Terrorismo
tutto quello che c'è da sapere
Testata: Il Foglio
Data: 28/11/2003
Pagina: 3
Autore: Emanuele Ottolenghi
Titolo: Due passi nell'oriente medio
Sul Foglio di oggi Emanuele Ottolenghi pubblica una breve ma fondamentale saggio sui significati del terrorismo. Da leggere, meditare e diffondere.
La nuova ondata di terrorismo apertasi
con l’attacco a Riad, continuata con la
strage di carabinieri a Nassiriyah e chiusasi
con i due attentati a Istanbul richiede
un urgente ripensamento delle strategie
adottate per combattere il terrorismo. Per
poter elaborare una strategia di lungo periodo
che porti alla vittoria contro chi usa
il terrore per perseguire i propri obiettivi
politici occorre superare un equivoco di
base e chiarire tre punti fondamentali sulla
natura della minaccia terroristica. L’equivoco
deriva dalla terminologia usata,
che riflette una confusione di fondo da
parte dell’opinione pubblica occidentale
sulla natura del conflitto in corso, e di conseguenza
sulla natura del nemico e sui
mezzi necessari per sconfiggerlo. La frase
"guerra al terrorismo" è uno slogan, senza
dubbio evocativo e forse a tratti pure efficace,
perché sottolinea come il metodo del
terrore sia uno strumento inaccettabile,
quale che sia la causa promossa da chi lo
pratica. Ma l’accento sullo strumento rappresenta
un problema, perché rischia di
travisare le cause che spingono alcuni ad
adottare il terrorismo come mezzo di lotta,
preferendolo ad altri metodi.
Il ricorso al metodo squalifica la causa
che il terrorista sostiene di perseguire,
perché riflette di fondo un rifiuto, da parte
di chi pratica il terrorismo, del principio
della ricerca di un compromesso politico
attraverso il dialogo, o, quando il dialogo
non fosse possibile, l’impegno a rispettare
anche nel corso di un conflitto le
regole internazionali di guerra che tutelano
per quanto possibile i civili innocenti e
creano una chiara distinzione tra combattenti
e popolazioni inermi. Inutile farsi illusioni:
il terrorismo palestinese, come
quello di al Qaida o delle Farc colombiane
non cerca di convincere il nemico a più
miti consigli per negoziare un modus vivendi
accettabile a entrambi. La scelta del
terrorismo nasce dal rifiuto del compromesso
e dalla negazione esistenziale della
controparte e delle sue ragioni, non dal ricorso
disperato alla violenza come conseguenza
di una supposta intransigenza delle
vittime del terrorismo.
I meccanismi da sindrome di Stoccolma
Il terrorismo palestinese è nato come rifiuto
dell’esistenza di Israele e sabotaggio
del processo di pace, non come reazione al
suo fallimento. Al Qaida ha pianificato gli
attacchi alle Torri gemelle – per non parlare
degli attacchi in Kenya e Tanzania nel
1998 – non come reazione all’invasione
dell’Iraq, al supposto unilateralismo di
Bush e al sostegno americano di Sharon,
ma quando l’America di Clinton era coinvolta
come mai prima furono gli Stati Uniti
a cercare un compromesso onorevole
per la pace in Medio Oriente, in un clima
di cooperazione multilaterale in nome di
principi internazionali e una visione di pace
globale. Il terrorismo in Afghanistan
non rappresenta la lotta per la libertà del
popolo afghano, ma il tentativo di privare
quel popolo della libertà attraverso la restaurazione
di un Ancien Régime reazionario
e totalitario che ospitava il terrorismo
e lo alimentava ben prima che arrivassero
gli americani. Il terrorismo in Iraq
non mira a restaurare un governo legittimo
esautorato dal crudele invasore ma a
riportare al potere un regime di terrore
privando la regione e i suoi abitanti di
speranze di libertà e benessere da troppo
tempo represse. Non solo. Spera così facendo
di indebolire l’America, di sabotare
i suoi tentativi di introdurre riforme
nella regione, facendo crollare i suoi alleati
e travolgendo l’attuale ordine regionale
per sostituirlo con un sistema ancor
più oppressivo di quanto finora sofferto
dai popoli del Medio Oriente.
