemme est e quindi la città vecchia, mai sarebbe stata la capitale dello Stato Palestinese, in quanto luogo sacro anche per gli ebrei, dato che è presente il Muro del Pianto.
Il vertice di Camp David, pur essendo fallito, era stato un momento fruttuoso verso l'approdo alla pace e la dichiarazione finale parlava esplicitamente di "negoziati senza precedenti per portata e grado di dettaglio". Nelle righe si leggeva il quasi raggiunto accordo sulla spartizione di Gerusalemme come capitale di entrambi gli stati.
Il 30 settembre del 2000 scoppiava la seconda Intifada, ovvero la guerra delle pietre, denominata Al Aqsa dal nome della moschea che domina la Spianata delle Moschee. Tre anni di invasioni, repressione, uomini bomba, demolizioni di case, chiusure di strade e tremila morti tra palestinesi ed israeliani.
Dire che la seconda Intifada sia scoppiata a causa della provocatoria passeggiata di Ariel Sharon o per motivi esclusivamente religiosi è riduttivo. Le vere cause furono politico-strategiche per entrambi i fronti che aspettavano la giusta occasione per dare fuoco alle polveri e regolare i conti degli anni passati.
Il tempo della possibile pace e della convivenza dei due popoli era finito da parecchio, forse il giorno dell'assassinio del primo ministro Ytzhaik Rabin, il quattro novembre del 1995, per mano di un ebreo ultra ortodosso che vedeva negli accordi di pace di Oslo del tredici settembre 1993 firmati con Yasser Arafat un tradimento della volontà biblica ed un pericolo per lo stato di Israele.
Tali accordi, giunti dopo due anni di trattative segrete tra il ministro degli esteri israeliano Shimon Peres e Yasser Arafat prevedevano nella Dichiarazione di Principi l'autogoverno del futuro stato palestinese ma destinava ad ulteriori trattative i temi più spinosi come le colonie, la liberazione dei detenuti politici, il rientro dei profughi, la gestione delle risorse idriche ed il controllo dei confini.
Da allora la situazione su entrambi i fronti era andata deteriorandosi, a causa della continua espansione delle colonie e l'aumentare della repressione nei territori occupati mentre tra i palestinesi nascevano ed avanzavano nuove organizzazioni radicali, dotate di potenza finanziaria e militare come mai nessuna prima in Palestina: tra tutte Hamas, Jihad Islamica e Brigate Martiri di Al Aqsa.
La situazione divenne esplosiva dopo il fallimento degli accordi di Sharm al Sheik del 1999 che prevedevano il ritiro dell'esercito israeliano dalle zone A controllate dall'autorità nazionale palestinese entro il 13 settembre 2000. Ritiro mai avvenuto e relativa morte degli accordi di Oslo.
Da quel momento il conflitto armato necessitava solamente della giusta scintilla per esplodere.

La situazione Palestinese
I territori occupati, ovvero la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, che Israele occupa militarmente ed illegalmente dal 1967, sono diventati luogo di repressione dura che si abbatte sulla popolazione, rendendo la vita semplicemente invivibile.
Nonostante le due risoluzioni approvate dall'ONU nel 1967 e nel 1973 - rimaste ignorate - che imponevano ad Israele, seppur in maniera molto nebulosa, il ritiro delle truppe dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza, i palestinesi vivono circondati e assediati dalle truppe israeliane che ne controllano la vita in ogni momento.
L'impossibilità di avere una dignitosa libertà di movimento, data dai continui check point che sono piazzati lungo le strade o all'interno delle città e che ovviamente limitano gli spostamenti delle persone, rappresenta una fortissima fonte di frustrazione per i palestinesi ed esacerba gli animi. Ai check point si sosta per ore in attesa venga il proprio turno di spiegare il perché dello spostamento, anche nel caso lo si debba effettuare tutti i giorni per motivi di lavoro.
Questo quando va bene, perché i posti di blocco, completamente militarizzati con armi pesanti, decine di soldati e talvolta anche carri armati, possono risultare aperti al mattino e chiusi alla sera; quindi si rimane fuori o dentro a seconda di dove ci si trovi, oppure possono essere semplicemente chiusi e allora non si va da nessuna parte. Non si va al lavoro, non si va all'ospedale, non si va a salutare i parenti, non si va a fare la spesa, non si va a scuola.
