A volte ritornano
ex maoisti e ulivi in una spremuta poco digeribile
Testata: Avvenire
Data: 11/12/2003
Pagina: 27
Autore: Daniele Zappalà - Gino Giromoloni
Titolo: Debray: l'Onu? Portiamola a Gerusalemme - E in Terrasanta non ci sono più ulivi
A pag 27 Avvenire pubblica un'intervista a Regìs Debray che propone di spostare la sede dell'Onu a Geusalemme. Pensavamo che personaggi come lui fossero ormai in villeggiatura permanente in qualche località della Costa Azzurra a godersi la propria pensione in tranquillità. Evidentemente non è così e Debray, da ex castrista, non perde occasione per una delle sue sparate. La sua tesi è accolta sulle pagine di Avvenire probabilmente perchè ricalca la sempreverde proposta della Chiesa di internazionalizzare Gerusalemme.
Ecco l'articolo: "Debray: l'Onu? Portiamola a Gerusalemme"

«Quale miglior luogo di Gerusalemme…». Congedandosi, Règis Debray rilancia ancora una volta l’idea, ma con un sussurro che smorza ogni carica provocatoria. Non vuole sembrare un "intellettuale irresponsabile" quando immagina la "città tre volte santa" come possibile nuova sede per quelle Nazioni Unite oggi "esangui". Secondo Debray, una riforma radicale dell’Onu è per il momento difficilmente proponibile a causa dell’immobilismo delle potenze con diritto di veto. Per rinvigorire l’istituzione, conviene allora puntare su alcune "misure pragmatiche": un mandato allungato ma non rinnovabile per il segretario generale, così da evitare gli elettroralismi nefasti del passato; un allargamento "discreto" del consiglio di sicurezza fino a 20 membri (oggi sono 15), introducendo poltrone semi-permanenti per rispondere alle aspirazioni di nuove potenze regionali; una partecipazione più equilibrata dei Paesi al bilancio dell’Onu, sgonfiando così il peso finanziario degli Stati Uniti. Vi è poi una quarta proposta, meno pragmatica ma anche più originale delle altre, che l’autore sviluppa con particolare fervore: occorrerebbe all’Onu un "cambio d’indirizzo", non politico ma geografico. Secondo Debray, ad esempio, Ottawa e Rio de Janeiro sarebbero sedi "neutrali". Ma, e sta qui la vera provocazione, la sede "ideale", la più ambiziosa, sarebbe proprio «Gerusalemme, a fianco dei Luoghi santi».
Scrittore e filosofo illustre, ma anche raffinato massmediologo –studioso dei processi di trasmissione del sapere, soprattutto quello religioso-, Debray è un savant che crede nel ruolo sociale delle idee. «Non si andrà verso un altro mondo senza andare verso un’altra Onu», sostiene. Ma intanto il conflitto in Iraq rischia, per Debray, di recare con sé il pericoloso prototipo di «una sicurezza collettiva di terza generazione», dopo quella "sdentata" della Società delle Nazioni e quella idealista dell’Onu.

Professor Debray, cosa la spinge a rifletter su cambiamenti sistemici internazionali proprio nell’attuale fase?
«Il paradosso è che sono state sempre le guerre ad aver creato gli organi di pace. Anche se la guerra irachena è regionale, ha comunque attestato il carattere inoperante delle Nazioni Unite, dato che si è prodotto un ricorso alla forza non autorizzato. Ma non tutti i mali forse vengono per nuocere. La divisione dell’Europa, l’impasse politico-militare in Iraq, il movimento d’opinione a livello mondiale hanno quantomeno suscitato un malessere. Tanto più che, e si tratta per me di un punto cruciale, tutti sanno che l’Onu dovrà tornare in Iraq a prendere il testimone. L’interrogativo che oggi si pone è se l’Onu sia credibile».

Lei critica i mali della sede newyorchese. Ma questa, storicamente, ha rappresentato epr l’Onu più un trampolino che un freno.
«Certo, entrambe le cose. La realtà è sempre ambivalente. Vorrei comunque sottolineare un punto che i giuristi conoscono. La Carta dell’Onu non specifica una città, per cui un cambio di sede può giungere con una semplice risoluzione dell’Assemblea generale. Evidentemente, l’idea di un trasferimento appare oggi inverosimile, forse persino barocca e utopica. Ma, dopo tutto, chi avrebbe detto nel XIX secolo che gli ebrei avrebbero fondato uno Stato in Palestina? La storia è piena di utopie concrete. Inoltre, l’atteggiamento degli americani verso l’Onu è ambivalente ed è lo stesso Bush che ha sostenuto la necessità di una riforma. Una tesi che, per una volta, sembra realista».