In quanto strumento, il terrorismo non è
un nemico, per quanto odioso, per il fatto
che è un metodo, un’arma particolare
adottata per raggiungere scopi che trascendono
il mezzo utilizzato nel loro perseguimento.
Il nemico è chi lo pratica, non
il mezzo che adotta. Dichiarare guerra al
terrorismo: sarebbe come se l’America
avesse dichiarato guerra all’aviazione e alle
portaerei dopo Pearl Harbor. Certo, di
fronte agli attacchi aerei occorre sviluppare
un buon sistema antiaereo, ma quando
l’America entrò in guerra nel dicembre
1941, essa dichiarò guerra ai totalitarismi
nazifascisti di Europa e Giappone, e la
guerra fu uno scontro tra mondo libero e
totalitarismo, non tra tecnologie e sistemi
di difesa che erano semplici mezzi adottati
per raggiungere uno scopo. Per analogia,
occorre riconoscere due cose: primo, che
il terrorismo è un mezzo di cui si arma il
nemico, e secondo, che la scelta del metodo
terrorismo deriva da un rifiuto assoluto
della possibilità di qualsiasi compromesso
e convivenza – quindi chi pratica il
terrore può soltanto essere sconfitto e annientato,
non placato a suon di concessioni
nell’illusione che il ricatto cesserà. Il
terrorismo è l’arma di lotta, lo strumento
del nemico, non il nemico.il Foglio un anno fa (22 ottobre 2002), che il
terrorismo è una strategia il cui scopo non
è sconfiggere il nemico in battaglia, ma –
attraverso i ripetuti attacchi a bersagli
inermi – distruggerne la volontà di combattere.
Quindi, è estorsione mafiosa. Ogni
orrore cerca di piegare la nostra determinazione
a reagire e respingere il ricatto.
Cerca di costringerci ad accettare le concessioni
politiche che il terrorismo esige.
Colpisce apposta l’innocente per creare
la pericolosa impressione che la vittima
debba in qualche modo essere responsabile.
Utilizza quindi i meccanismi di manipolazione
psicologica simili alla sindrome
di Stoccolma sull’opinione pubblica. I
sensi di colpa occidentali generati dalla
strategia del terrore indeboliscono la nostra
determinazione a reagire, a rispondere,
e a combattere. Riconoscere anche soltanto
un grammo di ragione ai terroristi,
dicevamo allora, significa pagare un pizzo
morale.
Il terrorismo è un mezzo, la cui scelta riflette
una disposizione ideologica proiettata
verso il rifiuto totale delle ragioni dell’avversario
e motivato da un’ideologia che
sopraffa l’istinto di sopravvivenza in nome
di un ideale totalizzante. Per combattere
con efficacia chi ricorre al terrorismo (e
non soltanto il terrorismo in sé e per sé)
l’imperativo principale è riconoscere tre
elementi indispensabili per vincere la
guerra: la strategia del nemico, gli obiettivi
del nemico, la natura del nemico.
La logica del conflitto asimmetrico
Il nemico che l’Occidente oggi affronta
globalmente, dai supermercati di Gerusalemme
alle stazioni di polizia di Nassiriyah
e Fallujah, dalle sinagoghe di Istanbul
alle cattedrali europee, dai distretti finanziari
di New York e Londra alle stazioni
ferroviarie di Milano e Parigi, dalle superpetroliere
francesi al largo dello Yemen
alle raffinerie di Tel Aviv è un nemico
che ha consapevolmente adottato la logica
della guerra asimmetrica, altrimenti
definita come guerra di quarta generazione.
Secondo il sito Internet del Defense
and National Interest (www.d-n-i.net), "la
guerra di quarta generazione comprende
tutte le forme di conflitto dove la controparte
si rifiuta di combattere secondo le
regole". La differenza tra la guerra di
quarta generazione e altri tipi di conflitto
è che "almeno una delle parti nel conflitto
consiste in qualcosa di diverso da una
forza militare organizzata e operante sotto
il controllo di un governo nazionale, e che
di solito trascende i confini nazionali".