L'università di Berzeit, la più prestigiosa della Palestina forte di 5200 studenti che arrivano da tutti i territori occupati, è situata a nord di Ramallah ed è un esempio eclatante di cosa significhi un check point prima di raggiungere un luogo pubblico. Nel caso migliore, aperto al mattino ed alla sera, gli studenti arrivano con mezzi pubblici al primo check point di Kalandia, lo superano, prendono un altro mezzo pubblico che gli fa attraversare la città e li porta al secondo. Qui si sottopongono nuovamente ad un controllo e possono finalmente accedere all'università. Per percorrere questo tragitto, al massimo sei chilometri, è necessaria almeno un'ora.
Ultimamente l'esercito ha abbandonato il secondo punto di controllo ma ha distrutto la parte centrale del percorso, circa cinquecento metri, demolendo l'asfalto e piazzando dei grossi blocchi di cemento per impedire il transito dei veicoli. Ora si viene controllati solo una volta ma si deve percorrere mezzo chilometro a piedi e quindi prendere un altro taxi che porta all'università.
Può anche capitare che il check point sia chiuso la sera e allora studenti e docenti devono bivaccare dentro l'università.
Gli israeliani giustificano i check point nei territori occupati con la necessità di prevenire l'infiltrazione di terroristi che attaccano i civili nelle grandi città come Gerusalemme e Tel Aviv. Sostengono inoltre che la valutazione del grado di apertura o chiusura è data dalla situazione contingente; in un periodo di relativa calma i controlli sono abbastanza veloci mentre durante gli scontri all'interno dei territori, oppure dopo un attentato, possono imporre anche lunghi periodi di chiusura totale.
Altro tormento che affligge i palestinesi sono i coprifuoco, ovvero periodi durante i quali è vietato uscire di casa. Ultimamente molte città sono sotto coprifuoco, Jenin ad esempio lo è quasi tutti i giorni. Il coprifuoco impedisce tutto, anche di buttare l'immondizia nel cassonetto sotto casa. Non potendo uscire di casa, magari di notte oppure per giorni, le difficoltà nella vita quotidiana diventano estremamente provanti. Vietato andare a fare la spesa, andare al lavoro, all'ospedale, a scuola.
Racconta Isabella, volontaria di Emergency all'ospedale di Jenin, che passa intere giornate senza fare nulla perché il coprifuoco impedisce a tutti di poter raggiungere l'ospedale. Finito il periodo di chiusura, la gente si ammassa isterica perché vuole recuperare il tempo perso, rendendo il lavoro impossibile. Capita che il coprifuoco venga revocato solo per alcune ore e allora i malati si trovano di fronte alla scelta se fare la spesa oppure andare in ospedale, soprattutto le donne che devono accompagnare i bambini.
Durante tale periodo carri armati e jeep pattugliano le vie deserte della città e solo pochissime persone possono girare. Talvolta si sentono partire sventagliate di mitra, indirizzate in aria, che servono a ricordare alle persone che è molto meglio se restano tappate in casa. Per gli israeliani il pattugliamento serve a prevenire eventuali tumulti, fomentati dalle organizzazioni radicali, che porterebbero a scontri militari molto duri e sanguinosi che coinvolgerebbero sicuramente civili.
Il coprifuoco viene imposto anche quando si deve procedere ad operazioni di arresto oppure ad esecuzioni mirate di personaggi collegati con il terrorismo. Proprio queste esecuzioni mirate, con cui l'esercito israeliano tenta di eliminare i vertici di Hamas e Jihad islamica, sono fonte di odio profondo tra i palestinesi perché durante tali operazioni molti civili rimangono uccisi o feriti. Gli attacchi infatti vengono attuati con mezzi molto potenti, jet F16 ed elicotteri d'assalto Apache, che scaricano in luoghi densamente popolati ordigni potentissimi, nel caso degli aerei bombe da almeno due tonnellate e mezzo.
Altro capitolo è la demolizione delle case dei famigliari dei palestinesi appartenenti alle organizzazioni terroristiche. Durante i tre anni dell'Intifada Al Aqsa le case demolite nei territori occupati sono state 421.
