Il direttore scrive un reportage da Israele che smentisce molti preconcetti tipici dei media italiani.
Gerusalemme. Andare in Israele fa bene. Fa bene agli israeliani, innanzitutto, che ne hanno bisogno. Si può alzare la testa, di fronte al terrorismo; riempire ristoranti e bar il sabato sera, mettere i figli sullo scuola-bus, indaffararsi nella normalità di una vita a prova di bomba, come gli israeliani stanno facendo, e la considerano già una vittoria. Ma non si smette di sentirsi isolati, e un po' ghettizzati, quando il turismo dall'estero raggiunge in un anno il numero di presenze che prima della seconda intifada faceva in un mese. La ragazza del kibbutz Kfar Giladi, proprio al confine con il Libano, che ti sorride grata per averla raggiunta lassù, in cima a Eretz Israel; o il custode greco ortodosso della cappella del Santo Sepolcro, che prima di lasciarti entrare a toccare la tomba di Gesù ti snocciola prosaicamente e con orgoglio le formazioni dell'Inter e della Juve campioni d'Europa, più una dotta dissertazione sulla qualità tecnica della scuola di Coverciano, sono piccoli premi, per così dire «umanitari», che non si dimenticano.
Ma andare in Israele fa bene anche a chi ci va. I bianchi e i neri con cui leggiamo e guardiamo l'intrico mediorientale diventano grigi. La verità cambia lato a ogni cambio di prospettiva. La barriera (come la chiamano là), o muro (come lo chiamano qua), è diversa se la si guarda dal versante palestinese, unica immagine fotografica fornita dalla stampa occidentale, o se la si guarda dal versante israeliano. Bene e male si mescolano, destra e sinistra giocano a scambiarsi di ruolo.
Facciamo due esempi: il «ritiro unilaterale» è una formula magica che evoca con la forza delle parole (ritiro, unilaterale) voglia di pace, irenismo, dialogo e trattativa. La «barriera» (o «muro») è una formula magica che evoca con la forza delle parole (barriera, muro) divisione, separazione, apartheid, e Berlino. Né l'una né l'altra formula sono quello che sembrano.
In Israele qualcosa si sta muovendo. Qualcosa di importante. E' come se il governo Sharon sentisse la necessità di un nuovo inizio. Crede di aver trovato in se stesso la forza di ridurre manu militari la minaccia dei kamikaze, e questo lo rafforza. Ma sente anche di non potersi accontentare di una vittoria militare, perché questo lo indebolisce, dentro e fuori dai confini patrii. I likudisti (abbiamo incontrato Gideon Saar, giovane in ascesa, il Letta - Gianni o Enrico, fate voi - del premier) ripetono il mantra: ci avevate detto che la sicurezza di Israele si raggiungeva attraverso la pace con Arafat, ci abbiamo provato e non ha funzionato, oggi pensiamo prima alla sicurezza e poi alla pace. Ma c'è politico che possa credere fino in fondo a questo assioma? C'è qualcuno che pensa davvero di poter garantire la sicurezza di Israele senza la pace, o una tregua, o un cessate-il-fuoco, o una qualsiasi forma di intesa col nemico?
Da questo dilemma viene fuori la grande novità di queste ore: l'uscita di Ehud Olmert, che oggi è il vice primo ministro, che è stato alla destra nel Likud da sindaco di Gerusalemme e poi alla sinistra, sorprendendo sempre tutti per la sua alta qualità acrobatica. Nel fine settimana Olmert ha detto che Israele deve considerare il ritiro unilaterale «da gran parte della Cisgiordania e della striscia di Gaza». Che cosa lascerebbe ai palestinesi non si sa. Si sa però che questo è il punto, si sa che la ultra-destra si è infuriata, e si sa anche che Olmert non sta straparlando. L'ex ambasciatore Avi Pazner ci ha confermato che Olmert dissoda la terra che Sharon sta per seminare. Tempo una, due settimane, e il primo ministro israeliano proporrà un nuovo inizio: con o senza una nuova proposta negoziale, nella formula sarà compresa una qualche forma di ritiro unilaterale da una parte consistente dei territori occupati, e il conseguente smantellamento di alcuni insediamenti dei coloni israeliani.