Ma mentre queste definizioni possono
applicarsi comodamente a milizie indipendentiste
in lotta contro i governi centrali,
à la Vietcong per esempio, esiste
un’altra importante definizione che caratterizza
i nuovi tipi di conflitto, di cui il terrorismo
rappresenta la manifestazione attualmente
più ovvia: "La distinzione tra
guerra e pace verrà erosa a tal punto da
svanire. Il conflitto sarà non lineare, a tal
punto da non avere definibili campi di
battaglia o fronti. La distinzione tra civile
e militare potrebbe sparire". Questo è il
salto di qualità del terrorismo. Il fronte è
il supermercato, il cinema sotto casa, la
stazione della metropolitana da cui prendo
il treno per andare a lavorare. Il nemico
non è il soldato in divisa di un esercito
straniero che mi invade o si difende dal
mio attacco, ma il sorridente signore che
siede di fronte a me sul treno che dovrebbe
portarmi al lavoro e che lui, imbottito
di Semtex sotto il giaccone da pioggia, si
appresta a far saltare in aria. La guerra
non è solo a Baghdad, le vittime non cadono
solo a Nassiriyah. Presto saranno a Roma,
Londra, Berlino, Parigi. Istanbul è soltanto
una tappa del viaggio di morte che ci
tiene nel mirino da anni ormai. Che non
sia successo ancora lo dobbiamo alla loro
fragilità operativa seguita alla reazione
americana dopo l’11 settembre, e all’efficacia
dei nostri servizi segreti. Il che non
esclude che prima o poi ci tocchi.
Le nuove regole indispensabili
La natura del metodo scelto dal nemico
ci impone dunque un ripensamento delleregole e delle strategie di lotta: come già
scritto sul Foglio (1 marzo 2003), la normativa
internazionale vigente presuppone
quelle distinzioni che i terroristi volutamente
ignorano. I limiti autoimposti che
mirano a tutelare i civili e a concentrare
per quanto possibile i conflitti a contesti
tra eserciti diventano debolezze e impedimenti
nella guerra sporca scatenataci contro
con metodi non convenzionali che evitano
volutamente lo scontro tra eserciti e
mirano invece a sconfiggere il nemico colpendone
il fianco più debole ed esposto
(obiettivi civili), distruggendone la volontà
di combattere, agendo sull’opinione pubblica
per erodere il consenso politico, e
costringendo infine il nemico a desistere e
capitolare.
Il terrorismo vince, attacco dopo attacco
– come già scritto sul Nuovo.it (13 Maggio
2002) – "non perché ha la forza militare e
politica di imporre la propria visione del
mondo o i propri interessi. Bensì perché ci
logora, bomba dopo bomba, virus dopo virus.
Spesso senza prendersi la responsabilità
ufficialmente, ma lasciando la società
colpita non soltanto nel dolore, ma
persino nel dubbio di chi sia il mandante
e quali siano i motivi". I tempi non erano
maturi allora. Scrivevamo che "il kamikaze
non è dunque l’attentatore suicida, ma
un’arma tattica, un pilota automatico che
guida l’arma vera e propria (l’esplosivo
nella borsa o in cintura, l’autobomba, l’autobus
imbottito di tritolo, l’aereo commerciale)
contro l’obiettivo. Il terrorista suicida
è la bomba intelligente dei poveri".
Quanto scrivevamo allora incontrò indifferenza
o derisione: veniva visto come delirio
lunatico di estremismo che mal comprendeva
"le ragioni dei terroristi". Non
era necessario il sacrificio dei nostri soldati
a Nassiriyah per capirlo, ma forse oggi
i tempi sono maturi per rivedere la posizione
europea (gli americani lo hanno
capito l’11 settembre) sulla questione terrorismo.