In compenso, le colonie israeliane edificate in territorio palestinese in modo abusivo ed illegale, in palese spregio del diritto internazionale, sono in continua espansione. Le colonie abitate da ebrei ortodossi sono veri fortini protetti militarmente che possono alterare il normale svolgimento della vita palestinese. Basti pensare alla colonia di Hebron, 400 persone, situata nel centro storico della città, causa di continui coprifuoco per i centomila abitanti palestinesi. I motivi possono essere i più svariati: la preghiera del sabato, i figli dei coloni che devono andare a scuola, qualche ricorrenza religiosa o un palestinese che riesce ad entrare dentro la colonia ed uccide il primo ebreo che incontra, caso, quest'ultimo, molto ricorrente.
I coloni, teoricamente illegali anche per Israele, sostengono che la Palestina non ha diritto di esistere, dato che quella è la Terra Promessa che Dio ha destinato al popolo eletto, ovvero agli ebrei.
Nonostante i buoni propositi, presenti anche nella recente road map, nessuna colonia è mai stata smantellata.
E infine, la creazione del muro di separazione che dividerà Israele dai territori occupati, isolandoli definitivamente, per prevenire l'infiltrazione di attentatori suicidi. Il muro, lungo nei progetti 430 chilometri e alto otto metri, è l'opera più contestata politicamente dai palestinesi e dall'opinione pubblica mondiale. Corre internamente ai territori occupati e quindi usurpa un ennesimo pezzo di territorio. Inoltre isola intere città che, venendosi a trovare nel settore ovest della barriera, verrebbero de facto annesse ad Israele. Altre città, come al Qalqiliya, verrebbero invece completamente isolate perché circondate dalla costruzione.
Grave anche la situazione degli agricoltori che si troverebbero in alcuni casi ad avere la fattoria nel settore est ed i campi in quello ovest, israeliano, ovviamente irraggiungibili.

La situazione israeliana
La popolazione israeliana vive in uno stato di terrore permanente a causa degli attacchi kamikaze che militanti di Hamas e Jihad islamica sferrano alla loro sicurezza quotidiana.
Prendere un autobus pubblico a Gerusalemme ovest, ovvero il settore israeliano, è un'esperienza non piacevole che dimostra la paranoia in cui sta scivolando buona parte della popolazione che vive nelle grandi città. Le fermate assomigliano a fortini militari dato che, insieme ai normali utenti che attendono l'autobus, sono presenti dai tre ai dodici soldati armati fino ai denti. Una volta saliti a bordo, il minimo gesto sospetto provoca la reazione delle guardie armate che fermano immediatamente chiunque appaia pericoloso. Il percorso è vissuto nell'attesa spasmodica della fermata d'arrivo; il semaforo rosso o una qualsiasi indecisione del conducente è mal sopportata.
Non solo gli autobus ma tutti i luoghi pubblici sono posti da cui è meglio stare lontani. Discoteche, pub, supermercati, manifestazioni popolari, luoghi di divertimento collettivo, sono "obiettivi militari", come da definizione delle organizzazioni terroristiche.
Nonostante la minaccia sempre presente, la vita sembra continuare normalmente, forse perché gli israeliani si fidano della militarizzazione generale che c'è in giro. E' impressionante constatare quante armi si possono vedere durante una normale passeggiata nelle vie commerciali di Gerusalemme ovest. Ogni locale ha le sue guardie armate private che controllano chiunque entri, ed è facile incontrare normali cittadini cui spunta la pistola dalla cintura dei pantaloni.
Nonostante l'alto prezzo di vite pagato durante la seconda Intifada, gli israeliani appoggiano in massa il governo presieduto da Ariel Sharon. Sono favorevoli ad un'ulteriore stretta nella gestione dei territori occupati, alla costruzione del muro di separazione ed alla politica di "eliminazioni mirate" che tante polemiche ha provocato anche all'interno della società israeliana. Si sentono sotto assedio e cercano la sicurezza attraverso l'utilizzo della forza militare che però non sembra poter avere ragione delle guerriglie palestinesi.
Il lato migliore che la società israeliana esprime, e sicuramente quello che più fra tutti i soggetti di questa guerra sta lavorando per il raggiungimento di una pace duratura e dignitosa per tutti, sono i centri studi per il rispetto dei diritti umani.
Tra questi spicca B'Tselem traducibile in "a sua immagine" con riferimento all'uguaglianza di tutti gli uomini di fronte a Dio. Questo centro studi è composto da avvocati, giornalisti, matematici, docenti universitari, studenti, volontari, membri del parlamento israeliano. Rifiutano la denominazione di pacifisti perché fuorviante e recante un significato politico che non vogliono assumere. Non portano nessuna rivendicazione e richiesta politica ma affrontano il problema da un punto di vista scientifico e legale: i dati con le relative violazioni dei diritti umani riguardanti i territori occupati che pubblicano sono agghiaccianti ma mai nessuno è riuscito a smentirli.
