L'articolo di Gian Guido Vecchi è largamente positivo. Spiega molto chiaramente, sopratutto ai lettori cattolici, come non vi sia alcun pericolo nel visitare Israele. Vabbè, lo chiama Terra Santa, includendoci anche la Palestina, ma è errore veniale. Per il resto è un invito ben scritto a non avere paura. Su di un solo punto dissentiamo da Vecchi. Ed è quando parla dell'esodo dei palestinesi cristiani. Scritto senza spiegare perchè, potrebbe dare al lettore l'impressione che i cristiani se ne vanno a causa di Israele. Mentre invece se ne vanno dai territori sotto l'autorità di Arafat. Non scriverlo chiaramente induce all'errore. Ci auguriamo che il Corriere torni sull'argomento specificando bene da che parte arrivano le pressioni sui cristiani in "Terra Santa".
Pubblichiamo l'articolo di G.G.Vecchi:GERUSALEMME — Quando nacque Gesù « non c’era posto nell’albergo » , ma ora gli alberghi sono semivuoti dalla Galilea a Betlemme, pure questo non sarà un Natale facile. La prima immagine è suor Assunta, una francescana sui trent’anni nata in Giordania, gli occhi neri e vivaci dei beduini, che appena visti i ragazzi del collegio San Carlo di Milano ha allargato le braccia senza dire parola, come i pastori all’annuncio dell’angelo, in piedi sui gradini della casa albergo. C’è da capirla. « Nel 2000 arrivavamo anche a trentacinque messe a l g i o r n o » , spiega suor Davida, la superiora, una siriana minuta di sessantatré anni, « adesso cara grazia se ne celebriamo tre in un mese: è una tragedia, non c’è motivo ma i pellegrini hanno paura a venire, tra l’accoglienza e il santuario siamo sei sorelle, e abbiamo dovuto mandare via tutti quelli che lavoravano qui » . Eppure siamo in uno dei luoghi decisivi della cristianità, il colle delle Beatitudini affacciato sul lago di Tiberiade: un cielo infinito, sole, silenzio, stormi d’uccelli a sfiorare la distesa d’acqua e i luoghi dove scavi archeologici e fede ricordano gli anni della predicazione pubblica di Gesù. È forse il posto più tranquillo di Israele ma non si vede nessun altro o quasi. Così per una settimana: dal Monte Tabor a Cafarnao, da Gerico a Betlemme e Gerusalemme.
La guida degli italiani è padre Bruno Varriano, trent’anni, uno dei francescani rimasti sotto assedio per 39 giorni nella Natività, studia scienze bibliche e archeologia a Gerusalemme. Impossibile avere paura, ha un entusiasmo contagioso, « beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio » , legge, e guarda i 37 pellegrini, studenti, genitori e insegnanti del collegio arcivescovile di Milano. La sequenza d’immagini si arricchisce. A Cana, ovvio, Ahmed ha stappato del vino per accogliere i ragazzi nel suo negozio di souvenir: « Sono due anni che non vedo nessuno! » . A Nazareth molte botteghe da falegname restano chiuse, davanti alla casa di Maria si vedono due arabi anziani appena arrivati da Gerusalemme, Ahmed è musulmano e il compare Émile cristiano, « facevamo le guide ma non si lavora da due anni, avete bisogno? » . Alcune mamme del San Carlo raccontano d’aver dovuto resistere a consigli di famiglia.