Ed è triste constatare come soltanto
il tributo di sangue che ci tocca da vicino
ci abbia costretti a vedere quanto era
ovvio da tempo ma che nessuno, per amor
di quieto vivere, si illudeva che non ci
avrebbe sfiorato.
Comprendere dunque la logica del terrorismo
è il primo passo indispensabileper elaborare una risposta efficace: la
guerra di quarta generazione si basa sulle
dottrine maoiste dell’insurrezione civile e
della guerriglia. Toccata e fuga, lunghe
snervanti campagne atte non a distruggere
il nemico, ma a demoralizzarlo. Atte
non a sconfiggere il nemico sul campo, ma
a privarlo del desiderio di combattere. Atte
a neutralizzare la superiorità tecnologica,
militare, economica del nemico, rivoltandogliele
contro. Ad esempio attraverso
l’uso spregiudicato ma efficace che
il terrorismo sta facendo dei mass media
occidentali, dove è riuscito a presentare
se stesso come un paladino dei deboli e lo
strumento di lotta contro l’ingiustizia imperialista
e globalizzatrice, invece che
quello che è veramente, cioè lo strumento
di un’ideologia totalizzante, oppressiva,
antimoderna e assassina.
Sottesa al metodo esiste una visione del
mondo, che chiarisce quali siano gli obiettivi
dei terroristi. In un recente articolo
apparso su un sito internet legato ad al
Qaida (citato su www.d-n-i.net), l’autore sostiene
che "è giunto il momento per i movimenti
islamici che confrontano un’offensiva
generale crociata di interiorizzare
le regole della guerra di quarta generazione".
Non lo diciamo noi un po’ fantasiosamente
che questa è la strategia adottata
dal nemico, lo dice il nemico stesso. Il
che mette a nudo il secondo e cruciale elemento
nella lotta al terrorismo. Da due anni
a questa parte troppi, politici e intellettuali,
giornalisti e commentatori, accademici
e opinionisti, presumono di sapere
quali siano gli scopi, le aspirazioni, le motivazioni
e gli argomenti dei terroristi, senza
darsi pena di ascoltare quello che essi
invece dicono candidamente e apertamente.
Non si può sconfiggere il nemico se
non lo si conosce. L’Occidente oggi non conosce
bene chi lo attacca. Farebbe bene a
studiarlo, a capire come pensa, che cosa
vuole e come cerca di ottenerlo.
Lo scontro di civiltà
Scoprirebbe allora che la causa palestinese
è marginale all’ideologia che motiva
i terroristi e che i riferimenti alla Palestina
sono diventati centrali ai comunicati di
Osama bin Laden soltanto dopo l’11 settembre
e che anche quando se ne parla laPalestina appare a pari merito con la Cecenia,
l’Iraq e il Kashmir, non come causa
simbolo ma come uno dei tanti fattori di
scontento. Bin Laden, o chi per lui, ha ben
compreso come l’uso della carta palestinese
avrebbe aperto una breccia a suo favore
in Occidente, seminando dubbi e
scompiglio e facendo leva sulle simpatie
filopalestinesi nei media occidentali per
indebolire la capacità di reazione occidentale.
L’Occidente ha fatto di tutto per
ricusare la tesi di Samuel Huntington sullo
scontro di civiltà, sostenendo giustamente
che l’Islam è una religione di pace
e sottolineando che la guerra in corso non
è una guerra dell’Occidente contro l’Islam.