Visti con sospetto dall'opinione pubblica israeliana che li accusa di collaborazionismo con il nemico, portano avanti un lavoro indispensabile a chiunque voglia capire la reale gravità della situazione. I loro numeri non fanno che confermare quanto si intuisce facilmente girando per le strade di Tel Aviv e di Gerusalemme ovest. La politica repressiva dell'attuale governo sta demolendo la struttura sociale ed economica di Israele. La prima a causa di una paura crescente, la seconda per la forte disoccupazione. I barboni pullulano per le strade delle città israeliane e lo stato sociale è continuamente tagliato perché i fondi mancano, oppure sono indirizzati per il finanziamento delle spese militari, elevatissime.

Prospettive future
Il conflitto israelo-palestinese, anche se questo termine è fuorviante, è destinato a non avere termine nel breve periodo e forse nemmeno nel lungo. Troppe importanti questioni sono rimaste sul tavolo irrisolte per molti anni ed ora, incancrenitesi, appaiono senza soluzione.
Inoltre l'odio è troppo impregnato in entrambi i tessuti sociali per permettere anche solo la pacifica discussione. La Road Map, ricalcante gli accordi di Oslo, è partita azzoppata perché non affrontava in maniera decisiva i problemi cruciali ma puntava tutto su una tregua fine a se stessa.
Indubbiamente i due popoli sono indissolubili. Che piaccia o meno ad entrambe le fazioni, la loro vita rimarrà intrecciata per sempre. Come nel passato è sempre stata. Osservando le due società si possono trovare i segni di questa vicinanza: nel cibo, nella lingua, nella religione, nei caratteri somatici ed in molto altro ancora.
In questo momento l'unica cosa auspicabile è una maggiore attenzione dei paesi sviluppati verso questa regione. Attenzione che non significa tifo per l'uno o per l'altro, ma volontà di trovare una soluzione decorosa.
La via ovviamente rimane una sola, quella di due Stati per due popoli con pari dignità. Che piaccia o meno, da questa stretta via bisogna passare. Altrimenti sarà guerra perpetua.


-Torino gemellata con Gaza e Haifa-

La Città di Torino è da anni impegnata a sostenere il difficile percorso di pace in Medio Oriente, attraverso attività di sensibilizzazione, di scambi, e di iniziative di cooperazione internazionale. Questa volontà è stata espressa dal Consiglio Comunale nel 1996-97 attraverso l'approvazione dei gemellaggi con Gaza ed Haifa. Nell'ambito del primo gemellaggio la Città opera in sinergia con le altre città europee del gruppo di lavoro denominato "EuroGaza". In questo quadro, quest'anno, tramite la struttura del Settore Coop. Int. e Pace, è stato avviato il progetto di realizzazione di un internet center nella città di Gaza (Palestina) che sarà installato nella biblioteca municipale donata dalla città di Dunkerque. Vista l'impossibilità pratica per i giovani palestinesi di uscire da Gaza per attività di formazione o scambi culturali l'uso di internet diviene prioritario. Il "Centro Internet", che nel tempo vuole diventare un vero e proprio "Centro Informagiovani", potrà contribuire a rafforzare le relazioni tra i giovani delle Città gemellate di Torino e Gaza, affiancandosi alle attività già in corso (promosse quest'anno dal CoCoPa) e previste di scambi scolastici e giovanili. I rapporti con la città di Haifa sono stati ripresi quest'anno nell'ambito del progetto EPIC promosso dall'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) che ha l'obiettivo di affrontare i bisogni sociali e sanitari della popolazione palestinese ed israeliana, ma anche di contribuire alla promozione di un dialogo e di una cultura di pace. Il progetto si propone di avviare o rafforzare le partnership tra 8 Città Europee, 8 palestinesi ed 8 israeliane. Il Comune di Torino, nel rispetto dell'attuale situazione socio-politica delle due Città, ha avviato uno studio di fattibilità di un intervento socio-sanitario orientato alle politiche di genere e di pari opportunità nelle due città partner di Gaza ed Haifa.

Maria Bottiglieri
rivista.informagiovani@comune.torino.it