« Ma questa è educazione alla realtà, anche così si forma l’eccellenza: i ragazzi accettano di prendersi un rischio simbolico, altrimenti non si assumeranno mai le proprie responsabilità » , dice il rettore del collegio, don Aldo Geranzani. Ha ricevuto le congratulazioni del cardinale Dionigi Tettamanzi, il cardinale Carlo Maria Martini ha cenato venerdì con i ragazzi e ieri mattina, a Gerusalemme, celebrato per loro una messa al Santo Sepolcro. « Ricordo che Paolo VI mi diceva: vorrei che ogni cristiano andasse almeno una volta nella vita a Gerusalemme. E una volta arrivati, bisogna tornare » , dice Martini agli studenti. « Voi avete visto che le visioni di terrore che ci sono in Europa non sono reali: ditelo, quando tornate. Anche la gente di Gerusalemme cerca di vivere in modo normale. E poi gli itinerari dei pellegrini sono ragionevolmente sicuri, il rischio c’è come in tutto il mondo, come a Milano. Ma voi, arrivando qui, avete dato lavoro, fatto un’opera di bene » . Il viaggio è anche interiore, i ragazzi hanno visto la complessità. L’isolamento di Gerico con la scuola dove padre François, siriano, fa studiare un migliaio di bimbi, quasi tutti musulmani. Lo Yad Vashem. La parrocchia per i cristiani di lingua ebraica e il Muro del Pianto. I check point. « Gerusalemme è un po’ il centro del mondo, venire qui significa fare esperienza di quello che sarà il problema dei prossimi decenni in Europa: come convivere fra diversi senza schiacciarsi, disprezzarsi o ignorarsi, con amicizia » , spiega il cardinale. L’arcivescovo Pietro Sambi, il nunzio apostolico, all’alba diceva messa ai ragazzi nel silenzio del d eserto di Giuda e sorrideva: « Paura? No? Avete visto che si può andare da un luogo santo all’altro senza difficoltà... » .
Così Giuseppe Betori, segretario generale della Cei, ripete l’appello di maggio in favore dei pellegrinaggi nei luoghi « per noi santi in virtù di una memoria che deve restare presenza viva » . Anche a Gerusalemme, « se non avessimo 392 appartamenti nella Città Vecchia, oggi non vi abiterebbe neanche un cattolico latino » , sospira il padre francescano Giovanni Battistelli, Custode della Terra Santa. C’è il timore che « i cristiani scompaiano dai luoghi di Gesù, che resti solo un museo » , sospira padre Ibrahim, responsabile cattolico della Natività. A Betlemme tre quarti della popolazione lavorava con i pellegrini, il 40 per cento degli abitanti è cristiano , « la nostra comunità ha 1250 famiglie, la disoccupazione è arrivata all’ 85 per cento e noi cerchiamo di dare loro lavoro, assisterli con cibo, medicine » , racconta il parroco di Betlemme, Amjad Sabbara, un francescano energico di 37 anni. Chi ha parenti all’estero se ne va, « i cristiani sono dodicimila, ma in due anni quasi duemila hanno lasciato il distretto, 150 mila persone vivono in 5 chilometri quadrati e non possono uscire, salvo pochi permessi » . Si spiega anche così la preoccupazione del Papa per il muro e il suo tracciato. A Betania le Suore del Rosario hanno una scuola ma l’ 85 per cento degli alunni è tagliato fuori dal check point, lo stesso varrà per l’ospedale di Betlemme, l’attesa per i controlli dura ore. Nella piazza della Natività c’è il bar- ristorante Saint George, vuoto all’ora di pranzo, « è sempre così, siamo come prigionieri » , spiega la signora Mary Isa Juba, settant’anni, ortodossa, « noi non uccidiamo la gente, io spero solo di avere la pace e voglio lavorare per vivere, tutti dobbiamo vivere, no? » .
Le nubi basse e una pioggia sottile rendono più tristi le prime decorazioni natalizie. Alcuni palestinesi vendono presepi in legno d’ulivo e circondano il bus di pellegrini, un bimbo batte sui vetri e mostra un pacchetto di cicche. Al check point gli studenti vedono un gruppo di palestinesi chiusi in un recinto di lamiera che attendono in piedi i controlli, nei campi una linea di filo spinato. Educazione alla vita, diceva don Aldo, « hanno imparato più in sette giorni che in mesi di scuola » . Il soldato israeliano al check point è una ragazza che avrà diciotto anni, gli occhi scuri e profondi, al passaggio del bus scosta il mitra, sorride e saluta i coetanei.
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