Ma questa affermazione d’intenti non può
ignorare come al Qaida creda invece che
sia in atto uno scontro di civiltà (o comunque
che sperava di scatenarlo), che l’obiettivo
principale di bin Laden e dei suoi
seguaci è di cacciare la modernità dal
mondo islamico per imporvi una visione
medievale, antimoderna e totalizzante dell’Islam,
prima di lanciare, in un futuro non
definito, una guerra santa di conversione
contro l’Occidente. A un Huntington vilipeso
e sconfessato in Occidente si contrappone
un Huntington citato frequentemente
con deferenza su siti islamici come
profeta del corrente scontro in atto. A una
distinzione tra Francia e America fatta
con insistenza forse persino un po’ strumentale
in Occidente (nella speranza che
il terrorismo non colpisca quei paesi come
la Francia che si dissociano dagli Stati
Uniti) si contrappone una guerra indifferenziata
contro "l’offensiva crociata", dove
i francesi massacrati a Karachi e la superpetroliera
francese colpita al largo dello
Yemen sono obiettivi "cristiani" e "infedeli",
dove la nazionalità e le politiche
del governo contano ormai poco, dove non
si fanno sottigliezze e distinguo tra nemici,
neutrali, amici o semplici conoscenti. Non
è Bush che ha scatenato improvvidamente
uno scontro di civiltà, è bin Laden che vede
il mondo attraverso la lente manichea
dello scontro alla fine dei tempi tra il Bene
e il Male, tra la Luce e l’Oscurità, tra la
volontà di Dio e le forze di Satana.
Un esercizio di umiltà intellettuale, centrato
sulla volontà di ascoltare il nemico e
capirne la logica, il modo di pensare, la
mentalità e le motivazioni, aiuterebbe
l’Occidente a scoprire che sottostante la
tecnica dell’attentato suicida esiste un’ideologia
del Jihad inteso come lotta violenta
per l’eliminazione dell’apostasia dal
mondo islamico, apostasia intesa come
corruttrice influenza esterna che è la causa
prima del declino dell’Islam. L’obiettivo
in questo percorso è la rimozione della
fonte di questa influenza nefasta (l’Occidente)
e la sconfitta di chi questa influenza
l’ha permessa (i regimi visti come non
islamici del mondo arabo e i modernizzatori
dell’Islam, sia nazionalisti laici sia liberali).
Non a caso, dato frequentemente
omesso dai mezzi d’informazione occidentali
ostaggi del fascino romantico dei terroristi
come "resistenti" e combattenti
della libertà solo perché nemici dell’odiata
America e degli ancor più odiati sionisti,
le vittime principali del terrorismo di
matrice islamica sono prima di tutto i musulmani.
Il fondamentalismo islamico ha
massacrato non soltanto milioni di cristiani
e animisti in Sudan, ma anche centinaia
di migliaia di musulmani in Algeria, Afghanistan,
Libano e Iran. La maggioranza
delle vittime della nuova ondata di attentati
recenti – in Marocco, Arabia Saudita,
Iraq e Turchia – è musulmana.
La potente ideologia mobilizzatrice
La comprensione degli obiettivi del nemico
ne chiarirebbero anche la natura.
Non movimento di diseredati, ma potente
ideologia mobilizzatrice, che fa presa su
problemi largamente endogeni delle società
dove recluta accoliti per promuovere
una specifica visione del mondo perseguita
attraverso i mezzi del terrore. E’ questo
l’ultimo tassello nella formulazione di
una strategia vincente.
Proprio perché strategia asimmetrica, il
terrorismo trasforma la propria debolezza
in forza, impedendo al suo nemico di dispiegare
completamente la propria forzaindebolendone la motivazione a lottare, e
privandolo del sostegno politico necessario
a perseguire i suoi scopi. Proprio perché
ideologia che offre una speranza di riscossa
e una spiegazione normativa (se
non addirittura teologica) allo stato di declino
e corruzione delle società islamiche,
il fondamentalismo islamico che utilizza il
terrorismo può in ultima analisi soltanto
essere neutralizzato nei suoi propositi genocidi
nel breve periodo da una strategia
esclusivamente militare, sia essa di prevenzione
o di reazione. L’intelligence, l’intervento
militare, l’attacco sistematico alle
risorse economiche del terrorismo sono
tutti passi necessari per la vittoria. Ma, per
ricorrere alla terminologia classica della
lotta alle insurrezioni e alla guerriglia, occorre
nel lungo periodo prosciugare il mare
nel quale nuota il pesce del terrorismo.