Sembra un programma da sogno. Ma attenzione: così facendo, il governo israeliano dichiarerà di fatto morta la «road map», e la mappa se la farà da solo. L'azione unilaterale è la conseguenza di una perdita di fiducia nella credibilità dell'interlocutore. Vuol dire creare un fatto compiuto in una situazione in cui i fatti compiuti tendono a diventare irreversibili. Il fatto è che Israele non può aspettare. Lo stallo attuale, anche a terrorismo ridotto, contiene il pericolo che Olmert ha indicato con chiarezza: la bomba demografica al posto della bomba umana. Già adesso, con i territori occupati, Israele comprende una popolazione in cui gli ebrei sono appena il 55% della popolazione, e questo nonostante che negli ultimi dieci anni abbia accolto un'impressionante ondata di emigrati russi (più di un milione), che difficilmente si ripeterà nel futuro prevedibile. Senza i territori, gli ebrei sono l'80% della popolazione. Questa è considerata da Olmert, ma anche dalla sinistra sionista, la proporzione minima necessaria a mantenere l'ebraicità e la democraticità, allo stesso tempo, dello stato di Israele. Se Israele lascia le cose come stanno, la popolazione ebrea scenderà - lo dice Sergio Della Pergola, demografo dell'università di Gerusalemme - al 51% nel 2010, al 47% nel 2020, al 37% del 2050; ritornando così, a cent'anni dalla fondazione dello stato, alla stessa percentuale di quando è nato.
Ecco uno dei paradossi di Israele: noi tendiamo a vederla espansionista, annessionista, avida di territori: e invece per la sua sopravvivenza ha bisogno di restringersi, rimpicciolirsi, tornare all'ambizione originaria (e al compromesso di Ben Gurion) che la guerra, portatale da altri, ha corrotto e trasfigurato. L'altro paradosso è la barriera.
Abbiamo deciso di chiamarla barriera, e non muro, dopo aver visto il muro. Il cemento si alza infatti solo in due tratti di quattro chilometri l'uno (al momento, anche se il piano prevede un chilometraggio ben maggiore). Entrambi quei tratti costeggiano il pendio in fondo al quale, come un fiume nel suo letto, corre l'autostrada A6 verso Gerusalemme. Non sembra limitare nessuna libertà fondamentale dell'individuo, palestinese e non, se non la libertà di sparare sulle auto che vi sfrecciano sotto, circostanza questa non del tutto sgradita a chi si sia trovato - come noi - in una di quelle auto. Il muro, allo stato, è poco più di quei muri acustici che costeggiano tanti tratti delle autostrade di casa nostra. Poi però c'è la barriera. Il suo merito è di essere un serio intoppo nelle passeggiate dei kamikaze verso le città israeliane della costa. Già più di un attentato è stato sventato, o perché l'attentatore non è passato al check point o perché per evitarlo ha dovuto allungare il percorso concedendo una mezz'ora di tempo preziosa ai militari sempre a caccia. L'ultima cintura esplosiva è stata disinnescata ieri, ma gli attentati evitati non fanno notizia, solo le bombe fanno rumore. Badate bene: questo lo dice anche la sinistra israeliana, come ci ha confermato Colette Avital, pugnace deputata laburista alla Knesset, e lo pensa la grande maggioranza degli israeliani. Un'Europa che pattuglia con la flotta militare le sue coste per fermare un molto meno pericoloso reato di immigrazione clandestina, non dovrebbe scandalizzarsi troppo se i 140 chilometri di barriera già costruiti sono riusciti a fermare anche un solo attentatore, hanno salvato la vita anche di un solo bambino, impedendo che si aggiungesse alla lista delle «850 buone ragioni» che gli israeliani elencano per la barriera, con riferimento al numero delle vittime in tre anni di terrorismo suicida.