Perché le relazioni fra Stati Uniti e Onu le sembrano così ambigue?
«Credo che gli Stati Uniti controllino di fatto l’amministrazione dell’Onu. Non mi riferisco, ovviamente, al Consiglio di sicurezza. Finanziano un quarto del bilancio e soprattutto, per così dire, l’Onu è di casa, con tutti i fenomeni di osmosi, di fagocitosi, di permeabilità che i funzionari dell’organizzazione conoscono. Gli Stati Uniti stessi avrebbero interesse a una dissociazione. Perché l’indipendenza delle Nazioni Unite accrescerebbe l’efficacia di ogni intervento durante le crisi. Oggi il ruolo dell’Onu si fa sentire soprattutto attraverso le varie agenzie specializzate, ad esempio, nel settore della sanità. L’organizzazione rischia così di diventare una vasta ong. Un grande passo indietro, una decadenza rispetto all’idea originaria che prevedeva fra l’altro anche uno stato maggiore, cioè uno strumento militare mai realizzato. Una necessaria visione pacifica ma non pacifista dell’organizzazione dovrebbe recuperare quest’idea».

Gli Stati Uniti potrebbero accettare la sua proposta?
«Non lo so, ma vorrei almeno che oggi apparisse problematico ciò che invece è dato per scontato. È la prima volta che si osserva la coincidenza fra il luogo della potenza politico-militare e quello del diritto nel sistema internazionale. Prima del 1914, in Europa il dualismo era rappresentato da Berlino e L’Aja. Durante le guerre mondiali, è stata Ginevra a fare da contraltare alle capitali delle grandi potenze. E questa disgiunzione geografica e simbolica conta, persino nel mondo deterritorializzato dalle reti telematiche di oggi».

Perché pensa a Gerusalemme?
«Perché vi è una tradizione, un progetto, il cosiddetto corpus separatum, l’idea –di instaurare accanto ai Luoghi santi una sorta di internazionalizzazione. Oggi non si tratta più di questo, ma di trovare un luogo capace di responsabilizzare le Nazioni Unite. All’interno dell’Assemblea generale ci si può permettere ancora di giocare, vi sono molte risoluzioni totalmente demagogiche, formali. Perché? A New York ci si sente lontani da tutto e si finisce così col produrre molta retorica vuota».

La prossimità mediorientale potrebbe davvero rivitalizzare l’organismo?
«Si tratterebbe di una sorta di vaccinazione. Occorre in qualche modo vaccinare l’organo della pace con la guerra. Occorre stare accanto alla malattia, per combatterla».

Ma l’idea di Gerusalemme si scontra con molti problemi concreti, di sopravvivenza, per esempio.
«Non l’avrei espressa senza aver consultato prima tanti diplomatici e funzionari seri, a cui l’idea non pare assurda. Sono diversi gli argomenti avallati dai tecnici della diplomazia. Anche quello economico. Collocare 15 mila funzionari internazionali in un luogo accanto alla città creerebbe una straordinaria dinamica. Si pensi soltanto a tutto l’impiego indotto: autisti, giardinieri, cuochi. Si risolverebbe in parte il problema economico della Palestina».

E a livello politico?
«Le due parti diverrebbero in un certo senso dei "santuari". E si forzerebbero così le rispettive delegazioni a non dire sciocchezze. Quando si è sul terreno, non si può affermare che il sionismo è una forma di razzismo o che Arafat equivale a Hitler. Propongo, dunque, di riconsiderare anche la tradizione cattolica. Penso all’idea dello stato internazionale, lanciata da Paolo VI. E anche la visita di Giovanni Paolo II al Muro di Gerusalemme ha avuto un valore simbolico speciale. Fare del luogo del divorzio quello della riconciliazione è un paradosso, ma credo che la storia funzioni per paradossi».
Sempre nella stessa pagina Gino Giromoloni, con "E in Terrasanta no ci sono più ulivi", si lamenta del fatto che Israele non abbia alcun legame con gli ulivi e che li stia sradicando per far posto alla barriera difensiva; sempre secondo Giromoloni l'ulivo è una
pianta tipica dell'agricoltura locale degli antichi filistei, gli attuali palestinesi i cui ulivi sono stati recentemente distrutti.
Curioso questo far rinascere una regione dalla quale probabilmente non discende più nessuno, come è curioso pensare che lo sradicamento di qualche pianta d'ulivo possa trasformarsi in uno sport nazionale israeliano filistei e i palestinesi, se gli israeliani conducono da circa 100 anni l'opera di rinverdimento della terra d'Israele tramite il Keren Kayemet Leisrael ed è ancora vivo il sogno di Ben Gurion di vedere il deserto del Negev fare posto ad una zona rigogliosa e di sviluppo agricolo. Perchè non fanno altrettanto i palestinesi?
Avvenire in una sola pagina compie una notevole opera di disinformazione. Dando la parola a chi sostiene una tesi che al massimo può interessare oltretevere e ripetendo la storiella degli ulivi alla quale possono credere soltanto gli ecologisti nostrani, bisognosi di alimentare la loro fragile ideologia.

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