I terroristi hanno adottato la teoria classica
dell’insurrezione di Mao, basata sull’Arte
della Guerra di Sun Tzu. Nella fase
più debole, la lotta si svolge attraverso
operazioni di toccata e fuga, atte a sfiancare
e demoralizzare il nemico. Una volta
conquistate solide basi territoriali e controllo
delle risorse, la lotta può trasformarsi
in forme più convenzionali. Elemento
critico di questa strategia è il sostegno
popolare. I terroristi da anni ormai
mirano a far cadere i regimi che loro considerano
come apostati (i corrotti sauditi
ed egiziani, i laici turchi traditori del califfato)
per impadronirsi di territorio e risorse.
Godono di sostegno popolare che
aumenta o diminuisce in relazione alle
condizioni socio-economiche e politiche
dei paesi interessati e all’esistenza di alternative
politiche allo stato attuale delle
cose. L’Occidente quindi non deve limitarsi
a combattere il terrorismo con operazioni
antiterroristiche, intelligence, rastrellamenti,
congelamenti di conti, espulsioni
e arresti di estremisti, ma deve anche
adottare una strategia di lungo periodo
tesa a offrire ai potenziali sostenitori
del fondamentalismo islamico e della sua
ideologia totalitaria un’alternativa politica
che mostri come la modernità, la libertà
politica, l’integrazione economica, la
democrazia rappresentativa, il rispetto
delle minoranze siano non solo possibili
nelle terre dell’Islam, ma che in ultima
analisi siano preferibili all’opzione totalitaria
e antimoderna offerta oggi da Osama
bin Laden e dai suoi seguaci.
L’offerta di un’altra visione, libertaria
Il fondamentalismo islamico ha adottato
la strategia del terrore per distruggere
lo status quo regionale in Medio Oriente,
sostituendolo con un nuovo ordine islamico
antioccidentale, antimoderno, fondato
su una lettura radicale dell’Islam. Finché
l’alternativa a bin Laden rimane la difesa
a oltranza dello status quo fondato sulla
monarchia saudita, la tirannia baathista,
l’autoritarismo egiziano, la corruzione diffusa,
la sperequazione sociale, la discriminazione
delle donne e l’oppressione
delle minoranze, bin Laden offre una speranza
all’attuale, sconcertante, deprimente
condizione umana e politica del Medio
Oriente. La risposta dell’Occidente deve
dunque farsi carico di offrire un’altra visione,
ugualmente radicale e alternativa
allo status quo, ma in chiave libertaria, democratica
e moderna.
Riconoscimento del metodo dunque, ma
anche apprezzamento e comprensione
della natura e degli obiettivi di chi ricorre
al terrorismo sono indispensabili oggi all’Occidente
se si vuole vincere la partita
contro il terrore.
Con due necessarie postille conclusive:
innanzitutto si tratterà di una lunga lotta,
che presenterà molti sacrifici e passi falsi,
lutti e battute d’arresto. L’11 settembre è
come l’assedio di Berlino e la bomba atomica
sovietica nel 1949. Mancavano allora
ancora quarant’anni alla sconfitta dell’ideologia
comunista, avvenuta soltanto dopo
una lunga guerra di posizione caratterizzata
non solo da successi ma anche da
sconfitte e passi falsi. Occorrono dunque
pazienza e determinazione per accettare
che la vittoria non verrà né domani né
l’anno prossimo. Si tratta di uno scontro
che ci accompagnerà per una, forse due
generazioni. Secondo, se il nemico vincesse
non farà distinzioni tra quei paesi che
hanno scelto di schierarsi con gli Stati
Uniti e quelli che sono rimasti ai margini
a guardare. L’impossibilità di una terza via
tra lo scendere in campo con gli Stati Uniti
e il parteggiare per Saddam Hussein,
bin Laden e gli altri sterminatori che con
loro combattono non deriva da un atteggiamento
apparentemente manicheo dell’Amministrazione
Bush. Deriva dal manicheismo
totalitario di bin Laden. Noi o loro,
questa la sfida che rappresentano l’11
settembre, il terrorismo palestinese, la
strage di Nassiriyah, e i massacri di Istanbul.
Da troppo tempo ci siamo nascosti
dietro false illusioni terziste. Ora occorre
scegliere da che parte stiamo.

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