Il però, però c'è; è lo stesso però che mette in allarme Powell e Bush (ma nell'anno di campagna elettorale potrà Bush alzare troppo la voce?). Il però consiste nel tracciato. Più la barriera si allontanerà - già si allontana spesso - dalla «linea verde» che definisce l'Israele di prima della guerra del 1967, più si incuneerà nei territori palestinesi per andare a comprendere e a difendere insediamenti ebraici spintisi a est, più sarà vista e combattuta come un altro fatto compiuto. Dice Saar, parlando del ritiro unilaterale: «In questa fase bisogna essere molto cauti nelle concessioni, perché possono diventare irreversibili». Ecco, Abu Ala ha il diritto di pensarla nello stesso modo a proposito della barriera. Sharon è chiaramente pronto ad abbandonare i più insensati geograficamente e i più fanatici ideologicamente degli insediamenti, e per far questo già dovrà sfidare l'ira dei coloni e di tutti coloro che pensano di trovare nella Bibbia la mappa dell'Israele del Terzo Millennio. E' anche pronto - crediamo - a considerare la barriera mobile: oggi è lì, domani si può spostare. Ma la tentazione di ritirare unilateralmente le truppe dietro quella barriera, facendola così diventare un confine definitivo, per quanto generoso comunque non trattato con la controparte, sarà forte. Così la combinazione di un presunto bene (il ritiro) con un presunto male (la barriera) può dare varianti infinite di bene e di male. Dipenderà anche dalla controparte: perché si può fare la pace se non c'è neanche un cessate-il-fuoco?
Questo è un punto decisivo. Abbiamo fin qui raccontato come discute una democrazia, un popolo, una società aperta, dei modi migliori per raggiungere la sicurezza e la pace. Il dibattito è vivace, in tv ci vanno i pazzi e i savi, in parlamento ci sono i giusti e gli ingiusti, i sinistri e i destri, gli statisti e i politicanti. Come in ogni democrazia. Ma mentre Israele discute di questo, le fazioni terroristiche riunite al Cairo hanno discusso se smettere di uccidere solo i civili ebrei, o anche i soldati ebrei; se smettere solo in Israele o anche nei territori. E hanno finito con il non accordarsi, col dire no ad Abu Ala, che come il suo sfortunato predecessore Abu Mazen spera di fermare la mano degli assassini «by consensus» e non con la forza che Arafat non gli dà, come non l'aveva data ad Abu Mazen. Il presidente della Repubblica d'Israele, Moshe Katzav, ci ha detto che la barriera può aiutare Abu Ala. Altro apparente paradosso: se si riduce il terrorismo, c'è più spazio per il negoziatore onesto palestinese; e se non ci riesce lui, dice Israele, lasciate che ci proviamo noi.
Il torto e la ragione, in Terra Santa, sono difficili da assegnare anche solo guardando agli ultimi sei mesi di storia: figurarsi se uno tenta di tenere la contabilità di tremila anni. Però una cosa è chiara: torti e ragioni si possono dividere in base alla razionalità del giudizio politico, e il governo democraticamente eletto dagli israeliani merita la razionalità e la serenità di un giudizio politico, non il manicheismo di un giudizio universale. Ciò che non può essere in discussione è il diritto degli ebrei alla loro soggettività statuale, a essere attori della loro storia nella forma, e nella sicurezza, che è garantita a ogni altro stato nazione. E questo a prescindere dalla memoria e dall'Olocausto. Non come risarcimento, ma come diritto nazionale. Anche i palestinesi devono godere dello stesso diritto, e la comunità internazionale lo riconosce, e il governo di Israele - oggi - lo riconosce. Il problema è che nel mondo arabo c'è chi quel diritto non lo riconosce agli ebrei. Dal '47 a oggi è questo l'ostacolo principale alla pace in Medio Oriente.
L'autore ha visitato Israele insieme con la delegazione di «Appuntamento a Gerusalemme», iniziativa di solidarietà civile con le vittime del terrorismo.
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